Vai al contenuto

Tasse a misura dei più ricchi, ecco il Fisco al contrario

La tassa al contrario delle promesse: l’ultimo capolavoro del governo Meloni è una beffa matematica che trasforma il ceto medio in un bancomat a cielo aperto. La riforma fiscale, venduta come la panacea di tutti i mali, si rivela essere un gioco di prestigio in cui il coniglio dal cilindro si trasforma in una stangata del 56% per chi guadagna tra i 32 e i 40mila euro. Mentre il governo si affanna a raccontare la favoletta della flat tax per tutti (realizzata solo per gli autonomi), i numeri dell’Ufficio parlamentare di bilancio raccontano una storia diversa: quella di un ceto medio che si ritroverà a pagare più tasse di chi guadagna di più se la manovra di bilancio rimarrà così com’è.

Un paradosso in cui chi dovrebbe essere protetto dall’inflazione viene invece spremuto come un limone. Un gioco di prestigio che ha partorito un sistema fiscale che invece di semplificare complica, invece di alleggerire appesantisce, invece di aiutare affossa. Le aliquote formali sono tre ma quelle effettive diventano sei, in un labirinto kafkiano di bonus e detrazioni che farebbero girare la testa anche al più esperto dei commercialisti. Il risultato? Un milione di contribuenti su 18 milioni ci rimette. E non parliamo dei paperoni, ma di quella fascia di popolazione che mantiene in piedi il Paese con le proprie tasse regolarmente versate. Gli stessi che il governo dice di voler aiutare con il concordato biennale per le partite Iva, mentre con l’altra mano sfila loro il portafoglio. La beffa finale? Chi ha redditi più alti pagherà meno di chi sta in mezzo al guado. Una redistribuzione alla rovescia, come se Robin Hood avesse deciso di togliere ai mediamente ricchi per dare a chi è più ricco di loro.

L’articolo Tasse a misura dei più ricchi, ecco il Fisco al contrario sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Elezioni in Romania, in vantaggio il sovranista e filorusso Georgescu

C’è qualcosa di familiare in questa storia. Qualcosa che abbiamo già visto, che conosciamo bene. La Romania si è svegliata questa mattina con una sorpresa che ha il sapore amaro del déjà-vu: Călin Georgescu, ultranazionalista con un passato di simpatie per l’estrema destra rumena, è in testa alle elezioni presidenziali con il 22,94% dei voti.

Un volto nuovo, una retorica antica

Non è solo una vittoria, è uno schiaffo all’establishment che nessuno aveva previsto. I sondaggi non lo davano nemmeno come outsider, eppure eccolo lì, davanti al primo ministro in carica Marcel Ciolacu (19,15%) e alla riformista Elena Lasconi (19,17%). È la storia di sempre: mentre i partiti tradizionali si azzuffavano tra loro, qualcuno stava seminando nel campo fertile del malcontento popolare.

Ma chi è questo professore universitario che ha fatto tremare l’establishment rumeno? Georgescu, 62 anni, si presenta come un consulente internazionale esperto di sviluppo sostenibile, con oltre un decennio di esperienza nelle organizzazioni Onu. Ma è il suo curriculum nascosto a far tremare: dichiarazioni di ammirazione per Putin (“un uomo che ama il suo paese”), critiche feroci alla Nato e all’Unione Europea, nostalgie per il movimento legionario fascista rumeno.

La ricetta del suo successo? La solita minestra riscaldata del populismo sovranista: meno importazioni, più produzione nazionale, sostegno agli agricoltori. Il tutto condito con una retorica anti-establishment che ha trovato terreno fertile su TikTok, dove il professore ha costruito il suo successo mescolando video in cui si mostra mentre fa judo, corre in pista o frequenta la chiesa. Un cocktail perfetto per catturare l’attenzione di chi si sente escluso, dimenticato, tradito dalla politica tradizionale.

E non è un caso che tutto questo accada proprio in Romania, paese che condivide 650 chilometri di confine con l’Ucraina e ospita uno scudo missilistico Nato che Georgescu ha definito “una vergogna diplomatica”. Le sue posizioni sulla guerra in Ucraina Secondo lui è tutta una manipolazione delle compagnie militari americane. Putin non poteva sperare in un megafono migliore.

