(un gran pezzo di Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella)
«Sono stanco di questo stile di vita, soprattutto di quella di mio padre. Io stesso l’ho indotto a fare questa scelta». La prime ore della mattina del 13 settembre. Nell’ufficio al quinto piano della Procura di Milano, davanti ai pm Alessandra Cerreti e Cecilia Vassena, c’è un ragazzo di 29 anni cresciuto nel lembo di terra tra le province di Milano, Varese e Novara che circonda l’aeroporto di Malpensa. Salvatore De Castro è il figlio di Emanuele, 51 anni, nato a Palermo ma affiliato alla ‘ndrangheta lombarda. Vicino al clan di Villagrazia di Cosa nostra, «il siciliano», come veniva chiamato, è stato «battezzato» a ridosso della Pasqua del ‘97. Nella ‘ndrangheta ha scalato le gerarchie al fianco del capolocale di Legnano Vincenzo Rispoli. Prima del suo nuovo arresto il 4 luglio nell’operazione «Krimisa» dei carabinieri e della Dda di Milano, De Castro era arrivato al ruolo di «capo società», vice reggente della cellula calabrese di Legnano. Oggi anche lui, come il figlio Salvatore, è un collaboratore di giustizia.
Una scelta indotta proprio dal figlio, arrestato nella stessa indagine, stanco di nascondersi, di fuggire, di una vita fatta di arresti e condanne. E dettata dalla consapevolezza che dalla ‘ndrangheta si esce soltanto in due modi: da morti o arrendendosi allo Stato. Una decisione capace di vincere il vincolo più grande che regola i clan calabresi, quel legame familiare che impedisce di testimoniare contro i congiunti, i padri, i propri figli. Una scelta «di famiglia», come la racconta lo stesso Emanuele De Castro: «Ho deciso di collaborare perché non voglio che mio figlio faccia ‘sta fine come l’ho fatta io. Perché sono stanco, mi sembra una vita assurda. Non lo so, è venuto il momento di…. vorrei vivere una vita tranquilla con la mia compagna e la mia bambina». La decisione di collaborare era stata preannunciata con due lettere spedite dal carcere dal boss direttamente al procuratore aggiunto Alessandra Dolci, il capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano. Nell’ultima comunicazione il «siciliano» ha chiesto di incontrare i magistrati «senza il mio difensore». In due mesi, padre e figlio hanno riempito centinaia di pagine di verbali. Hanno raccontato ai pm Cecilia Vassena e Alessandra Cerreti, che per molti anni ha combattuto la ‘ndrangheta in Calabria, gli assetti delle cosche al Nord e parlato delle connessioni con la politica, l’imprenditoria, la pubblica amministrazione. La loro collaborazione è la prima dopo quella del pentito Antonino Belnome, arrivata dopo il maxi blitz Infinito-Crimine del 2010, che ha svelato mandanti ed esecutori di una serie di delitti di mafia in Lombardia.
Nell’ordinanza del gip Alessandra Simion si racconta anche di come altri affiliati stessero progettando di uccidere Emanuele De Castro. Una circostanza che forse ha indotto, ancora di più, padre e figlio a scegliere la via della giustizia. Il boss 51enne di Lonate Pozzolo (Varese) ha permesso ai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano di recuperare due candelotti di esplosivo nascosti in una buca. L’affiliazione alla cosca del «siciliano» è avvenuta in un bar di Legnano: «Ci siamo messi in circolo, è stata fatta la tipica “pungitura”. Poi abbiamo brindato insieme». Padre e figlio gestivano un parking vicino a Malpensa sequestrato dagli investigatori. «Io spacciavo droga. Non sono mai stato battezzato, mio padre non voleva che lavorassi per ”loro” — ha raccontato Salvatore De Castro —. Mi diceva di starne fuori». Appena il figlio ha compiuto 18 anni, il padre gli ha confessato di essere un mafioso: «Gli chiedevo dei suoi viaggi in Calabria, del motivo per cui frequentasse Rispoli: tutti sapevano che senza il suo assenso qui non poteva muoversi foglia. E mi disse che apparteneva alla ‘ndrangheta».