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Migranti, schiaffo dei giudici Ue ai Paesi membri. Le donne afghane sono perseguitate, il diritto d’asilo è automatico

In una sentenza che potrebbe ridisegnare il panorama del diritto d’asilo in Europa, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha emesso il 4 ottobre 2024 una decisione cruciale riguardante lo status di rifugiate delle donne afgane. Il caso, che ha attirato l’attenzione internazionale, riguarda due donne afgane a cui l’Austria aveva negato lo status di rifugiate, concedendo loro solo la protezione sussidiaria.

La vicenda ha le sue radici nel rifiuto delle autorità austriache di riconoscere la gravità della situazione delle donne in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021. Nonostante le evidenti restrizioni imposte alle donne dal regime, l’Austria aveva sostenuto che le richiedenti asilo non fossero esposte a un rischio “effettivo e specifico” di persecuzione. 

La svolta: essere donna afgana è già persecuzione

La sentenza della Corte getta nuova luce sulla definizione di “persecuzione” ai sensi della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, particolarmente nel contesto afgano. Secondo la Corte, la somma delle misure discriminatorie adottate dai talebani contro le donne costituisce di per sé un atto di persecuzione. Queste misure, che la Corte ha dettagliatamente esaminato, vanno dalla privazione di protezione giuridica contro la violenza di genere e domestica, all’obbligo di coprirsi completamente, passando per le severe limitazioni all’accesso all’istruzione, al lavoro e alla partecipazione politica.

La Corte ha sottolineato come queste restrizioni, nel loro insieme, violino la dignità umana garantita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. È significativo notare come la sentenza stabilisca che non è necessario dimostrare un rischio individuale e specifico di persecuzione per le donne afgane. Il solo fatto di essere donna e afgana, nelle attuali condizioni del paese, è considerato sufficiente per presumere un rischio di persecuzione.

La decisione non è arrivata nel vuoto. La Corte ha basato il suo giudizio anche su rapporti autorevoli dell’Agenzia dell’Unione Europea per l’Asilo e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Questi organismi avevano già evidenziato il timore fondato di persecuzione per le donne e le ragazze afgane, suggerendo una presunzione di riconoscimento dello status di rifugiate.

La sentenza fa riferimento anche a importanti trattati internazionali come la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna e la Convenzione di Istanbul. Questi documenti sottolineano l’importanza della parità di genere e il diritto delle donne alla protezione contro ogni forma di violenza, principi che la Corte ha ritenuto fondamentali nella sua decisione.

Oltre l’Austria: le implicazioni per l’Europa

Ovviamente le implicazioni di questa sentenza vanno ben oltre i confini austriaci.  Si stabilisce un precedente significativo per l’interpretazione di cosa costituisca persecuzione nel contesto dei diritti delle donne, soprattutto in paesi dove le libertà fondamentali sono sistematicamente negate. Potrebbe portare a una revisione delle politiche di asilo in vari paesi europei, in particolare per quanto riguarda le donne provenienti da contesti dove i loro diritti sono gravemente violati.

Resta ora da vedere come l’Austria e altri Stati membri dell’Ue adatteranno le loro procedure di asilo alla luce di questa decisione. Ancora una volta il diritto pone una sfida significativa alle politiche di asilo restrittive, sottolineando la necessità di un approccio più sensibile alle questioni di genere nella valutazione delle richieste di asilo.

Non si  tratta quindi solo di una vittoria legale per le donne afgane ma un monito per tutti gli Stati membri sull’importanza di riconoscere e proteggere i diritti delle donne nel contesto del diritto d’asilo. Chissà se l’Europa che si fregia di essere patria del diritto riconoscerà il dovere di rispettarlo. 

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La Corte Ue salva la canapa (e la Cannabis Light) e manda in… fumo i piani del governo

Ancora una volta l’Europa smentisce l’Italia. La recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla coltivazione della canapa ha messo in luce un divario sempre più ampio tra le visioni progressiste di Bruxelles e l’approccio restrittivo del Belpaese.

L’Europa apre, l’Italia chiude: il paradosso della canapa

La Corte di Lussemburgo ha decretato che gli Stati membri non possono vietare la coltivazione della canapa in sistemi idroponici in ambienti chiusi, a patto che il contenuto di THC non superi lo 0,2%. Una decisione che suona come una fanfara per gli agricoltori europei ma che in Italia riecheggia come un campanello d’allarme per un governo che sembra voler tornare all’epoca del proibizionismo.