Ma c’è qualcosa di più profondo in questa vittoria che non può essere liquidato come semplice protesta anti-sistema. Come ha sottolineato l’analista politico Radu Magdin, Georgescu ha saputo utilizzare un mix letale di retorica messianica e eleganza formale per capitalizzare le frustrazioni della gente. Ha parlato alla pancia del paese senza sembrare un populista da quattro soldi, ha dato dignità accademica al malcontento, ha trasformato la rabbia in un progetto politico apparentemente rispettabile.

“L’incertezza economica imposta al popolo rumeno per 35 anni è diventata oggi incertezza per i partiti politici”, ha dichiarato Georgescu dopo la chiusura dei seggi, definendo il risultato “un risveglio straordinario” del popolo rumeno. Un risveglio che sa tanto di incubo per chi sperava in un futuro europeo e atlantista della Romania.

Il secondo turno è fissato per l’8 dicembre, dopo le elezioni parlamentari di domenica prossima. Ma qualunque sia il risultato finale, il dado è tratto: la Romania si trova a un bivio tra la sua vocazione occidentale e il richiamo delle sirene sovraniste. E non è solo un problema rumeno: è lo specchio di un’Europa che continua a non trovare risposte convincenti alla crescita dei populismi.

Un’Europa che non sa rispondere

Intanto nei corridoi di Bruxelles e nelle cancellerie europee si fanno i conti con questa nuova tegola che cade sulla già fragile architettura dell’Unione. Perché se c’è una cosa che questa elezione ci insegna è che il populismo non è morto, si è solo vestito da professore universitario. Ed è più pericoloso che mai.

L’articolo Elezioni in Romania, in vantaggio il sovranista e filorusso Georgescu sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Centri antiviolenza, sono 404 ma ne mancano all’appello altri 220

In Italia, la violenza contro le donne è un problema strutturale, di cui si parla tanto ma su cui si agisce poco. Secondo l’Ocse, quasi una donna su quattro ha subito violenza fisica o sessuale da parte di un partner. Nel nostro Paese, i casi denunciati sono stati 16 ogni 10mila donne nel 2023. Eppure, la rete di protezione è ancora ampiamente insufficiente. I centri antiviolenza (Cav), pilastri fondamentali per offrire supporto e protezione, restano una rarità e, soprattutto, mal distribuiti. A dircelo, con numeri chiari e inappellabili, è un’analisi del think-tank Tortuga, pubblicata su Lavoce.info.

Secondo il rapporto, in Italia ci sono 404 centri antiviolenza, 220 in meno rispetto agli standard minimi stabiliti dalla Convenzione di Istanbul, che richiede un centro ogni 50mila donne sopra i 14 anni. Ma i numeri non raccontano tutto: la distribuzione territoriale è altrettanto problematica. Ad esempio, solo il 15,6% dei comuni nelle isole dispone di un centro a meno di 5 km, contro il 23,2% del Nord-Ovest. In altre parole, una donna vittima di violenza in Sardegna o in Sicilia avrà molte più difficoltà a raggiungere un luogo sicuro rispetto a una che vive in Lombardia o Piemonte.

Centri antiviolenza: un presidio di civiltà dimenticato

Il divario territoriale è ancora più inquietante se si considera che proprio nelle aree con minore copertura i dati indicano una maggiore accettazione della violenza di genere, radicata in norme patriarcali e stereotipi antiquati. Dove il bisogno è più forte, l’offerta è più scarsa. Il centro antiviolenza, però, non è solo un luogo fisico: è un presidio di civiltà. Significa offrire alle donne uno spazio per essere ascoltate, credute e protette. Significa costruire percorsi di uscita dalla violenza che coinvolgano le vittime ma anche l’intero tessuto sociale.

La mancata attenzione verso i Cav è il risultato di una politica miope e frammentata. Negli ultimi anni, i finanziamenti pubblici sono stati irregolari e spesso insufficienti. Anche quando stanziati, arrivano in ritardo o non vengono utilizzati per progetti realmente efficaci. L’assenza di una visione strategica si traduce in un sistema che lascia indietro le donne più vulnerabili, proprio quelle che avrebbero più bisogno di sostegno.

Ma non è solo questione di fondi. La violenza di genere è un fenomeno complesso, che richiede risposte integrate e strutturali. Non basta costruire centri: serve formazione per chi lavora nei servizi pubblici, serve educazione nelle scuole, serve una campagna culturale che scardini gli stereotipi sessisti. Serve una volontà politica che vada oltre le dichiarazioni di rito nei giorni simbolici, perché la violenza non si ferma il 26 novembre.

