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Cose dell’altro mondo: astro-Lollobrigida manda in orbita i fusilli

Il ministro all’Agricoltura e al Made in Italy, Francesco Lollobrigida, questa volta non è partito in treno per la sua missione al Kennedy Space Center di Cape Canaveral per il lancio della missione spaziale Axiom 3 (AX-3), avvenuto ieri notte, alle 22.49 ora italiana.

Il cognato di Giorgia Meloni è volato negli Usa per promuovere il progetto “Italian space food” che ha lanciato un piatto di fusilli in orbita. “Il sistema Italia protagonista nello spazio – ha spiegato il ministro ai giornalisti -. Dopo una fase di preparazione di 14 giorni che ha visto l’equipaggio guidato dal connazionale Walter Villadei usare solo ed esclusivamente cibo italiano; con l’avvio della missione Voluntas, insieme ad Axiom, una delle eccellenze alimentari nazionali, la pasta, va in orbita. Un piatto di fusilli quanto più simile a quello che mangeremmo sulle nostre tavole, che rispetta la tradizione e frutto di una straordinaria ricerca. L’obiettivo non è solo quello di assicurare una sana alimentazione alla crew partita da Cape Canaveral, ma anche per testare i prodotti made in Italy in microgravità, attraverso il progetto Italian space food”.

La space economy secondo Lollobrigida

Per il ministro si tratterebbe di “un’importante occasione per la valorizzazione degli alimenti italiani e per cogliere tutte le opportunità che offre la space economy. Vogliamo consolidare il nostro ruolo di modello ed esempio in campo agroalimentare per creare una filiera dedicata al commercio nel mercato dell’economia spaziale”, ha aggiunto.

Per il ministro un viaggio sotto il missile in partenza negli Usa in questo momento storico per l’Italia è un modo di “promuovere la qualità per sostenere la candidatura della cucina italiana a patrimonio immateriale Unesco”.

Il ministero di Lollobrigida ha collaborato con “il ministro della Difesa, Guido Crosetto, e il collega del Mimit, Adolfo Urso, che, insieme all’Aeronautica militare, all’Agenzia spaziale italiana, università e centri di ricerca, hanno sposato questa sfida che guarda all’innovazione, andando oltre i nostri confini”.

Un ministro all’Agricolutra sulla rampa di lancio non poteva non accendere l’ironia della rete, dove Lollobrigida ormai è un vero e proprio “meme” vivente per le sue intemerate dalla sostituzione etnica al treno fermato per non arrivare in ritardo al suo appuntamento fino ai capelli coltivati sul capo di chi non vuole che si coltivi la carne. Su X Francesco si augura che Lollobrigida “non chieda di fermare il razzo” mentre Alessandro si augura che “almeno lo facciano partire”. Ma la presenza del ministro contiene ingredienti politicamente molto più significativi che non accendono risate: l’idea di occupare i ministeri come influencer delle attività a cui sono dedicati è l’ulteriore decadimento nell’interpretazione del proprio ruolo istituzionale.

Senza parole

Con il rispetto che si deve a un prodotto esportato in tutto il mondo come la pasta italiana viene difficile immaginare come prioritario un viaggio intercontinentale per promuovere un prodotto. Innanzitutto perché i ministri non sono agenti promozionali dell’Italia, nonostante dalle parti di Giorgia Meloni e Matteo Salvini venga interpretato così il proprio ruolo politico.

Un governo si insedia non per essere la pregiatissima e costosissima “pro loco” nazionale ma per dirigere la politica generale, per formulare le scelte con le quali si individuano i fini che lo stato intende perseguire in un determinato momento storico attraverso l’attività amministrativa e per essere organo di direzione, di impulso, di indirizzo della vita politica.

Per dirla più semplice il compito del ministro Lollobrigida non è rappresentare la pasta italiana nel mondo ma fornire gli strumenti e garantire l’equità perché i coltivatori e i produttori possano garantire l’eccellenza del proprio prodotto in termini di qualità e di visibilità. Quando un ministro decide di essere un testimonial non è politica. È propaganda. Propaganda rischiosissima perché al limite dell’imbarazzante. Come quando quell’altro ministro baciava i salami.

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Perché i Decreti omnibus sono un baco invisibile che guasta i meccanismi democratici – Lettera43

Inserire norme che nulla c’entrano con l’argomento su cui l’esecutivo legifera è ormai un’abitudine consolidata. Su cui recentemente si è espressa pure la Consulta. E nel 2021 il presidente Mattarella con una lettera ai presidenti delle Camere. La lotta all’indifferenza verso la politica potrebbe partire proprio da qui: appassionarsi agli stratagemmi sfruttati per comandare più che governare.