Mentre l’Ue apre le porte a nuove tecniche di coltivazione, riconoscendo i benefici dell’agricoltura idroponica per la Politica Agricola Comune (PAC), l’Italia si barrica dietro il Ddl sicurezza del governo Meloni, che ha dato uno stop alla cannabis light. Un passo indietro che fa stridere i denti non solo agli imprenditori del settore ma anche a chi crede in un’Europa unita e progressista.

La sentenza della CGUE è chiara come l’acqua di un sistema idroponico ben funzionante: la coltivazione indoor della canapa è possibile, anzi, auspicabile. Si parla di incremento della produttività, progresso tecnico, migliore impiego dei fattori di produzione. Concetti che sembrano essere incomprensibili dalla parti di Palazzo Chigi. 

Canapa, voci dal settore: un grido inascoltato per il progresso

Mattia Cusani, Presidente dell’Associazione Nazionale Canapa Sativa Italia, non usa mezzi termini: “Questa sentenza rafforza la necessità di basare le politiche nazionali su dati scientifici e sul rispetto delle normative europee”. Un invito al governo italiano a riconsiderare le misure proposte nell’Articolo 18, per evitare di danneggiare un settore che offre lavoro a circa 15 mila persone e genera un fatturato annuo di 500 milioni di euro. Numeri che, evidentemente, non fanno abbastanza rumore nei corridoi del potere.

Il governo Meloni difende la sua posizione sostenendo che le limitazioni servano per evitare il commercio illegale di infiorescenze e derivati per uso ricreativo. Un argomento che suona come una scusa mal congegnata, soprattutto alla luce della sentenza europea che sottolinea come l’unica limitazione possibile sia quella basata sull’evidenza empirica di rischi per la salute pubblica.

Le associazioni di filiera invocano una riconsiderazione dell’articolo 18 del Ddl sicurezza, chiedendo una regolamentazione basata su evidenze scientifiche e lo sviluppo sostenibile del settore. Ma le loro voci sembrano perdersi nel vuoto di una politica sorda alle istanze di modernità e progresso.

Dalla Corte Ue un segnale chiaro

La sentenza della CGUE è un monito chiaro: non sarà più possibile limitare il commercio e la coltivazione di canapa sativa L in modo arbitrario, ma solo se effettivamente sussistono rischi per la salute pubblica. Un principio che dovrebbe essere ovvio in uno stato di diritto, ma che in Italia sembra essere considerato come una provocazione.

Il contrasto tra l’approccio europeo e quello italiano sulla questione della canapa è emblematico di una divergenza più ampia. Da un lato, un’Unione europea che cerca di bilanciare innovazione, sviluppo economico e tutela della salute pubblica. Dall’altro, un’Italia che sembra voler rimanere aggrappata a vecchi pregiudizi e paure infondate.

La domanda che sorge spontanea è: quanto ancora potrà l’Italia permettersi di andare controcorrente rispetto alle direttive europee? La canapa appare essere solo la punta dell’iceberg di un disallineamento più profondo tra le politiche nazionali e quelle comunitarie. La strategia di Meloni di voler pesare in Europa facendo la sovranista in Italia è uno sgretolamento continuo a suon di sentenze. 

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Carceri, dall’Onu una doccia fredda per l’Italia: razzismo endemico dietro le sbarre

Un nuovo rapporto dell’Onu conferma le discriminazioni nel sistema carcerario italiano, evidenziando una realtà che molti fingono di ignorare: il persistente razzismo sistemico contro gli africani e le persone di origine africana. Il documento, presentato al Consiglio per i diritti umani a Ginevra, è il risultato di un’indagine condotta da tre esperti indipendenti che hanno visitato l’Italia tra il 2 e il 10 maggio, toccando le città di Roma, Milano, Catania e Napoli.

Il quadro che emerge è tutt’altro che lusinghiero per il nostro Paese. Nonostante l’esistenza di un contesto normativo che sulla carta prevede protezioni contro la discriminazione razziale la realtà dietro le sbarre racconta una storia diversa. Gli esperti dell’Onu hanno rilevato abusi delle forze dell’ordine contro gli africani e le persone di discendenza africana, frutto di un razzismo radicato e sistemico che permea non solo le carceri, ma l’intero sistema di giustizia penale.