Nel rapporto di Tortuga emerge anche un altro dato preoccupante: la mancanza di coordinamento tra Stato centrale e amministrazioni locali. Ogni regione agisce come meglio crede, spesso senza una guida chiara o un piano condiviso. Questo approccio frammentato non solo rende inefficiente il sistema, ma crea disuguaglianze territoriali che mettono a rischio il diritto delle donne alla protezione, sancito a livello internazionale.

Politiche frammentate e finanziamenti irregolari: un sistema che lascia indietro le donne

La Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, non è un manifesto: è un impegno vincolante. Eppure, a più di dieci anni dalla sua adozione, il nostro Paese è ancora lontano dagli standard richiesti. Mancano i centri, manca una distribuzione capillare, manca una cultura di prevenzione. Ma soprattutto, manca l’urgenza di affrontare il problema come una priorità nazionale. 

Secondo Tortuga, colmare il gap attuale richiederebbe un investimento economico sostenibile. La creazione di 220 nuovi centri rappresenta una spesa che lo Stato potrebbe sostenere, considerando anche i costi sociali ed economici della violenza di genere. Ogni euro speso per prevenire e contrastare la violenza genera un risparmio ben maggiore in termini di spese sanitarie, giudiziarie e sociali. Eppure, questo calcolo sembra sfuggire a chi prende le decisioni.

L’articolo Centri antiviolenza, sono 404 ma ne mancano all’appello altri 220 sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Femminicidi, nella maggior parte dei casi l’autore è il partner o l’ex: oltre il 70% delle aggressioni commesso da italiani

Ogni anno, il 25 novembre, si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Un giorno che arriva puntuale con il peso di numeri inaccettabili e con una lunga scia di vite spezzate. Secondo l’Onu, nel 2023, sono state uccise intenzionalmente 85mila donne e ragazze in tutto il mondo. Una ogni dieci minuti. La casa, ancora una volta, si conferma il luogo più pericoloso per loro. E spesso l’assassino ha le chiavi della porta.

Il solito copione istituzionale

La politica non si è fatta attendere, con le dichiarazioni di rito. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ribadito che la violenza sulle donne è un “comportamento che non trova giustificazioni, radicato in disuguaglianze e stereotipi di genere”. Il capo dello Stato ha ricordato che “quanto fatto finora non basta”, sottolineando l’urgenza di interventi strutturali e azioni concrete per garantire diritti e protezione alle vittime.

La premier Giorgia Meloni ha definito la violenza una “piaga sociale e culturale” e ha rivendicato gli strumenti messi in campo dal governo. Ma le parole pesano meno delle risorse: i finanziamenti ai centri antiviolenza restano insufficienti, così come quelli destinati agli asili nido e al sostegno alle famiglie, come ha denunciato la senatrice del Pd Annamaria Furlan. “Il patriarcato esiste ed è la cornice culturale in cui il governo Meloni opera,” ha detto Furlan, aggiungendo che le risorse mancano anche per ridurre il divario salariale e il carico di lavoro familiare che grava quasi esclusivamente sulle donne.

La solita propaganda

A spostare il dibattito sul piano delle strumentalizzazioni ci ha pensato Matteo Salvini, che ha scelto di attribuire un ruolo centrale alla nazionalità degli aggressori, parlando di una “crescente incidenza degli stranieri”. Peccato che il suo stesso ministero lo smentisca: secondo i dati del Viminale, oltre il 70% degli autori di femminicidi è italiano. Un dato che Salvini evita di menzionare, preferendo concentrarsi su un tema che è da sempre funzionale alla sua narrativa.

Le altre voci della politica

Ignazio La Russa, presidente del Senato, ha sottolineato la necessità di un “radicale cambiamento culturale” per contrastare quella che ha definito “una ferita inaccettabile per la nostra società”. Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha posto l’accento sull’educazione al rispetto, annunciando che per la prima volta l’educazione alla parità è stata inserita tra gli obiettivi curriculari obbligatori nelle scuole.

Dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, è arrivato un messaggio di solidarietà alle vittime: “Rompiamo il silenzio, poniamo fine alla violenza sulle donne. Ogni donna merita protezione, giustizia e ascolto”. E il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, ha invocato “un impegno a ogni livello” per creare una rete di tutela efficace, riconoscendo che “i numeri sono drammatici”.

