Quattro persone sono finite in manette a Corleone anche grazie alle dichiarazioni di un imprenditore, stanco di pagare 500 euro al mese per poter lavorare. Si chiama “Grande passo 2″ l’operazione dei Carabinieri della compagnia di Monreale ed è la seconda tranche di quella già messo in atto a settembre dai militari dell’Arma, coordinata dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Sergio Demontis e Caterina Malagoli.
Già in quell’occasione, Cosa nostra subì un brutto colpo, vedendo i suoi vertici azzerati in diversi paesi dell’hinterland, fra cui Corleone, Misilmeri, Belmonte Mezzagno e Palazzo Adriano.
E anche stavolta, le indagini, sviluppate attraverso attività tecniche e servizi di osservazione e pedinamento, ma anche grazie alla collaborazione di vittime di estorsioni, hanno permesso di ricostruire e delineare ancor meglio l’intero assetto della famiglia mafiosa di Palazzo Adriano, di quella di Corleone e i rapporti del mandamento con quelli limitrofi, nel dettaglio con la famiglia mafiosa di Villafrati.
Nello specifico, grazie alla ricostruzione di ruoli e compiti degli associati alle varie famiglie mafiose, la maggior parte dei quali non ancora individuati con la precedente operazione di servizio, sono stati arrestati: Pietro Paolo Masaracchia, 65 anni, e Antonino Lo Bosco, 75 anni entrambi diPalazzo Adriano; Francesco Paolo Scianni, 54 anni, di Corleone e Ciro Badami (detto Franco),69 anni di Villafrati.
Badami, era stato già tratto in arresto nell’ambito di un’altra operazione antimafia con la quale si intercettò il complesso circuito che consentiva lo scambio di comunicazioni e direttive tra l’allora capo dei capi di cosa nostraBernardo Provenzano e i rappresentanti delle famiglie mafiose di Bagheria, Baucina, Belmonte Mezzagno, Casteldaccia, Ciminna, Villabate e Villafrati.
Scianni è ritenuto dagli investigatori un uomo di fiducia e fiancheggiatore di Antonino Di Marco, già arrestato nell’ambito dell’operazione Grande Passo del 2014 e utilizzato da questi per mantenere i contatti per la riscossione delle estorsioni e come anello di congiunzione con un’altra famiglia mafiosa.
Si trovava già in cella perché coinvolto pure lui nell’operazione “Grande Passo”, Masaracchia, ritenuto il capo della famiglia mafiosa di Palazzo Adriano. Il quarto arrestato, Antonino Lo Bosco, è ritenuto dagli inquirenti in contrapposizione proprio con Masaracchia
Le estorsioni
Nel corso delle indagini sono stati ricostruiti quattro nuovi casi di estorsione, ai danni di imprenditori impegnati nel settore dell’edilizia e del commercio, sia nelle fasi dell’apertura che della gestione degli esercizi commerciali.
Per la prima volta è stata constatata la preziosa collaborazione delle vittime che hanno offerto il loro contributo: “Ero stanco di pagare 500 euro al mese – ha detto uno degli imprenditori vessati – e alla fine sono stato anche costretto a chiudere la mia attività”. Non si tratta, però, di una denuncia, perché all’inizio era stato lo stesso imprenditore ad andare dai boss per chiedere uno sconto sul pizzo da versare alle cosche.
Il muro di omertà degli imprenditori e dei commercianti ha ceduto di fronte all’operato repressivo svolto negli ultimi tempi e le vittime hanno così deciso di raccontare senza alcun riserbo il meccanismo di pagamento del “pizzo”. Le indagini hanno messo in luce un singolare radicamento delle competenze a esigere il “pizzo”: l’imprenditore o il commerciante è chiamato a versare le somme estorte sia alle famiglie mafiose presenti nel proprio paese di origine sia a quelle operative nelle aree ove l’attività economica si svolge.
Peraltro, un imprenditore era stato costretto a pagare per due volte il pizzo relativo allo stesso lavoro rispettivamente a due esponenti mafiosi in contrapposizione tra loro. Ancora una volta è stato accertato come uno dei principali canali di sostentamento delle consorterie mafiose è rappresentato proprio dalle estorsioni, commesse ora anche nei confronti di attività economiche di privati.
Confindustria
“Per la prima volta nell’ex regno dei boss Riina e Provenzano, gli imprenditori hanno avuto la forza di rompere il muro di omertà e dire basta, denunciando i propri estortori. Un segnale di enorme valore e un grandissimo cambiamento culturale che conferma come il seme della ribellione continui a dare i suoi frutti”. Questo, il commento di Antonello Montante, delegato nazionale per la legalità e presidente di Confindustria Sicilia: “Un plauso particolare va alla Dda di Palermo che ha coordinato l’indagine, al procuratore aggiunto Agueci, ai sostituti Demontis e Malagoli, e al comando provinciale dei Carabinieri. Questa è la dimostrazione che il fenomeno delle estorsioni è ancora in atto. Tanto è stato fatto da magistratura e forze dell’Ordine, ma tanto c’è ancora da fare”.
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Sono quattro le estorsioni finite nelle maglie dell’inchiesta “Grande Passo 2”, con la quale i carabinieri hanno ricostruito il giro del pizzo nei territori di Bolognetta, Misilmeri, Villafrati e Palazzo Adriano, appartenenti al mandamento mafioso di Corleone.
