L’intervento in via d’Amelio di Nino Di Matteo
Prendere oggi la parola, in questo luogo e nella stessa ora della strage di ventidue anni fa, è per me un grande onore ed una grande responsabilità alla quale non ho voluto sottrarmi con la precisa consapevolezza che le commemorazioni di oggi avranno un senso solo se sostenute dall’impegno, dalla passione civile, dal coraggio che dobbiamo dimostrare da domani.
Non ho voluto sottrarmi alla profonda emozione che vivo in questo momento perché innanzitutto sento il bisogno di ringraziare, da cittadino, quei cittadini che, come tanti di voi, continuano a dare quotidiana testimonianza di essere innamorati della Giustizia, della Democrazia, della Costituzione, del nostro Paese. Per questo, riconoscendo in Paolo Borsellino l’incarnazione di quei sentimenti di amore e libertà, cercano di conservarne e tramandarne la memoria. Per questo si pongono a scudo di quei sacrosanti valori contro i tanti che anche oggi, anche nelle Istituzioni e nella Politica, continuano a calpestarli ed offenderli con l’arroganza dei prepotenti e degli impuniti.
Voglio ringraziare i tanti cittadini che, nella semplicità e spontaneità delle loro espressioni di solidarietà, hanno saputo riconoscere coloro i quali ancora si battono per la verità, dimostrando di volerli proteggere non solo dalle insidie della violenza mafiosa ma ancor prima dal muro di gomma della indifferenza istituzionale, dal pericolo di quel tipo di delegittimazione ed isolamento che si nutre, oggi come ieri, di silenzi colpevoli, insinuazioni meschine, ostacoli e tranelli costantemente ed abilmente predisposti per arginare quell’ansia di verità che è rimasta patrimonio di pochi. Quei pochi che ancora non sono annegati nella palude del conformismo, del quieto vivere, dell’opportunismo più bieco sempre più spesso mascherato dalla invocata opportunità politica.
Sono qui per dirvi che voi avete il sacrosanto diritto di continuare a chiedere tutta la verità sulla strage di via D’Amelio e noi magistrati il dovere etico e morale di continuare a cercarla anche nei momenti in cui, come questo che stiamo vivendo, ci rendiamo conto di quanto quel cammino costi, sempre più, lacrime e sangue a chi non ha paura di percorrerlo anche quando finisce per incrociare il labirinto del potere.
Per continuare a ricercare la verità è però innanzitutto necessario, con grande onestà intellettuale, rispettare la verità e non avere mai paura a declamarla anche quando ciò può apparire impopolare o sconveniente.
Paolo Borsellino ci ha insegnato a non avere mai paura della verità. Non dobbiamo avere allora paura a ricordare che affermano il falso i tanti che per ignoranza, superficialità o strumentale interesse ripetono che i processi celebratisi a Caltanissetta sulla strage di via D’Amelio hanno portato ad un nulla di fatto. Ignorano o fingono di ignorare che ventidue persone sono state definitivamente condannate per concorso in strage; ignorano, o fingono di ignorare che proprio quel lavoro di tanti magistrati ha consentito che venissero già allora alla luce i tanti e concreti elementi che oggi ci portano a ritenere che quella di via D’Amelio non fu soltanto una strage di mafia e che il movente non era certamente esclusivamente legato ad una vendetta mafiosa nei confronti del Giudice.
Dobbiamo imparare il rispetto della verità ed il coraggio della sua affermazione ad ogni costo.
Non è vero ciò che tutti indistintamente affermano, e falsamente rivendicano, sulla volontà di fare piena luce sulle stragi. La realtà è un’altra. Questo intendimento è rimasto patrimonio di pochi, spesso isolati e malvisti, servitori dello Stato.
Dal progredire delle nostre indagini sappiamo che in molti, anche all’interno delle istituzioni, sanno ma continuano a preferire il silenzio, certi che quel silenzio, quella vera e propria omertà di Stato, continuerà, esattamente come è avvenuto fino ad ora, a pagare ,con l’evoluzione di splendide carriere e con posizioni di sempre maggior potere acquisite proprio per il merito di aver taciuto, quando non anche sullo squallido ricatto di chi sa e utilizza il suo sapere per piegare le Istituzioni alle proprie esigenze.
Dobbiamo sempre avere il coraggio di rispettare la verità e gridare la nostra rabbia perché ancora nel nostro Paese il cammino di liberazione dalla Mafia è rimasto a metà del guado. Incisivo, efficace, giustamente rigoroso nel contrasto ai livelli operativi più bassi (quelli della manovalanza mafiosa); timoroso, incerto, con le armi spuntate nei confronti di quei fenomeni, sempre più gravi e diffusi, di penetrazione mafiosa delle Istituzioni, della Politica e della Economia. Verso quel pericolosissimo dilagare della mentalità mafiosa che inevitabilmente si intreccia con una corruzione diffusa che, solo a parole, si dice di voler combattere, mentre ancora, nei fatti si assicura ai ladri, ai corrotti, agli affamatori del popolo la sostanziale impunità.