Il volto oscuro della giustizia: discriminazione, razzismo e abusi dietro le sbarre

Il rapporto dice testualmente: “In Italia persiste in maniera significativa il razzismo sistemico contro gli africani e le persone di origine africana da parte della polizia e dei sistemi di giustizia penale”. Il “razzismo sistemico” si manifesta in molteplici forme: dalla profilazione razziale nelle forze dell’ordine, alla difficoltà per le donne di origine africana di ottenere aiuto e protezione, fino alla separazione delle donne migranti dal resto della famiglia. Un aspetto particolarmente allarmante è la mancanza di dati disaggregati su base etnica che impedisce di valutare appieno il livello di discriminazione e di sviluppare politiche adeguate per contrastarla.

Il rapporto non si limita a denunciare, ma punta il dito anche sulle condizioni di detenzione. Nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR), come quello di Milano, sono stati segnalati maltrattamenti allarmanti: “Privazione di cibo e acqua per lunghi periodi, oltre a preoccupazioni per la qualità del cibo”. A Roma, nel CPR di Ponte Galeria, gli esperti hanno notato una “visibile angoscia nei detenuti maschi”, sintomo di un sistema che sembra aver perso di vista il concetto di dignità umana.

Ma il problema non si limita ai CPR. Il rapporto cita casi eclatanti come quello di Santa Maria Capua Vetere, dove “105 agenti di polizia e funzionari del carcere sono imputati per presunte torture e altri abusi, tra cui la morte di un detenuto algerino nel 2020”. Non mancano menzioni ad altri episodi simili in diversi penitenziari italiani, da San Gimignano a Reggio Emilia, fino all’IPM “Cesare Beccaria” di Milano.

Particolarmente critica appare la situazione dei minori stranieri non accompagnati, vittime di “pratiche illegali di detenzione e refoulement che violano i loro diritti umani”. A Milano, molti di questi minori finiscono per strada, in condizioni di povertà estrema e facile preda di dinamiche di sfruttamento.

Il rapporto non risparmia critiche nemmeno al recente decreto Caivano, esprimendo preoccupazione per gli effetti negativi che potrebbe avere sui minori in conflitto con la legge, in particolare quelli di origine africana. Il timore è che queste misure possano “contribuire alla discriminazione e alla marginalizzazione sociale dei minori stranieri, favorendo l’applicazione di misure più restrittive rispetto ai loro coetanei italiani, senza considerare adeguatamente il principio del miglior interesse del minore”.

Verso il cambiamento: le raccomandazioni dell’Onu per un sistema più equo

Di fronte a queste accuse, cosa può e deve fare l’Italia Il rapporto suggerisce diverse strade: dalla raccolta sistematica di dati disaggregati per comprendere meglio l’impatto della discriminazione, all’adozione di un approccio basato sui diritti umani nell’attività di polizia. Si raccomanda inoltre la creazione di un organo di controllo indipendente per indagare sulle denunce contro le forze dell’ordine e l’adozione di misure concrete per combattere il razzismo sistemico.

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Berlusconi santo subito? La verità affoga nel Mediterraneo

Il corrispondente di Radio radicale Sergio Scandura ha il brutto vizio di avere la memoria lunga. Abituato a tenere gli occhi fissi sul Mediterraneo che in molti vorrebbero sguarnito ieri ha piantato un chiodo nella memoria dell’aberrante percorso che ci ha portato al processo Open arms contro Matteo Salvini, a Cutro e alle nefandezze giuridiche di questo governo. 

Lo spunto è la doppia manovra di Forza Italia che punta a ripassare il fondotinta liberale sul partito e contemporaneamente a santificare (per assolvere) la figura del suo fondatore Silvio Berlusconi. “Berlusconi non avrebbe commesso una brutalità” come quella di Salvini con Open Arms, ha detto in un’intervista a La Stampa Francesca Pascale.

