Improvvisamente, nessuno (e siamo solo all’inizio di maggio) scommette più sul futuro politico di Roberto Formigoni, fino a ieri solidissimo governatore della Lombardia. Riuscirà a sopravvivere agli scandali (di notevole entità, peraltro: Mani Pulite capitalizzava un decimo di quanto hanno arraffato gli attuali – piissimi, cattolicissimi – consulenti della sanità lombarda)?
Cadrà per mano dei pubblici ministeri, o sarà semplicemente trascinato a fondo dalle sue vacanze troppo pacchiane? Trascinerà con sé in disgrazia anche il più potente movimento conservatore del cattolicesimo italiano, quella Comunione e Liberazione che lo ha messo alla guida della più ricca regione dell’Europa?
In attesa della risposta, c’è da rilevare una storia propria della città, una dura sequenza di fatti che non gioca a favore del futuro politico di Roberto Formigoni. La storia riguarda Milano, città in continua ebollizione, fantastica culla di movimenti politici, nutrice e sostenitrice degli stessi, ma capace anche di trasformarsi improvvisamente in nemica e di schiacciare chi aveva osannato, con decisione rapida e, come vedremo, con una certa crudeltà.
Negli ultimi cent’anni è successo a Benito Mussolini, a Bettino Craxi, a Silvio Berlusconi, a Umberto Bossi, e ora sembra proprio che tocchi al Governatore, detto anche «Il Celeste». Il quale sicuramente non si dispiacerà di essere finito in cotanta compagnia: lui che si lamenta dei cronisti, dei gossip, dei media, ancora non si rende conto di essere entrato nella Storia.
L’argomento, se ci pensiamo, è affascinante, come la città di cui parliamo. Prendiamo il primo esempio, vecchio ormai più di un secolo. Siamo nel marzo del 1919, Benito Mussolini è ancora uno stravagante ed eccentrico socialista, ma sa che se vuole sfondare deve farlo a Milano, perché è la città più moderna, più ricca, più sensibile. La città che sale, come l’ha definita un pittore futurista.
E così i suoi cento fondatori dei «Fasci di combattimento», che si riuniscono nella sede dell’Unione degli industriali di piazza San Sepolcro, ottengono proprio qui i primi finanziamenti e incoraggiamenti, che diventeranno sempre più cospicui, uniti a quelli degli agrari emiliani, specie quando i neonati fascisti incominceranno ad aggredire le Camere del Lavoro, a uccidere sindacalisti, a inaugurare la stagione dello squadrismo politico.
La borghesia milanese ha una vista lunga: dal momento che non vuole il bolscevismo in Italia, Benito Mussolini, con i suoi metodi, le va benissimo. La storia, come tutti sanno, finirà solo nel 1945. Ma sono importanti i dettagli. Distrutto dall’andamento della guerra, ormai orrenda marionetta di Hitler, Mussolini cercherà l’ultimo consenso proprio a Milano. Il 16 dicembre del 1944 il Duce parla al Teatro Lirico, stracolmo di folla ancora osannante (e ci voleva un bel fegato!).
È sicuro di poter ancora trovare una via d’uscita, una resistenza a nord del Po (a proposito: la Padania la inventò lui, in quell’occasione). L’aria è lugubre, quel giorno a Milano, ma la folla gli batte le mani. Nell’aprile del 1945 il suo cadavere penzolerà dalla struttura di un distributore di benzina in piazzale Loreto e i milanesi faranno a gara per farne scempio.
Curioso, vero? Appena quattro mesi dopo l’ultima investitura. Leo Valiani si chiese quanti di quelli che erano al Lirico erano anche a piazzale Loreto, ed era un’ottima domanda. Il giovane scrittore Oreste Del Buono si chiese invece se quelli che vi arrivarono non fossero chiamati per «l’estrema manifestazione indetta da Lui», cui non potevano sottrarsi. E Lui era uno che con i media ci sapeva fare.
Il fascismo, nato a Milano, morì a Milano. Durò vent’anni. Ma quel finale – wow!, chi non se lo ricorda! Da allora, nel linguaggio politico, quando sulla scena compare un avventuriero, quel distributore di benzina viene sempre evocato, essendo diventato una parte del carattere italiano. L’organizzata ferocia milanese contrapposta alla volubilità della plebe romana o alle imprevedibili esplosioni del Sud.
Secondo esempio, a dimostrazione di quanto Milano sia senza cuore, è il caso di Bettino Craxi. Leader di un partito socialista che è la principale anima storica della città, assume rilevanza nazionale a metà degli anni Settanta, quando si mette al centro della scena politica. A Milano regala sviluppo, soldi, spregiudicatezza, progresso (e ci mette la normale dose di corruzione di quei tempi, il 5 per cento) e la cosa dura fino al 1992.
Un attimo prima dell’inizio di Mani Pulite, Paolo Pillitteri sindaco (cognato di Bettino) aveva il consenso del settanta per cento dei milanesi, un mese dopo i milanesi inseguivano i craxiani con i forconi. Craxi capì subito, e nella sua Milano non abbozzò neppure una resistenza. Il craxismo era durato sedici anni, nato a Milano con concorso di popolo e borghesia, stroncato a Milano dalla Procura, con concorso di popolino e borghesia.