Non si può ricordare Paolo Borsellino e restare silenti a fronte di ciò che sta accadendo nel nostro Paese e che rappresenta l’ennesima mortificazione di quei valori per tutelare i quali il Giudice Borsellino è andato serenamente incontro al suo destino con la fierezza e la dignità di un uomo dalla schiena dritta. Non si può ricordare Paolo Borsellino ed assistere in silenzio ai tanti tentativi in atto (dalla riforma già attuata dell’Ordinamento Giudiziario a quelle in cantiere sulla responsabilità civile dei giudici, alla gerarchizzazione delle Procure anche attraverso sempre più numerose e discutibili prese di posizione del C.S.M.) finalizzate a ridurre l’indipendenza della Magistratura a vuota enunciazione formale con lo scopo di comprimere ed annullare l’autonomia del singolo Pubblico Ministero ed il concetto di potere diffuso in capo a tutti i rappresentanti di quell’Ufficio. Non si può assistere in silenzio all’ormai evidente tentativo di trasformare il Magistrato Inquirente in un semplice burocrate inesorabilmente sottoposto alla volontà, quando non anche all’arbitrio, del proprio capo; di quei Dirigenti degli Uffici sempre più spesso nominati da un C.S.M. che rischia di essere schiacciato e condizionato nelle sue scelte di autogoverno dalle pretese correntizie e politiche e da indicazioni sempre più stringenti del suo Presidente.
Non si può fingere di commemorare Paolo Borsellino quando nei fatti si sta tradendo il suo pensiero e il suo sentimento; il suo concetto, alto e nobile, dell’autonomia del Magistrato come garanzia di libertà ed eguaglianza per tutti. Poco prima di essere ucciso il Giudice Borsellino, intervenendo ad un incontro con gli studenti sull’annoso problema dei rapporti mafia-politica, stigmatizzava l’inveterata prassi del ceto politico di ripararsi, per giustificare la mancata attivazione dei necessari meccanismi di responsabilità politica, dietro il comodo paravento dell’attesa della definitività dell’accertamento giudiziario, nell’attesa quindi del passaggio in giudicato delle sentenze penali.
Oggi, a distanza di ventidue anni da quelle amare riflessioni di Paolo Borsellino, qualcosa è cambiato, ma non certamente in meglio. In una sentenza definitiva della Corte di Cassazione è accertato che un partito politico, divenuto forza di Governo nel 1994, ha poco prima annoverato tra i suoi ideatori e fondatori un soggetto da molto tempo colluso con gli esponenti di vertice di Cosa Nostra e che da molti anni fungeva da intermediario consapevole dei loro rapporti con l’imprenditore milanese che di quel partito politico divenne, fin da subito, esponente apicale. Oggi questo esponente politico (dopo essere stato a sua volta definitivamente condannato per altri gravi reati) discute, con il Presidente del Consiglio in carica di riformare la legge Elettorale e quella Costituzione alla quale Paolo Borsellino aveva giurato quella fedeltà che ha osservato fino all’ultimo suo respiro. E’ necessario non perdere la capacità di indignarsi e trovare, ciascuno nel suo ruolo e sempre nell’osservanza delle regole, la forza di reagire. Tutti abbiamo il dovere di evitare che anche da morto Paolo Borsellino debba subire l’onta di veder calpestato il suo sogno di Giustizia. Quel meraviglioso ideale che condivideva con Giovanni Falcone, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina , Claudio Traina, e tanti altri giusti. Quei giusti la cui memoria non merita inganni, infingimenti, atteggiamenti di pavidità mascherati da prudenza istituzionale. Sono morti perché noi allora non fummo abbastanza vivi, non vigilammo, non ci scandalizzammo all’ingiustizia,ci accontentammo dell’ipocrisia civile, subimmo quel giogo delle mediazioni e degli accomodamenti che anche oggi ammorba l’aria del nostro Paese ed ostacola il lavoro di chi vuole tutta la verità. Noi continueremo a batterci, con umiltà ma altrettanta tenacia e determinazione. Lo faremo nelle aule di Giustizia e, per ciò che ci è consentito, intervenendo nel dibattito pubblico per denunciare i gravi e concreti rischi che incombono sulla indipendenza della Magistratura e, quindi, sul principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Lo faremo mantenendo sempre nel cuore l’esempio dei nostri morti, guidati esclusivamente dalla volontà di applicare i principi della nostra Costituzione e con lo sguardo fisso alla meta della verità, consapevoli che solo la ricerca della verità può legittimarci a commemorare chi è morto dopo aver combattuto la giusta battaglia.
Nino Di Matteo