Una società che non cambia

Mentre si moltiplicano gli appelli istituzionali, i dati rimangono impietosi. Nei primi sei mesi del 2024, il 56% delle donne uccise è stato vittima di partner o ex partner. Gli omicidi commessi in ambito familiare sono diminuiti, ma resta costante l’incidenza delle vittime femminili sul totale. E nei luoghi di lavoro, oltre il 50% delle imprese non ha sistemi sicuri per denunciare molestie, secondo il Censis. Un divario tra consapevolezza e azione che si riflette in tutti gli ambiti.

Il ricercatore del Censis, Giulio De Rita, ha spiegato che molte aziende considerano le molestie “un problema che riguarda gli altri”. Ma le donne non hanno bisogno di retorica, bensì di azioni concrete: centri antiviolenza accessibili, strumenti per denunciare senza paura di ritorsioni, formazione e cultura che partano dalla scuola e arrivino alle aziende.

Oltre le parole

In questa giornata, il peso delle parole si mescola al silenzio di chi non c’è più. Nomi come Giulia Cecchettin o Giulia Tramontano sono diventati simboli, ma anche moniti. Le cronache raccontano storie di manipolazione e controllo che spesso avrebbero potuto essere fermate. Ogni numero è un grido. Ogni assenza è un fallimento. La sfida più grande è spezzare il cerchio, non solo il silenzio. Ma per farlo, le parole devono diventare azioni, e gli slogan, politiche. Perché la violenza non aspetta.

L’articolo Femminicidi, nella maggior parte dei casi l’autore è il partner o l’ex: oltre il 70% delle aggressioni commesso da italiani sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Povera Cop29, poveri noi

La Cop29, l’annuale vertice sul clima delle Nazioni Unite, è terminata dopo due settimane di negoziati. La cronaca delle trattative ha meritato poca attenzione sulla stampa, qui dalle nostre parti. Ormai l’ambientalismo è diventato un tema per gli affezionati, una di quelle cose di cui non ti puoi permettere di non parlare, ma che puoi benissimo inserire nelle rubriche fisse: motori, risultati delle partite, meteo, lettere dei lettori e infine anche l’ambientalismo.

Nemmeno i 300 miliardi all’anno fino al 2035 per aiutare i Paesi in via di sviluppo ad affrontare la crisi climatica hanno fatto notizia. Del resto, viviamo in un Paese governato da un ministro dei Trasporti che capeggia un’orda di maschi fieri di inquinare il più possibile. Lo smog come prolungamento del pene.

Il gran capo dei maschi, Donald Trump, alla Cop29 ha deciso di non volgere uno sguardo e di non sprecare nemmeno una parola. Per lui le auto interessanti, così come i missili, sono quelle del suo padrone Elon Musk.

Non aiuta nemmeno che, mentre le Cop aumentano di numero, anno dopo anno, le promesse degli anni precedenti vengano sempre smentite. Così tutto appare come una lunghissima analisi della sconfitta, a puntate, con un finale nero per tutti.

I Paesi colpiti da disastri climatici hanno fatto notare sommessamente che forse l’impegno profuso fin qui non basta. Gli altri hanno promesso soldi, ancora soldi. C’è qualcuno talmente stupido da pensare che risarcire possa essere risolutivo per annullare le cause.

Dicono che la crisi dell’attenzione verso l’ambientalismo corrisponda alla crisi del progressismo in giro per il mondo. Ma qui non si perdono le elezioni.

Buon lunedì.

L’articolo proviene da Left.it qui

Musk, la vicenda José Garza e il pericoloso intreccio tra denaro e politica – Lettera43

Mr Tesla non si limita a plasmare il futuro delle imprese spaziali o delle auto elettriche. Le sue mani sono immerse nella politica americana, e non solo perché farà parte dell’Amministrazione Trump. L’ingerenza nelle elezioni locali per rovesciare inutilmente il procuratore distrettuale di Austin, simbolo del movimento per la riforma della giustizia penale Usa, dovrebbe metterci tutti in allarme.

Musk, la vicenda José Garza e il pericoloso intreccio tra denaro e politica

Chi si stupisce che il miliardario Elon Musk si occupi dei giudici italiani, meritandosi un rimprovero anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non conosce il suo passato recente. Da poco nominato nella nuova Amministrazione di Donald Trump, dove guiderà il nuovo dipartimento per l’efficienza governativa, Musk non si limita a plasmare il futuro delle imprese spaziali o delle auto elettriche. Le sue mani sono anche immerse nella politica americana, con un’operazione emblematica: la sua ingerenza nelle elezioni locali per cercare di rovesciare José Garza, procuratore distrettuale di Austin, Texas, simbolo della cosiddetta “riforma della giustizia penale”.