I taglieggiati sono titolari di concessionarie d’auto e imprenditori nel settore dell’edilizia. Quel che emerge dall’attività d’indagine dei militari dell’Arma è che nel territorio di Palazzo Adriano, ad esempio, avrebbero operato due boss rivali: Pietro Paolo Masaracchia, già coinvolto nell’operazione “Grande Passo” dello scorso anno, e Antonino Lo Bosco. Entrambi si sarebbero dedicati alla raccolta del pizzo e così, in un caso, dalle intercettazioni emerge che per “mettersi a posto” uno stesso imprenditore avrebbe versato 4 mila euro a Masaracchia e un’uguale somma anche a Lo Bosco.
In un’altra occasione, un imprenditore di Bolognetta, per aprire una concessionaria di autovetture avrebbe dovuto versare ai boss un importo iniziale e successivamente un “canone” mensile di 600 euro. I proventi di questa imposizione, così come confermato sia dall’imprenditore che dalle indagini, sarebbero stati incassati da Ciro Badami, già coinvolto nell’operazione “Grande Mandamento” del 2005 e appartenente alla famiglia mafiosa di Villafrati.
I metodi usati dagli esattori del pizzo verso gli imprenditori taglieggiati erano di natura “amicale”, e confidenziale. Quel che emerge, inoltre, è che non si tratta di imprenditori che hanno denunciato, ma che hanno parlato solo successivamente, una volta esser stati messi davanti al fatto compiuto dagli investigatori. In un’occasione, poi, uno degli arrestati avrebbe detto all’imprenditore preso di mira che sarebbe bastato versare cifre modeste e quest’ultimo avrebbe anche provato a farsi fare un ulteriore “sconto” sulle somme da versare:
“Per metterti in regola, non stiamo parlando di cifre aite ah! Tu ti devi calcolare mensilmente 500 euro….”
A quel punto, l’imprenditore, risponde: “La condivido (l’estorsione) da un punto di vista proprio morale, no da un punto di vista di speculazione…”, spiegando di non essere contrario al pagamento, ma solo all’importo, da lui ritenuto eccessivo, chiedendo appunto di poter avere l’agognato “sconto” sull’importo da devolvere alla famiglia mafiosa:
IMPRENDITORE “Non la possiamo gestire almeno un po’ meno, di questo importo?”.
Una richiesta rispetto alla quale, l’emissario dei boss rimane fermo sul quantum e argomenta le sue “ragioni”, elencando una serie di imprenditori che già pagavano puntualmente cifre molto più onerose.
ESATTORE: “S.L. paga 1200 euro, C.S. invece paga 1000 euro al mese, mentre P. versa 700 euro al mese, e un altro ancora 800 euro mensili”.
Il mafioso sottolinea, quindi, che il trattamento che la famiglia mafiosa sta riservando a lui (500 euro) è molto favorevole:
“Non è che sono bugie, quindi questa cifra, è una cifra vergognosa (irrisoria) per quello ché. l’hai capito il discorso?”
La conversazione poi prosegue sulle modalità di pagamento, l’imprenditore, infatti, non sapendo ancora che volume di affari riuscirà ad ottenere con la sua attività, richiede di adeguare la cifra in base ai guadagli o quantomeno di poter avere una dilazione del pagamenti in due rate all’anno di 2.500 euro ciascuna, ma il mafioso ribadisce che non è possibile e che l’impegno è da considerarsi a scadenza “mensile”.
“Dopo qualche giorno – ha poi raccontato l’imprenditore ai carabinieri – si presentarono da me all’autosalone di Bolognetta, Antonino Di Marco e Nicola Parrino, i quali mi dissero che per sistemare la messa a posto per l’apertura del mio locale, avrei dovuto prendere contatti e fissare un appuntamento con Franco Badami di Villafrati, che fino ad allora non conoscevo”.
E ancora, “Poco dopo aver aperto la mia attività, nel mese di dicembre, se non ricordo male, si presentò al mio concessionario un signore anziano con un foulard al collo. Questi, arrivato a bordo di una specie di motozappa, si presentò da me e si informò se avessi pagato la messa a posto alla locale famiglia mafiosa per l’apertura della mia attività, lo risposi di si, avendo ovviamente già preso accordi con i due per pagare la messa a posto a loro. L’uomo a nome zio Pietro, dal quale ho appreso in un secondo momento fosse di Bolognetta, ottantenne circa, mi chiese con chi mi fossi messo a posto ma io non glielo specificai”.
Conflitti fra boss, che si sarebbero tradotti in doppie imposizioni di pizzo ai medesimi imprenditori, i quali, per evitare di scontentare i vari esattori che si presentavano di volta in volta, pagavano due volte.
Nell’operazione, poi, viene anche fuori il ruolo di Francesco Paolo Scianni, incensurato dipendente provinciale. Dalle indagini emerge che avrebbe ricoperto un ruolo attivo nella consorteria mafiosa, partecipando a molteplici riunioni e trattando anche con esperienza diversi argomenti relativi alla gestione della stessa famiglia. Nello specifico, avrebbe partecipato anch’egli alla raccolta del pizzo, ponendosi, in un caso, anche con un ruolo decisamente attivo nella mediazione con il capo famiglia di Villafrati Ciro Badami, perché legato a lui da un rapporto di parentela.
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