Il dolore è declinato al passato. La giustizia ci ha consegnato un colpevole: uno scafista che però si dice innocente. Mentre da un rapporto Frontex emerge che l’Italia acconsentì nel sottovalutare l’emergenza. Il che è diverso dal «non essere stati avvisati» di cui parlò Meloni. Quisquilie. Ormai ci si può permettere di non difendersi nemmeno dall’accusa di ipocrisia.
Siamo vicini all’anniversario della tragedia di Cutro. Nelle notte tra il 25 e il 26 febbraio di un anno fa un caicco partito dalla Tunisia carico di un numero imprecisato di migranti si schiantò contro una secca a poche decine di metri dalla costa, non lontano dalla foce del fiume Tacina. Novantaquattro i morti accertati, di cui 35 minori. Ottanta i sopravvissuti. I dispersi nel Mediterraneo invece non si contano più. Contare di notte su una barca o nei momenti concitati dell’imbarco è una pratica difficile di questi tempi per i fuggitivi. Qualcuno dice che sulla barca ci fossero 200 persone, qualcuno suggerisce 180. Chi manca è morto e mai ripescato. Per questo dare numeri è difficile.
A ogni naufragio che ci sanguina in salotto il «mai più» viene ripetuto con meno vigore
Un anno dopo la tragedia Cutro sembrano passati 100 anni. Ai vivi si sono asciugati i polmoni e quei morti non sanguinano più, sono numeri senza identità, nomi e cognomi che non hanno mai meritato un elenco sulla pagina di un giornale. Lutti cortissimi dedicati ai parenti stretti. Il dolore collettivo, finanche l’indignazione, sono declinati al passato. Ogni volta che un barchino si rovescia troppo vicino alle nostre coste e ci sanguina in salotto, il «mai più» viene ripetuto con meno vigore, come una litania stanca. Ci promettiamo che serva di lezione ma non serve. Non è nemmeno una lezione, a pensarci bene, poiché non insegna. Il bello degli annegamenti nel Mediterraneo è che sono raccontabili come qualcosa che avviene all’orizzonte, lontano da noi. Il mare che per secoli è stato di tutti, ricchezza irrinunciabile di popoli e Paesi, in quel lembo non è più di nessuno. Il mar Mediterraneo è uno dei pochi luoghi del mondo in cui gli Stati cedono volentieri il proprio territorio al vicino per non doversene occupare. A noi basta la spiaggia per la lunghezza che serve a un campo da pallavolo e un chiosco di bibite e gelati e il mare utile per farci il bagno e schizzare con un gommone. Il resto è un bidone liquido dell’umido abbandonato in una strada buia.
La giustizia italiana ci ha consegnato un colpevole che però dice di essere innocente
Le responsabilità della strage di Cutro che stuzzicavano la politica, le televisioni e i giornali sono state sepolte dalle indignazioni successive. Ora è il tempo dei trattori, prima era il tempo delle guerre, poi ci sarà il tempo della lotta alla lotta al cambiamento climatico. Gli esperti di quei giorni hanno dismesso gli abiti dei marinai ed esperti d’Africa e ora discettano di carburante agricolo e dell’Europa cattiva. La giustizia italiana qualche giorno fa ci ha consegnato un colpevole della strage. Gun Ufuk ha 29 anni ed è turco. Scafista, dice la sentenza. Per tutto il processo Ufuk ha detto di non avere mai toccato un timone in tutta la sua vita. Ha raccontato di essersi improvvisato meccanico di bordo per poter pagare meno il viaggio. Non gli hanno creduto. È colpa sua, quindi. Tanto ormai Steccato di Cutro è un ricordo talmente sfocato che un cognome del genere potrebbe perfino bastare.
Secondo l’ultimo rapporto Frontex, anche l’Italia sottovalutò l’emergenza
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni sei giorni dopo la strage ha chiarito le responsabilità. Meglio, ha voluto chiarire che le responsabilità non erano sicuramente del governo italiano: «Nessuna comunicazione di emergenza da Frontex ha raggiunto le nostre autorità. Non siamo stati avvertiti che questa barca era in pericolo di affondare», disse. È la presidente del Consiglio, come possiamo permetterci di non crederle, di mettere in dubbio la sua parola soprattutto di fronte a quell’ammasso di morti. L’agenzia europea Frontex in un rapporto che abbiamo potuto leggere solo qualche giorno fa scrive in realtà che l’Italia, rappresentata da due suoi militari, era proprio nella stanza dell’agenzia a Varsavia con il dovere di sorveglianza. Dice Frontex che quando ha deciso – colpevolmente, questo ci permettiamo di dirlo noi – di non classificare quel barchino arenato come un’emergenza gli italiani hanno acconsentito. Acconsentire nel sottovalutare un’emergenza è sostanzialmente diverso dal «non essere stati avvisati» di cui parla Giorgia Meloni. Quisquilie, certo. La tragedia ormai è blanda e quindi ci si può permettere di non difendersi nemmeno dall’accusa di ipocrisia. Steccato di Cutro è diventato tema per appassionati e professionisti. La parola Cutro è diventata sinonimo di un decreto firmato dal governo con cui si puniscono le navi delle Ong che si permettono di fare più di un salvataggio. La parola Cutro è nella decisione politica di assegnare porti sempre più lontani alle navi che salvano vite per tenerle il più lontano possibile dai luoghi di salvataggio. Meno testimoni ci sono meglio è per tutti. I morti di Cutro lo insegnano. Se quei corpi non fossero arrivati sulla spiaggia avremmo potuto non accorgercene e l’Italia e l’Europa ne sarebbero state felici. Un anno dalla strage di Cutro e noi ce ne siamo dimenticati. Qualcuno potrebbe chiamarla resilienza: in fondo ci siamo abituati all’orrore per non doverci fare i conti troppo a lungo.
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