Elon Musk contro il cancelliere Scholz su X «Olaf è uno stupido»
Elon Musk (Getty Images).

I procuratori che sulla giustizia penale sfidano la destra Usa

Negli Stati Uniti, la giustizia penale è storicamente basata su un modello punitivo: alti tassi di incarcerazione, lunghe pene detentive e politiche che raramente affrontano le cause profonde della criminalità, come povertà, dipendenze e disagio sociale. Questo approccio ha trasformato il Paese nella democrazia con il più alto numero di detenuti al mondo. Da un decennio, però, si è sviluppato un movimento per riformare questo sistema. I procuratori eletti in città come Austin, Los Angeles e Philadelphia stanno introducendo politiche innovative: riduzione delle pene per reati minori, eliminazione della cauzione in contanti (che colpisce in modo sproporzionato i poveri), investimenti in programmi di riabilitazione e prevenzione. Si tratta di una visione che punta a diminuire il numero di detenuti e a concentrarsi su alternative più efficaci e umane al carcere. José Garza incarna questa filosofia. Da quando è stato eletto procuratore distrettuale di Austin, ha ridotto la detenzione preventiva per reati non violenti, avviato programmi per affrontare le dipendenze e cancellato i precedenti penali di chi non è mai stato condannato. Politiche che rappresentano una sfida diretta alla narrativa dominante della destra americana, secondo cui solo il carcere garantisce sicurezza. A marzo 2024, Musk ha versato 700 mila dollari nella campagna elettorale contro Garza, tentando di far eleggere un procuratore favorevole a un approccio più punitivo. Gli spot televisivi finanziati dal miliardario erano spudorati: immagini di orsacchiotti insanguinati e messaggi apocalittici, come «Garza riempie le strade di pedofili e assassini».

Musk e il pericoloso intreccio tra denaro e politica
José Garza (Getty Images).

Neppure il patrimonio di Musk non è bastato a fermare Garza  

Musk ha potuto permettersi questo intervento non solo grazie al suo patrimonio personale, ma anche al suo nuovo status di attivista politico. Con la rielezione di Donald Trump, Mr Tesla è diventato una figura chiave del governo, rafforzando il legame tra potere economico e decisioni politiche. Ma il denaro, in questo caso, non è bastato. Garza ha vinto con il 66 per cento dei voti, dimostrando che un movimento radicato nella comunità può resistere anche agli attacchi di chi dispone di risorse quasi illimitate. Una vittoria che però non cancella certo tutti gli ostacoli sulla strada della  riforma della giustizia penale. Procuratori come George Gascón, a Los Angeles, hanno perso elezioni cruciali, schiacciati da campagne che sfruttano il timore del crimine per delegittimare le politiche progressiste. Eppure, i successi sono significativi. Monique Worrell, procuratrice della Florida sospesa dal governatore Ron DeSantis, è stata rieletta grazie a una campagna centrata sulla responsabilità della polizia. Shayla Favor, in Ohio, ha introdotto politiche contro la pena di morte. A Savannah, in Georgia, Shalena Cook Jones ha avviato un programma per rivedere le condanne ingiuste. Questi procuratori non rappresentano solo un approccio diverso al crimine. Mostrano che l’alternativa è praticabile. Studi del Vera Institute dimostrano che programmi di riabilitazione e prevenzione riducono del 50 per cento i tassi di recidiva rispetto al carcere.

Donald Trump e Elon Musk hanno assistito al sesto test di lancio di Starship, navicella di SpaceX, con il booster Super Heavy.
Elon Musk con Donald Trump (Getty Images).

Se il denaro diventa strumento di controllo politico

La vicenda, pur essendo americana, solleva interrogativi universali. Quanto è vulnerabile la democrazia di fronte al potere economico? E quanto siamo disposti a mettere in discussione un sistema di giustizia punitivo che spesso colpisce i più deboli? Elon Musk, con il suo intervento contro Garza, non ha solo cercato di influenzare un’elezione locale. Ha mostrato come il denaro possa diventare uno strumento di controllo politico. E se questo accade nella patria della democrazia, quali sono le garanzie per gli altri Paesi, Italia compresa? Le parole di Garza, dopo la sua vittoria, suonano come un avvertimento: «Ci vorrà organizzazione e coerenza per resistere». Un miliardario che scuce una enorme quantità di denaro per rimuovere un giudice che non gli piace e che ora si ritrova in un ruolo di rilievo governativo è l’alba della plutocrazia.