E Berlusconi, allora? Questi sono stati quasi vent’anni della nostra vita e li dobbiamo tutti a Milano, che ne accompagna l’ascesa come si fa per il figlio prediletto. È allegro, fa circolare il denaro, considera quasi un insulto il pagare le tasse, odia i lacci e lacciuoli intessuti dalla burocrazia, dalla Guardia di finanza, dai pretori; sopporta a malapena i sindacati; Milano apprezza la sua furbizia, la volgarità da nuovo ricco; lui fa divertire i cittadini dandogli la televisione gratis e una stellare squadra di football.
E quindi gli si perdona tutto: i fascisti sdoganati (Milano era una volta una città antifascista), la mafia portata in casa, la volgarissima vita privata e le spregiudicate alleanze politiche. Non c’è dubbio che Milano, nei suoi umori più profondi e più specifici l’abbia eletto coscientemente a proprio campione; ma, quasi ci fosse un sentire più profondo, è stata capace, cinicamente, di sciogliere unilateralmente il contratto.
Annebbiato dal suo formidabile successo, Berlusconi aveva scelto proprio Milano – e la piazza San Babila ricca di memorie fasciste – per proclamarsi, nel 2007, leader naturale di un «partito di tutto il popolo italiano» con una scenografia retro e vagamente lugubre – il famoso discorso «del predellino», denominazione abbastanza curiosa perché le automobili hanno smesso di avere il predellino a partire dagli Anni 40. Due anni dopo, ebbe un incontro ravvicinato con la città quando un invasato lo colpì al volto con una statuetta souvenir del Duomo; e da molti la cosa venne vista come un brutto presagio.
Si venne a sapere che la sua reggia, ad Arcore, era stata trasformata in una specie di bordello, dove il re senile era alla mercè di ogni ricatto, una specie di Salò pasoliniana. E così Milano si accorse che il tempo di Berlusconi era scaduto, non serviva più; e alle elezioni per il sindaco del 2011, la sconfitta gli arrivò come uno schianto.
Non c’era stato, naturalmente, un piazzale Loreto; ma un certo aspetto di gogna, anche fisica, Milano non gliela aveva risparmiata. Il berlusconismo era durato diciotto anni. Poco dopo venne il turno di Umberto Bossi, che Milano non aveva mai veramente sposato, ma accettato come un male necessario. Vent’anni anche per lui, comunque.
La vicenda attuale di Comunione e Liberazione (e del suo maggiore esponente politico, il governatore Roberto Formigoni), è invece più complessa e con radici più profonde e inaspettate. Caso pressoché unico, di fronte ai grandi cambiamenti del ’68, Milano reagì diventando la culla di un movimento religioso cattolico di stampo molto conservatore.
Cl, fondata da un insegnante di religione, don Luigi Giussani, allibito dall’idea che delle studentesse liceali potessero prendere la pillola, si poneva in contraddizione con la tradizione del cattolicesimo lombardo progressista, con il Vaticano post-conciliare, propugnando una visione della vita molto antimoderna, specie nella sfera sessuale, ma anche una militanza comunitaria, una messa in comune dei profitti delle attività collettive, una tensione di testimonianza cristiana.
Di nuovo, Milano. E non Roma, o Torino. (Milano, dove, nel ’68, si ebbe anche l’unico caso al mondo di un movimento studentesco che sfilava con decine di migliaia di ragazzi inalberando ritratti di Stalin e del suo capo dei servizi segreti, Beria). Cl incarnava uno spirito profondo di Milano? La città laica nascondeva un cuore religioso inaspettato? Evidentemente sì, se si pensa che Cl ha avuto negli ultimi quarant’anni un eccezionale sviluppo, ha conquistato un grande potere politico, ha creato una classe dirigente, si è proposta come modello economico.
Ora è nel bel mezzo di uno scandalo di cospicue dimensioni che la colpisce nella sua stessa essenza. Testimoni della cristianità ritrovata sono in carcere accusati delle più laica delle attività, la tangente e la corruzione; lo stile di vita è messo a dura prova dagli yacht, dalle giacche, dal narcisismo e dall’amore per il lusso del governatore Formigoni.
La città tratterà anche lui come un nuovo corpo estraneo? E in quale modo avverrà la rottura? È quello che sapremo, forse, nelle prossime settimane. E a quel punto la città, abituata al marketing, si guarderà intorno per trovare qualcuno che, almeno provvisoriamente, la rappresenti. È come una bestia curiosa, Milano, non può stare ferma per sua stessa natura. Ha traffici da gestire, grattacieli da costruire, un’infinità di commerci da portare avanti, immigrati da sfruttare, ma anche da accogliere, un arcigno Palazzo di
Giustizia da tenere a bada e con cui mettersi d’accordo, brevetti da catturare, un benessere diffuso da mantenere. Non ha mai veramente amato i leader politici che ha lanciato nell’arena, che pure ha votato e finanziato, e quindi non ha particolari rimorsi quando li fa cadere. È senza anima, Milano. Oppure, se volete, è la forma più avanzata di democrazia.