Tito Boeri, oggi, su Repubblica:
Ovunque durante le recessioni la disoccupazione aumenta di più per i giovani che nelle altre fasce di età. Questo avviene perché i datori di lavoro bloccano le assunzioni restringendo ogni canale di ingresso nel mercato del lavoro. Ma nella media dei paesi Ocse la disoccupazione giovanile è arrivata in questa crisi a essere al massimo il doppio di quella per il resto della popolazione. Da noi, invece, è quasi quattro volte più elevata.
Il fatto è che ai problemi strutturali del nostro mercato del lavoro e del sistema educativo si è aggiunto il dualismo fra contratti temporanei e contratti permanenti che ha causato questa volta, in aggiunta al blocco delle assunzioni, anche licenziamenti in massa di giovani lavoratori precari. Inoltre i giovani italiani, a differenza che in altri paesi, non hanno reagito alla crisi decidendo di continuare a studiare, ma anzi hanno ridotto le loro iscrizioni all’università. Probabilmente perché si sono resi conto che le lauree triennali non offrono uno sbocco adeguato sul mercato del lavoro rispetto ai diplomi di scuola secondaria, non sono in grado di ripagare l’investimento aggiuntivo fatto in istruzione.
Infine, essendo questa una crisi finanziaria, è ancora più difficile per i giovani che hanno progetti imprenditoriali avere accesso al credito. Di solito nelle recessioni c’è anche una parte creativa perché il costo minore del credito, del lavoro, dei fabbricati, del capitale permette a chi ha nuove idee di realizzarle. Ma questo non avviene durante le crisi finanziarie, soprattutto da noi dove le banche non hanno investito nella selezione di nuovi progetti imprenditoriali.
Ogni strategia che voglia davvero affrontare il problema della disoccupazione giovanile deve perciò avere tre cardini principali: primo, deve migliorare il percorso di ingresso nel mercato del lavoro; secondo, deve affrontare il problema dei trienni, spingendo più giovani a continuare gli studi oltre la scuola secondaria; terzo, deve favorire l’accesso al credito per chi ha idee imprenditoriali.
Sul primo aspetto, sarebbe stato importante introdurre in Italia un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, applicabile a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro età o qualifica. Purtroppo il governo ha scelto una strada diversa, lasciando che le tutele contro il licenziamento siano indipendenti dalla durata dell’impiego. Licenziare un lavoratore con contratto a tempo indeterminato che è da un solo mese in azienda continuerà a costerà quanto licenziare un lavoratore che ha 20 anni di anzianità aziendale. Questo scoraggia le assunzioni dei giovani soprattutto nei comparti dove il loro capitale umano verrebbe meglio utilizzato. Nei settori tecnologicamente avanzati è, infatti, molto difficile per un datore di lavoro valutare le competenze delle persone che assume. Si possono dunque commettere molti errori. Al tempo stesso, bisogna fare un investimento di lungo periodo sui lavoratori che si assume. La persistente dicotomia fra contratti a termine e contratti a tempo determinato impedisce tutto questo. E non potrà certo il contratto di apprendistato riproposto dalla riforma Fornero a risolvere il problema. Semplicemente perché le sue regole (in termini di età, quote sulle assunzioni e costi degli incentivi fiscali) impediscono che possa essere esteso alle grandi platee coinvolte dalla disoccupazione giovanile.
Per stimolare gli investimenti in istruzione bisogna spingere i giovani a lavorare e studiare allo stesso tempo. L’opposto dei NEET (giovani che non studiano e non lavorano al tempo stesso) di cui abbiamo oggi il triste primato. Per fare questo bisognerebbe introdurre in Italia la formazione tecnica universitaria sul modello delle scuole di specializzazione tedesche, le cosiddette Fachhochschule. Ciascuna università, anche sede periferica, in accordo con un certo numero di imprese locali, potrebbe introdurre un corso di laurea triennale caratterizzato da una presenza simultanea in impresa e in ateneo. Metà dei crediti verrebbe acquisito in aula e metà in azienda. Il lavoratore sarebbe impiegato in azienda e seguito da un tutor. Con controlli reciproci fra università e impresa sulla qualità della formazione conferita al lavoratore che ridurrebbero fortemente il rischio di abuso. I grandi atenei potrebbero organizzare una decina di questi corsi con un bacino di circa 800 studenti per ateneo, pari a 80 studenti per anno in ciascun corso di specializzazione. I piccoli atenei difficilmente ne organizzeranno più di due o tre ciascuno. In questo modo si potrebbe arrivare ad avere ogni anno 12-15mila nuovi giovani occupati. A regime, su tre anni, la riforma potrebbe portare i giovani occupati e impegnati in lauree brevi di specializzazione intorno alle 50mila unità, un numero significativo, data la dimensione delle coorti di ingresso nel mercato del lavoro.
Le due riforme di cui sopra sono a costo zero per le casse dello Stato. La terza avrebbe costi limitati. Potrebbe impegnare i fondi strutturali inutilizzati mettendo a disposizione fino a 150 milioni per il decollo di nuove iniziative imprenditoriali soprattutto nelle aree più svantaggiate del paese. Mediante un accordo con le banche, potrebbe selezionare 1.000 progetti imprenditoriali da sostenere attivando credito fino a quattro o cinque volte questa cifra. La fase di selezione dei progetti comporterebbe il finanziamento di uno stage all’estero (o in regioni con un forte tessuto imprenditoriale e buone università) in cui perfezionare il proprio business plan per 5.000 aspiranti imprenditori. I soldi verrebbero dati ai giovani, ma servirebbero di fatto come garanzia per i prestiti bancari. Sarebbe un modo anche per spingere le banche a spostare la loro attenzione dai clienti consolidati e spesso non più in grado di generare valore aggiunto a chi ha idee e la forzaed entusiasmo per portarle avanti.