LEGGI ANCHE: Trump e le frasi più controverse dei membri del gabinetto presidenziale

L’articolo proviene da Lettera43 qui https://www.lettera43.it/musk-elezione-procuratore-austin-garza-trump/

Ma che si è messo in… Tesla Musk? Sulla Cina è scontro con Trump

Ecco il primo scontro tra i due grandi ego americani. Musk, il visionario delle auto elettriche, dipende dalla Cina per il successo della sua Tesla. Trump, il presidente del “Make America Great Again”, usa la Cina come nemico ideale per consolidare la sua narrativa politica. Tra queste forze opposte, c’è una verità che emerge chiara: finita la propaganda ora la Cina è già terreno di scontro tra i due grandi alleati. 

La prigione dorata di Tesla: dipendenza da Pechino

La Tesla di Musk è legata a doppio filo al mercato cinese. La Gigafactory di Shanghai, inaugurata nel 2019, è una delle gemme dell’impero Tesla. Non solo è stata costruita in tempi record – meno di un anno – ma è diventata rapidamente il cuore pulsante della produzione globale dell’azienda. Oggi, più della metà dei veicoli Tesla venduti nel mondo proviene da quella fabbrica. Una percentuale significativa, circa il 40%, è destinata all’esportazione verso mercati in espansione. Il governo cinese, consapevole del ruolo strategico dell’industria dei veicoli elettrici, ha spalancato le porte a Musk, offrendo incentivi fiscali e un trattamento preferenziale raro per un’azienda straniera.

Ma il paradiso produttivo cinese è anche una prigione dorata. Tesla dipende da Pechino più di quanto Musk sia disposto ad ammettere. Le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, esplose durante la presidenza Trump, hanno messo a dura prova questa relazione. Nel 2018, Trump ha lanciato una guerra commerciale contro la Cina, imponendo dazi su centinaia di miliardi di dollari di merci cinesi. La strategia mirava a ridurre il deficit commerciale americano, ma ha finito per colpire anche le aziende statunitensi che operavano in Cina, Tesla inclusa.

In questo contesto, Musk si è trovato a dover giocare su due tavoli. Da un lato, ha cercato di mantenere buoni rapporti con l’amministrazione Trump, elogiando le sue politiche industriali quando necessario. Dall’altro, ha fatto il possibile per non incrinare la sua posizione in Cina, dove Tesla è vista come un simbolo di innovazione occidentale. Una dicotomia che ha messo in luce il vero volto del capitalismo moderno: nessuna ideologia, solo pragmatismo.

Trump, dal canto suo, ha utilizzato la Cina come un capro espiatorio perfetto per alimentare la sua base elettorale. La narrativa dell’America minacciata dall’espansione economica cinese è stata un pilastro del suo discorso politico alle ultime elezioni. Tuttavia, le sue politiche commerciali raccontano una storia diversa. I dazi imposti hanno avuto effetti limitati sul deficit commerciale e hanno spesso danneggiato le aziende americane più di quanto abbiano colpito la Cina. Trump, pur predicando il nazionalismo economico, ha sempre mantenuto un occhio attento sui numeri. E in quei numeri, il fatturato – sia esso politico o economico – ha sempre avuto la priorità.

Il bivio per Trump e Musk: propaganda o compromesso?

Ora la presidenza Trump – e Musk nella sua veste politica – si trovano di fronte a un bivio: tenere fede alle promesse elettorali sanzionando la Cina (e l’Unione europea) per rendere “grande l’America” oppure rimangiarsi gli slogan e concedere a Tesla di lucrare sulle facilitazioni politiche e salariali cinesi. Trasformarsi in una tecnocrazia del resto era il rischio evidente dell’alleanza Musk-Trump. Il presidente Usa si accorge che farsi strafinanziare da uno stramiliardario ha degli evidenti costi politici. 

