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Bisognerebbe avere il coraggio di dirselo: “Gli occhi da tigre” che Enrico Letta annunciava all’inizio della campagna elettorale non si sono visti. Il primo responsabile è proprio Letta, del resto il segretario del Pd ha sempre detto – questo gli va riconosciuto – di volerci “mettere la faccia”, solo che a pochi giorni dal voto viene da chiedersi esattamente quale fosse il messaggio, quale fosse la strategia e soprattutto si può già sentire in sottofondo la tiritera dell’analisi della sconfitta che dentro il partito in molti sono pronti a usare come arma contro il segretario (in previsione del prossimo congresso) più che per un autentico esame di coscienza.
Nel Pd si aspetta solo la sconfitta. Dalle alleanze alle candidature
Partiamo dall’inizio, quando l’inizio era quel “campo largo” che Enrico Letta ha difeso anche dai suoi avversari interni, soprattutto la corrente di Base Riformista guidata dal ministro Lorenzo Guerini e Luca Lotti, renziani senza nemmeno il coraggio di seguire Renzi. Quel “campo largo” non s’è fatto perché il Partito democratico ha deciso di non perdonare al Movimento 5 Stelle l’aver fatto cadere Draghi.
Scelta legittima, certo, ma già lì la retorica del doversi “unire tutti contro la destra” aveva perso la sua spinta. La versione del “campo largo” si è affievolita anche per la scelta iniziale di Letta di tenere dentro Calenda ma non Renzi, soffiando sul sospetto che le decisioni politiche fossero figlie anche di dissidi personali.
Anche questo è legittimo, per carità, ma non corrisponde alla narrazione. Se ci aggiungete che Calenda se n’è andato come se n’è andato, capite che il “campo largo” visto oggi sembra uno slogan piuttosto sfortunato. Poi c’è stato l’inizio della campagna elettorale emmi giorni è stato tutto un ripetere dell’Agenda Draghi.
È emerso, com’era prevedibile, un piccolo particolare: Sinistra Italiana con Fratoianni e i Verdi con Bonelli sono l’opposto di quell’agenda e non serviva un fine analista politico per capire che non fosse particolarmente furbo spingere su un tasto che è un nervo scoperto della coalizione. Non a caso Renzi e Calenda per settimane hanno potuto girare il coltello nella piaga di un’alleanza elettorale con evidenti divergenze.
Poi è iniziata la campagna elettorale ma gli animi non si sono scaldati, la partecipazione non si è accesa e il Partito democratico ha continuato a dare la sensazione di sbiaditezza che aveva fin dall’inizio.
Le candidature di Casini, Craxi e compagnia cantante hanno scontentato la base in diverse città. L’alleanza con Di Maio è per la maggiori parte degli iscritti (e dei parlamentari uscenti) incomprensibile: ad oggi non si è ancora capito un solo motivo per cui Letta avrebbe dovuto caricarsi dell’ex grillino. Anche in questo caso il “campo largo” strappa un sorriso come già detto. Se davvero la “punta di diamante” dei candidati del Pd è Carlo Cottarelli (come Letta ha ripetuto più volte) non si capisce come voglia “rinnovarsi” un partito che si affida a una candidatura non sua (Cottarelli è l’estensore del programma di +Europa).
“Abbiamo messo molti giovani”, ripete Letta. E tra i giovani spicca di sicuro la candidatura di Elly Schlein, già vicepresidente di Stefano Bonaccini in Emilia Romagna. La sensazione, da fuori, è che Schlein (e gli altri) fatichino a portarsi sulle spalle il peso della nomenclatura. Pensate a un punto forte del Pd sollevato in campagna elettorale togliendo gli attacchi a Meloni, Calenda, Renzi, Salvini e Conte: ecco tutto. La serietà, rispondono loro. Ma la serietà è un prerequisito, non basta.
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