E invece è falso. Nel 2009, ricorda Scandura, Berlusconi fu precursore dei respingimenti illegali consegnando con navi italiane 200 naufraghi tra le fauci del colonnello Gheddafi. Fu una delle nove operazioni di restituzione all’inferno che condannarono l’Italia come fiancheggiatrice degli orrori libici.

Furono senza dubbio i prodromi dei sanguinari accordi con la Libia del ministro Minniti e poi a scendere fino al sabotaggio dei salvataggi in mare. La greve situazione attuali ha molti padri e converrebbe ricordarseli tutti. C’è quel Luigi Di Maio che oggi annuncia il suo possibile ritorno in politica, colui che nel 2017 parlò di “taxi del mare”. Ci sono ministri e governi di ogni colore. Piantedosi è solo il risultato di una lunga e dolorosa involuzione politica a cui hanno partecipato diversi attori, incluso “l’amante delle libertà” Silvio Berlusconi. 

Buon martedì. 

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Elezioni farsa in Tunisia nel silenzio dell’Europa

La farsa elettorale tunisina si è conclusa come previsto: Kais Saied ha “vinto” con l’89% dei voti. Una vittoria schiacciante, degna dei migliori regimi autoritari. Ma chi è il vero vincitore di questa pantomima democratica Certamente non il popolo tunisino, che ha disertato le urne in massa, con un’affluenza misera del 27,7%. Il trionfo di Saied è quello di un uomo solo al comando, che ha spazzato via ogni parvenza di opposizione. I suoi sfidanti? Un imprenditore in carcere e un candidato fantoccio che lo sosteneva. Una competizione degna delle migliori barzellette politiche, se non fosse tragicamente vera.

Ma la vera vergogna è l’imbarazzante silenzio dell’Unione Europea, troppo impegnata a lodare Saied come baluardo contro l’immigrazione per preoccuparsi di dettagli come la democrazia. E che dire dell’Italia La nostra Premier Meloni, sempre pronta a dipingersi come paladina dei valori occidentali, tace di fronte all’amico Saied che imprigiona oppositori e giornalisti. Questo è il prezzo che l’Europa è disposta a pagare per il controllo dei flussi migratori: legittimare un autocrate che ha smantellato sistematicamente le istituzioni democratiche tunisine, nate dalle ceneri della Primavera Araba Saied promette di “ripulire il paese dai corrotti”.

Resta da vedere chi ripulirà la Tunisia da un presidente che ha trasformato la democrazia in una farsa e chi ripulirà la coscienza dell’Europa, complice silenziosa di questo declino democratico. La Tunisia di Saied è lo specchio delle nostre ipocrisie. Un monito che ci ricorda come sia facile sacrificare i principi sull’altare della realpolitik. Ma attenzione: quando si semina autoritarismo, si raccoglie instabilità.

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Un anno di guerra, zero soluzioni: l’Ue alla prova del fuoco (e del fallimento)

Nel giorno in cui il mondo commemora il primo anniversario degli attacchi di Hamas contro Israele, l’Unione europea è la solita orchestra senza direttore, dove ogni musicista suona la propria partitura. È questo il quadro che emerge a un anno di distanza da quel tragico 7 ottobre 2023, con l’Ue incapace di trovare una voce comune su una delle crisi più complesse e durature del nostro tempo.

Mentre Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, partecipa alla cerimonia commemorativa per le 1.200 vittime israeliane e i 250 ostaggi, il Medio Oriente ribolle. Gaza continua a sanguinare sotto i bombardamenti, il Libano trema per gli scontri tra Israele e Hezbollah e l’Iran viene minacciato di rappresaglie. In questo scenario da polveriera, l’Ue si dimostra incapace di offrire una risposta unitaria e coerente.

L’Europa: un coro di voci stonate

L’Unione si presenta come un mosaico di posizioni contrastanti. Da un lato, Austria e Ungheria si ergono a paladini di Israele. Dall’altro, Irlanda, Spagna e Belgio alzano la voce in difesa dei palestinesi. In mezzo, una vasta gamma di sfumature diplomatiche che rendono impossibile qualsiasi azione comune efficace. Le tensioni non si limitano alle capitali europee. L’Irlanda, con i suoi 347 caschi blu in Libano, respinge con fermezza la richiesta israeliana di ritirare i peacekeepers, definendola “oltraggiosa”. La Francia di Macron, invocando un embargo sulle armi verso Israele, si attira le ire di Netanyahu che risponde con un video al vetriolo.