Ma c’è un elemento di ironia in questa storia. Mentre Trump e Musk combattono le loro battaglie, la Cina si rafforza. La Gigafactory di Shanghai non è solo una fabbrica: è una prova tangibile del potere di attrazione cinese. Pechino non ha bisogno di guerre commerciali o sanzioni per esercitare la sua influenza. Basta la sua capacità di offrire opportunità, rendendo le aziende occidentali dipendenti dal suo mercato. E Trump e Musk sono in quella tela. 

L’articolo Ma che si è messo in… Tesla Musk? Sulla Cina è scontro con Trump sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Mediterraneo, la frontiera del silenzio

Nel Mediterraneo, ogni onda è un atto di accusa. Ogni barca che affonda, un processo sommario contro un’umanità che ha dimenticato sé stessa. Il report “Violenze, Resistenze e Memorie tra le due rive del Mediterraneo” di Memoria Mediterranea è un urlo straziante che cerca di rompere il muro del silenzio. Non ci sono eufemismi per raccontare quello che succede tra le coste africane e quelle europee: è una strage sistematica, voluta e alimentata con denaro pubblico.

Esternalizzare la crudeltà

Non bastavano le fosse comuni in Libia. Non bastavano i lager finanziati con la complicità europea. Ora c’è una nuova zona SAR tunisina, che estende il controllo della Guardia Costiera di Tunisi fino a lambire la Sicilia occidentale. Qui non si tratta di “ricerca e soccorso”, ma di respingimenti travestiti da diplomazia. Sotto l’etichetta dell’efficienza, le vite delle persone migranti sono affidate a forze che agiscono come milizie. Abusi, respingimenti nel deserto, violenze: è questa la politica migratoria europea, dove il diritto è una parola che si scioglie tra le onde.

L’accordo Italia-Albania è l’altro volto della stessa medaglia. Un centro di trattenimento a Gjader, una struttura penitenziaria travestita da hotspot: un altro laboratorio di violazione dei diritti umani. Persone private del nome, delle tutele, della speranza. E mentre le famiglie attendono risposte, il protocollo viene difeso come “necessario”. Necessario a cosa Al progetto di un’Europa sempre più murata, cieca, muta.

Mediterraneo: Mare nostrum, cimitero comune

Il Mediterraneo centrale è il più mortale, ma anche il più invisibile. Il naufragio di Roccella Jonica, nella notte tra il 16 e il 17 giugno, ha portato via almeno 35 vite. Minori, donne, uomini. Solo numeri, per chi resta indifferente. Memoria Mediterranea racconta l’orrore: le autorità ignorano gli allarmi, il mare inghiotte vite e sogni. Ma i morti, si sa, non votano. E così, le salme vengono sepolte senza nome, perché nemmeno nella morte c’è dignità per chi osa attraversare i confini.

Le storie che emergono dal report sono ferite aperte. Aissatou Aisha Barry, giovane guineana di 23 anni, è morta durante uno sbarco a Lampedusa. La sua famiglia ha dovuto combattere mesi per identificarla, per strapparla all’oblio. Ogni foto, ogni carta, ogni dettaglio è stato un atto di resistenza contro un sistema che cancella le persone. Lo stesso è accaduto con Ishtiaq Hassan, ragazzo bengalese morto nella stiva di una “carretta del mare”. Anche lui, come tanti altri, è stato ridotto a un numero.

La repressione della solidarietà

Non c’è limite alla disumanità di chi governa. Salvare vite è diventato un reato. Le Ong vengono bloccate, multate, isolate. Le navi, costrette a percorrere chilometri per raggiungere porti lontani, trasformano ogni salvataggio in una corsa contro il tempo. La legge 50/2023 è solo l’ultimo schiaffo: una repressione senza maschere, dove la solidarietà è trattata come una minaccia.

E poi ci sono i processi. Maysoon Majidi, attivista iraniana, è stata accusata di scafismo. Perché? Perché è sopravvissuta. Perché si è difesa. Questo Stato, che lascia morire le persone, ha il coraggio di trasformarle in carnefici. È un sistema che criminalizza chi attraversa il mare e assolve chi lo riempie di morti.

Contro l’oblio del Mediterraneo

Ma non tutto si può cancellare. Le famiglie di chi non c’è più sono lì a ricordarlo. Adama Barry, sorella di Aissatou, ha lottato fino all’ultimo per riportare il corpo della giovane guineana a casa. Tariq, cugino di Ijaz Firas, ha raccolto fondi per dare alla sua famiglia pakistana il diritto di piangere il loro figlio. Ogni storia è un pugno nello stomaco, ma è anche un segno di resistenza.

