Lo scetticismo verso la “rivoluzione” è rivolto all’uso magico, irrazionale e, viene da dire, quasi feticistico di un concetto che, dogmatizzato, lastrica di presunti migliori intenti la strada verso l’inferno. La convinzione di essere nel “giusto”, o di essere il “buono”, quando è armata da un idealismo abbracciato alla stregua di una credenza pseudoreligiosa, produce uno zelo che si alimenta di se stesso, o al limite dell’odio per un nemico, odio vissuto sotto il cielo di un postulato che suona così: “lui è il nemico, il nemico è empio; io avverso il nemico, quindi sono nel giusto”. E questo zelo è tanto più nichilista e distruttivo quanto più si ostina a essere cieco di fronte alla realtà che, quasi come un amico benevolo puntualmente frainteso, ne stressa i limiti o punta il dito contro le contraddizioni, portando a galla quella complessità che lo zelo, semplificando irrazionalmente, nega e rimuove. Mi vengono in mente le parole di Milan Kundera in L’insostenibile leggerezza dell’essere: «i regimi criminali non furono creati da criminali ma da entusiasti, convinti di aver scoperto l’unica strada per il paradiso». Una riflessione da leggere di Matteo Pascoletti su #nonmifermo.
Perché mentre si usa la parola rivoluzione e se ne abusa, se ne svuota il senso.