Silenzio assordante: il vuoto diplomatico dell’Ue

Mentre von der Leyen ribadisce la condanna di Hamas e la solidarietà a Israele, pur esprimendo preoccupazione per Gaza, Josep Borrell, Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’Ue, brilla per il suo silenzio. Un’assenza di comunicazione che parla più di mille dichiarazioni, evidenziando la paralisi decisionale ai vertici dell’Unione.

In una dichiarazione domenicale, von der Leyen ha affermato: “Non ci può essere alcuna giustificazione per gli atti di terrore di Hamas. Condanno ancora una volta, e nei termini più forti possibili, quegli attacchi barbari”. Ha inoltre ribadito la speranza dell’Ue per un cessate il fuoco immediato e il rilascio degli ostaggi rimanenti, deplorando la “terribile” situazione umanitaria a Gaza e mettendo in guardia contro una “spirale di violenza” in tutta la regione.

L’incapacità dell’Ue di parlare con una sola voce ha effetti devastanti sulla sua credibilità internazionale. Sul piano diplomatico, l’Europa si riduce a spettatore passivo di eventi che la riguardano da vicino. La sua autorevolezza come attore geopolitico viene minata alla radice, mentre gli sforzi umanitari, urgenti e necessari, vengono ostacolati dalla mancanza di coordinamento. Non da ultimo, le fratture interne all’Unione si allargano, minacciando la coesione su altri dossier cruciali. La posta in gioco non è solo la pace in Medio Oriente, ma la stessa credibilità dell’Unione come attore globale.

In Europa e nel mondo, migliaia di persone hanno partecipato a manifestazioni. Alcune si sono riunite in solidarietà con Israele, chiedendo il rilascio degli ostaggi rimanenti ma molte di più sono scese in piazza per protestare contro le operazioni militari israeliane. Le manifestazioni riflettono la divisione dell’opinione pubblica che si rispecchia nella frammentazione delle posizioni politiche all’interno dell’Ue. 

L’anniversario degli attacchi del 7 ottobre mette a nudo non solo la tragedia del conflitto israelo-palestinese ma anche l’inadeguatezza dell’Ue di fronte alle sfide geopolitiche del nostro tempo. In un mondo sempre più polarizzato e instabile l’Europa non può più permettersi il lusso di parlare con voci discordanti. Il risultato è una riduzione a un’appendice marginale nelle grandi partite geopolitiche, condannata all’irrilevanza proprio quando il suo ruolo sarebbe più necessario che mai.

La posta in gioco è alta: non solo il futuro del Medio Oriente ma anche il ruolo dell’Europa nel mondo del XXI secolo.

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Cittadinanza per caso: quando un bisnonno vale più di 18 anni di vita italiana

Ogni volta che si parla di cittadinanza c’è chi tira fuori il sangue, chi il cuore, chi le tradizioni ma la burocrazia è la fotografia del tilt. 

Come riporta un illuminante articolo di Davide Leo per Pagella Politica, l’Italia mostra due facce quando si tratta di concedere la cittadinanza: una generosa e accogliente per chi può vantare un lontano avo emigrato, l’altra arcigna e diffidente per chi è nato e cresciuto sul suolo patrio.

Il paradosso dello ius sanguinis: quando un bisnonno vale più di una vita in Italia

Immaginate la scena: da una parte abbiamo Mario, nato a Buenos Aires, che non ha mai messo piede in Italia e non sa distinguere una carbonara da una amatriciana. Dall’altra c’è Fatima, nata e cresciuta a Milano, che mastica Dante a colazione e si nutre di Costituzione a cena. Indovinate chi ha più possibilità di ottenere il passaporto italiano? 

Ebbene sì, il nostro Mario, armato di documenti ingialliti che attestano la sua discendenza da un bisnonno partito per l’Argentina nel lontano 1890, ha praticamente la cittadinanza in tasca. Fatima, invece, dovrà aspettare i 18 anni e dimostrare di aver vissuto ininterrottamente in Italia, come se i suoi 18 anni di vita, scuola e cultura italiane non fossero sufficienti.