Memoria Mediterranea chiude il suo report con un monito: nessuno può dirsi innocente. Questo mare di sangue è una responsabilità collettiva, un’onta che non si lava via. L’Europa non è una fortezza: è un campo di battaglia, dove chi sopravvive deve combattere per restare umano. Ma ogni nome, ogni volto, ogni lacrima raccontano che l’oblio non ha ancora vinto.

Restano le domande: quanto ancora si potrà guardare dall’altra parte? E quanto ancora si potrà sostenere che tutto questo è inevitabile? Rispondere è un dovere. Non per chi è già morto, ma per chi rimane. Perché il silenzio è complicità, e chi non parla oggi sarà colpevole domani.

L’articolo Mediterraneo, la frontiera del silenzio sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Matteo dice No e Giorgia tace

Nessuna questione di competenze, nessun dibattito sui risvolti politici nella maggioranza europea, nessun mea culpa sul voto contrario alla Commissione von der Leyen: per Giorgia Meloni la vicepresidenza di Raffaele Fitto è soprattutto una questione di rispetto per la nazione. Ergo, chi era contro Fitto (come il Pd, che però ci ha ripensato) era contro la nazione.

I patrioti, del resto, usano spesso il trucco di trattare gli oppositori politici come traditori della patria. Avremmo potuto imparare la lezione, studiare un po’ meglio la storia, e invece la trasposizione di Fitto a bene nazionale, come il Colosseo o la Torre di Pisa, è passata, con l’aiuto di politici di rango come Prodi e Monti e con la moral suasion – si dice – del Quirinale.

La retorica della maggioranza, anche questa volta, ha funzionato. Fitto, trasformato nell’ambasciatore dell’Italia a Bruxelles, ha intimorito persino i socialisti europei. Qualcuno di loro addirittura esulta – come il “riformista” Giorgio Gori – spiegandoci che il governo italiano ha indicato nell’ex ministro al Pnrr “un nome obiettivamente rispettabile”, anche se l’attuazione del nostro Pnrr a Bruxelles è ritenuta molto discutibile.

Solo che ieri, a prendere le distanze dalla nuova Commissione europea (e quindi anche da Fitto), è stato Paolo Borchia, capodelegazione della Lega al Parlamento europeo, che, a Il Foglio, ha confermato il voto contrario del gruppo europeo dei Patrioti. Quindi la Lega, alleata di Fitto e Meloni in Italia, vota contro la Patria a Strasburgo? Meloni, in questo caso, tace.

L’articolo Matteo dice No e Giorgia tace sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Decolla la produttività, ma crollano i redditi

Benvenuti nel Paese in cui i lavoratori producono di più ma guadagnano di meno. Non è solo un paradosso economico, è uno schiaffo morale alla dignità del lavoro. I numeri della ricerca Uiltucs sono una radiografia impietosa del nostro sistema: mentre i salari reali in Italia precipitavano dell’8% dal 2010, in Germania volavano su del 14%. Il settore del commercio è il settore più emblematico: una produttività aumentata del 16% si è trasformata in un taglio del 15% delle buste paga. In parole povere, i lavoratori hanno regalato alle aziende maggiore efficienza ricevendo in cambio povertà. Una redistribuzione alla rovescia, un Robin Hood che ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Confrontarsi con l’Europa fa ancora più male. Il nostro salario medio di 31.530 euro ci relega al penultimo posto tra i nove Paesi analizzati, con la magra consolazione di superare la Spagna di appena mille euro. La Danimarca, prima in classifica, ci stacca di oltre 20mila euro. È il racconto di due Europe che viaggiano a velocità diverse, dove il lavoro ha valori e dignità differenti.

La verità è che stiamo assistendo a un furto silenzioso. Mentre i lavoratori corrono più veloce sulla ruota del criceto della produttività, il loro potere d’acquisto viene eroso giorno dopo giorno. È un sistema che ha smesso di redistribuire ricchezza, trasformandosi in una macchina che accumula disuguaglianze. La Germania ha trovato una risposta nel salario minimo legale del 2015. Noi continuiamo a dibattere, mentre i nostri lavoratori scivolano lentamente verso la povertà. O si sta dalla parte di chi il lavoro lo fa o di chi sul lavoro altrui continua ad arricchirsi senza redistribuire nulla.

L’articolo Decolla la produttività, ma crollano i redditi sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui