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Morto di lavoro. Troppo.

Storie di questo secolo:

A ucciderlo è stato anche il ‘superlavoro‘. Per questo la Asl per la quale lavorava è stata condannata a indennizzare la vedova e la figlia. La sentenza della sezione Lavoro della Corte di Cassazione riguarda la morte, nel 1998, di un radiologo all’epoca trentenne in servizio in un ospedale alle dipendenze dell’Azienda provinciale sanitaria di Enna. Turni lunghissimi, reperibilità e anche il passaggio da un reparto all’altro d’inverno all’aperto sarebbero stati tra i motivi del decesso per una cardiopatia ischemica silente. Di qui la condanna dell’azienda al pagamento dell’equo indennizzo chiesto dalla moglie e dalla figlia, allora minorenne, del radiologo.

Per la Suprema Corte non è “accettabile riversare sui dipendenti tutto l’onere di garantire le prestazioni sanitarie ai pazienti”, anche in caso di carenza di organico. Perché, rilevano i giudici, è l’imprenditore (in questo caso l’Azienda sanitaria) ad essere “tenuto ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Ed è “irrilevante” che il radiologo negli anni non abbia contestato i turni. “Sarebbe inaccettabile – scrive la Cassazione – introdurre il principio per cui solo chi si lamenta delle condizioni del lavoro o sollecita misure a tutela della propria incolumità può poi reclamare i danni“.

Nel procedimento i giudici ricordano le cifre del superlavoro: dal 1991 al 1998 (data del decesso) i quattro tecnici di radiologia avevano effettuato 148.513 esami, una media di 18.564 annui, più quelli del servizio di tomografia computerizzata, 662 l’anno. Inoltre, svolgevano turni di pronta disponibilità notturna e festiva e di pronta disponibilità diurna in eccesso rispetto ai limiti previsti dalla contrattazione collettiva. Sulle cause del decesso la Cassazione scrive che “un’eventuale predisposizione costituzionale del soggetto”, deceduto per una cardiopatia ischemica silente, “non può elidere l’incidenza concausale, anche soltanto ingravescente, dei nocivi fattori esterni individuabili in un supermenage fisico e psichico, quale quello documentato in atti”.

In primo grado il Tribunale aveva dato ragione agli eredi, la Corte d’appello aveva invece riformato la sentenza. La Cassazione, valutando inammissibile il ricorso accidentale, ha ritenuto “passata in giudicato la condanna dell’Asp al pagamento al giusto indennizzo” e ha rinviato gli atti alla Corte d’appello di Palermo per “provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità”.

(fonte)