È il trionfo dello ius sanguinis, il principio che fa scorrere la cittadinanza nelle vene come un’eredità genetica, indipendentemente da quanto quel sangue si sia diluito nei decenni o nei secoli. Un principio che, come ci ricorda Leo, affonda le sue radici in un’Italia di emigranti, cristallizzata in leggi che sembrano ignare del fatto che il mondo, nel frattempo, è cambiato.

Nel caso di Mario bisogna scavare negli archivi, setacciare documenti, dimostrare che nessun antenato abbia mai osato rinunciare alla sacra cittadinanza italiana. Un’impresa che, come racconta l’avvocata Giuditta De Ricco a Pagella Politica, spesso si trasforma in una vera e propria odissea burocratica, con tanto di ricorsi al tribunale.

Cittadinanza, l’odissea burocratica: tribunali in tilt e la nuova ondata di italiani sulla carta

E qui si apre il sipario sul secondo atto della commedia: i tribunali italiani, già oberati da processi infiniti e fascicoli polverosi, si trovano sommersi da migliaia di richieste di riconoscimento della cittadinanza. Il Tribunale di Venezia ad esempio è alle prese con oltre 18mila pratiche pendenti, che potrebbero interessare fino a centomila oriundi.

Ma chi sono questi novelli italiani? Secondo De Ricco, principalmente giovani studenti in cerca di un passaporto comodo per girare l’Europa, e pensionati desiderosi di godersi la dolce vita italiana. Niente di male, per carità. Ma viene da chiedersi se sia questo il criterio giusto per definire l’italianità.

Intanto, nel 2022, ben 41mila persone hanno ottenuto la cittadinanza italiana per ius sanguinis, la maggior parte proveniente dall’America Latina. Un esercito di nuovi italiani che, ironia della sorte, in molti casi non metterà mai piede nel Bel Paese, se non per sbrigare le pratiche burocratiche.

E qui si giunge all’apice del paradosso: questi neo-italiani, pur non conoscendo la lingua, la cultura o le tradizioni del paese, avranno diritto di voto. Potranno decidere le sorti politiche di un paese che conoscono solo attraverso i racconti sbiaditi di qualche avo lontano. Potrebbero persino votare contro un referendum che propone di facilitare l’ottenimento della cittadinanza per gli stranieri residenti in Italia da lungo tempo.

L’assurdità della situazione non è sfuggita a tutti. Il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, ha invocato una “riflessione” sulla questione. Forza Italia ha annunciato una proposta di legge per restringere le concessioni per ius sanguinis. Ma per ora, il sipario resta aperto su questa tragicommedia all’italiana.

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Trump ha cambiato idea sulle auto elettriche

Impegnato nella sua focosa campagna presidenziale negli Usa Donald Trump è stato il più grande mistificatore delle auto elettriche, assurte a male assoluto dell’Occidente. Per Trump i veicoli elettrici sarebbero stati il simbolo della decadenza occidentale – non si è mai capito perché – e tra le sue squinternate proposte c’è stata a lungo anche quella di “vietare i veicoli elettrici”. 

I suoi elettori ovviamente hanno esultato. La politica di Trump, come quella dei gaglioffi sovranisti che popolano questo tempo, si contraddistingue per lo sconsiderato amore per i divieti. I suoi sostenitori, come quelli degli altri sovranisti, non vedono l’ora di vedere capitalizzati i loro voti per suggellare un nuovo divieto. Sono regressisti nell’animo, intimamente reazionari, convinti che sia affascinante tornare all’età del ferro per editto presidenziale. 

Per questo da mesi il faccione di Trump era l’amuleto dei negazionisti climatici, quelli che negano l’impatto dell’inquinamento ma poi snocciolano – a caso –  l’inquinamento prodotto dalle tecnologie che avversano. È la solita triste solfa: riconoscono solo i danni delle tecnologie che combattono resi servi dalle lobby mentre vorrebbero combattere i poteri forti. 

Ora Trump ha cambiato idea. “Sono favorevole alle auto elettriche. Devo esserlo perché Elon mi ha dato un grande supporto. Quindi non ho scelta”, ha detto qualche tempo fa. Trump si è spinto perfino a consigliare all’amico Musk di produrre almeno qualche auto ibrido, almeno per toglierlo dall’imbarazzo. La politica comunque ora è più chiara: non avere idee, coltivare solo amicizie. 

Buon lunedì. 

Nella foto: frame del video, Donald Trump e Elon Musk, Butler, 5 ottobre 2024

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Meloni, Salvini, Tajani: quando il governo diventa faida condominiale

Hanno finalmente trovato gli scafisti, quelli della Lega. Secondo i giovani che hanno partecipato alla sguarnita cerimonia annuale di Pontida lo scafista sarebbe niente di meno che Antonio Tajani, leader di Forza Italia, ministro di governo nonché alleato degli stessi leghisti. 

Che Matteo Salvini sia corso a porre le proprie scuse è un particolare di poco conto. Il capo dei leghisti fa esattamente quello che fanno i suoi alleati: pugno duro tra i suoi fedelissimi e bella faccia con i compagni di governo. 

Ma l’utilizzo della parola “scafista” rivolta a Tajani ci dice molto di più. Nell’agone politico odierno funziona l’iperbole a ogni costo, si deve massimizzare tutto per riempire la pancia dei propri elettori. Se Tajani diventa uno scafista è inevitabile che l’azione politica contro gli scafisti di cui si è vantata Giorgia Meloni sia una boutade, una sciocchezzuola da dare in pasto ai maiali.

Dice molto anche Giorgia Meloni che nelle chat di partito si dica stupita che con Salvini ai Trasporti non siamo finiti a percorrere l’Italia sui dorsi dei muli. L’armata Brancaleone che guida il Paese è zeppa di odiatori seriali che si accoltellano alle spalle appena si presenta l’occasione. 

Alla luce del veleno che emerge in queste ultime ore si può facilmente comprendere come gran parte delle iniziative legislative non siano nient’altro che sgambetti, piccole zuffe da cortile condominiale, magre vendette di bambini mal cresciuti. 

Nemici sempre, nemici ovunque. È la stessa aria che tira sul resto del Paese, dove perfino la sofferenza delle guerre è un campo di scontro tra presunti influencer. Nella nostra lingua c’è una parole che descrive bene la situazione, si dice degrado morale. 

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La piaga del gioco d’azzardo online e il silenzio complice della politica – Lettera43

Nei Comuni sotto i 10 mila abitanti si concentra il 22 per cento della raccolta complessiva, per un totale di 17,8 miliardi di euro nel 2023. Dietro ci sono criminalità organizzata, sommerso e riciclaggio. Ma il governo è succube delle lobby: addirittura torna la pubblicità delle scommesse sulle maglie delle squadre di calcio. Così la dipendenza rischia di affossare i più fragili.

La piaga del gioco d’azzardo online e il silenzio complice della politica

L’azzardo online sta penetrando capillarmente nel tessuto economico e sociale dei piccoli centri italiani con cifre che fanno impallidire qualsiasi altra attività produttiva. È quanto emerge dal recente rapporto “Non così piccoli: la diffusione dell’azzardo online nei piccoli Comuni italiani”, realizzato da Cgil, Federconsumatori e Fondazione Isscon, un approfondimento della seconda edizione del Libro nero dell’azzardo online pubblicato a maggio, che mette in luce una realtà preoccupante e sottovalutata.

LEGGI ANCHE: L’escamotage delle pubblicità di scommesse e le contraddizioni di chi fa la predica

Raccolta annuale media pro capite di 1.639,21 euro

Nei 3.232 Comuni italiani con popolazione tra 2 mila e 9.999 abitanti, un quarto della popolazione nazionale, si concentra il 22 per cento della raccolta complessiva del gioco online, per un totale di 17,8 miliardi di euro nel 2023. Una cifra astronomica che supera di gran lunga qualsiasi altro settore economico in queste realtà. La raccolta annuale media pro capite, calcolata per la popolazione in età 18-74 anni, ammonta a 1.639,21 euro, con punte di 2.340,51 euro nei Comuni dell’Italia meridionale e insulare.

La piaga del gioco d'azzardo online e il silenzio complice della politica
Nei piccoli Comuni italiani dilaga la piaga del gioco d’azzardo online (Getty).

Il caso limite di Anguillara Veneta, in provincia di Padova

Ma ciò che veramente sconvolge sono i casi limite. Ad Anguillara Veneta, 4.161 abitanti in provincia di Padova, si è passati da 1,2 milioni di euro giocati online nel 2021 a quasi 40 milioni nel 2023. Un aumento del 3.173 per cento in due anni. Ogni residente tra i 18 e i 74 anni ha “investito” nell’azzardo online in media 13.073 euro in un anno, quasi 1.100 euro al mese. Un dato che fa rabbrividire, soprattutto se confrontato con il reddito medio della zona. Non è un caso isolato. A Calliano (Trento) si registrano 12.749 euro pro capite, a Moniga del Garda (Brescia) 11.402 euro. In 14 Comuni si superano i 7 mila euro annui di giocate online per abitante. Cifre che fanno impallidire qualsiasi altra voce di spesa familiare.

Correlazione inquietante con la criminalità organizzata

Il fenomeno non risparmia nessuna area del Paese. Se al Sud si concentrano i numeri più alti, con punte in Campania (2.725 euro pro capite), Sicilia (2.525 euro) e Calabria (2.673 euro), anche regioni come Veneto e Lombardia presentano casi eclatanti. Un’epidemia che non conosce confini geografici. Particolarmente preoccupante è la situazione in alcune province. Nel Palermitano 10 Comuni superano il doppio della media nazionale di giocate online. A Messina e Lecce sono nove, a Cosenza otto. Questi dati suggeriscono una correlazione inquietante tra la diffusione dell’azzardo e la presenza della criminalità organizzata, come sottolineato dagli autori del rapporto.

La piaga del gioco d'azzardo online e il silenzio complice della politica
Il governo italiano invece di limitare il gioco d’azzardo online allenta i controlli (Getty).

L’anomalia di Capri: c’entra l’economia sommersa del turismo?

Non mancano le anomalie statistiche che fanno sorgere più di un sospetto. Come spiegare, per esempio, l’improvviso boom di giocate in piccoli centri turistici come Capri, dove si è passati da 7.913 euro pro capite nel 2022 a 9.503 nel 2023? O i dati sorprendenti di località sul Lago di Garda e sul Lago di Como? Gli autori del rapporto ipotizzano un possibile collegamento con l’economia sommersa del turismo e attività di riciclaggio.

Anziché arginare il fenomeno, la politica miope allenta i controlli

Il rapporto evidenzia anche come la normativa introdotta dal governo in materia di azzardo online sia già fallita nei suoi scopi dichiarati. Anzi, il clima sembra essere cambiato in peggio: dopo anni, torna la pubblicità dell’azzardo sulle maglie delle squadre di calcio, esponendo i giovani a un bombardamento mediatico continuo. Dietro questi numeri si celano storie di dipendenza, famiglie rovinate, aziende in crisi. L’azzardo sta prosciugando le economie locali, drenando risorse che potrebbero essere investite in attività produttive. Con la complicità di una politica miope che, anziché arginare il fenomeno, sembra intenzionata ad allentare i già blandi controlli esistenti.

La piaga del gioco d'azzardo online e il silenzio complice della politica
Un sito di scommesse come sponsor sulla maglia dell’Inter, qui indossata dal capitano Lautaro Martinez (Getty).

Chi calcola i costi sanitari e sociali e gli effetti sulle famiglie distrutte?

Particolarmente grave è l’attacco al ruolo di Regioni e Comuni nel regolamentare il gioco d’azzardo. In nome della libertà d’impresa, si lavora alla riduzione dei distanziometri, delle limitazioni d’orario, all’aumento dell’offerta e dei luoghi dove esercitarla. Una resa incondizionata dello Stato di fronte al potere delle lobby del gioco. Il rapporto lancia un disperato grido d’allarme: serve un’inversione di rotta immediata prima che interi territori vengano fagocitati dal vortice dell’azzardo. Sarebbe necessario un bilancio sociale che metta a confronto le entrate erariali con i costi sanitari e sociali, gli effetti sui bilanci familiari, la disgregazione del tessuto comunitario. Ma chi avrà il coraggio di sfidare la potente lobby del gioco? Chi si farà carico di proteggere le fasce più deboli della popolazione da questa piaga sociale ed economica? Il tempo scade e il silenzio complice della politica rischia di trasformare l’Italia in un immenso casinò a cielo aperto dove a perdere ovviamente saranno sempre e solo i più fragili.

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