Perché i Decreti omnibus sono un baco invisibile che guasta i meccanismi democratici

Ha fatto poco discutere la recente sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittima una norma contenuta nel decreto 73/2021, emanato durante il governo Draghi e passato alle cronache come decreto Sostegni bis, quando in coda alla pandemia si moltiplicavano le misure di contrasto al Covid. In quel decreto («misure urgenti connesse all’emergenza da Covid-19, per le imprese, il lavoro, i giovani, la salute e i servizi territoriali») all’articolo 54 tre comma 2 il governo aveva definito una fase transitoria per alcune Camere di commercio della Sicilia, nell’attesa che entri in vigore la riforma complessiva del sistema camerale regionale. Nulla a che vedere con il Covid, con i giovani, con le imprese, con la salute e con i servizi territoriali. A ben vedere anche nulla di urgente poiché la situazione delle Camere di commercio siciliane poteva essere risolta con una legge ad hoc che compiesse l’iter ordinario. Quella norma disomogenea in effetti era stata aggiunta dal Parlamento in fase di conversione, con la solita fame di fare di ogni decreto un omnibus con cui velocizzare altri provvedimenti e trovare velocemente le soluzioni. Dice la sentenza: «Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, la legge di conversione riveste i caratteri di una fonte “funzionalizzata e specializzata”, volta alla stabilizzazione del decreto-legge, con la conseguenza che non può aprirsi a oggetti eterogenei rispetto a quelli in esso presenti, ma può solo contenere disposizioni coerenti con quelle originarie dal punto di vista materiale o finalistico essenzialmente per evitare che il relativo iter procedimentale semplificato, previsto dai regolamenti parlamentari, possa essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano il decreto-legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare».

Perché i Decreti omnibus sono un baco invisibile che guasta i meccanismi democratici
Sergio Mattarella e Mario Draghi nel novembre 2021 (Getty Images).

Il richiamo di Mattarella ai presidenti delle Camere nel 2021

Già nel 2012 la Corte con la sentenza 22 aveva affermato «il vaglio sugli emendamenti al decreto-legge, se flagrantemente estranei all’oggetto e alle finalità di questo. La loro approvazione importa, secondo la Corte, un uso improprio del potere parlamentare di conversione e concreta un vizio di legittimità costituzionale in parte qua della legge di conversione». Parole simili a quelle scritte il 23 luglio del 2021 dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in una lettera indirizzata agli allora presidenti di Camera e Senato (Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati) oltre che all’allora presidente del Consiglio Mario Draghi in cui il Capo dello Stato diceva di avvertire «la responsabilità di sollecitare nuovamente Parlamento e governo ad assicurare che, nel corso dell’esame parlamentare, vengano rispettati i limiti di contenuto dei provvedimenti d’urgenza, come già richiesto con analoga lettera dell’11 settembre 2020». «Il testo che mi è stato trasmesso», scriveva Mattarella, «contiene 393 commi aggiuntivi, rispetto ai 479 originari. Tra le modifiche introdotte ve ne sono alcune che sollevano perplessità in quanto perseguono finalità di sostegno non riconducibili all’esigenza di contrastare l’epidemia e fronteggiare l’emergenza, pur intesa in senso ampio, ovvero appaiono del tutto estranee, per finalità e materia, all’oggetto del provvedimento».

Perché i Decreti omnibus sono un baco invisibile che guasta i meccanismi democratici
Maria Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico (Getty Images).

La moltiplicazione di commi e parole nei Dl nel corso dell’iter 

I dati raccolti da Openpolis relativi a 39 decreti convertiti in legge da questo governo mostrano che «che in media i Dl presentati alle Camere hanno registrato nel corso dell’iter un aumento medio rispetto al testo base di 35 commi e 4.628 parole. In termini percentuali, l’incremento è stato del 55,3 per cento con riferimento al numero di commi e del 63,7 per cento per quanto riguarda il numero di parole». Il poco spazio lasciato al Parlamento e l’esigenza dei parlamentari di avere occasione di adempiere al ruolo di legislatori ha partorito 1.082 emendamenti apportati ai 16 decreti cosiddetti omnibus, per la stragrande maggioranza approvati in commissione per sfuggire alla tagliola del voto fiducia che il governo utilizza come ulteriore tagliola. Così nel decreto Caivano pensato per contrastare la criminalità minorile e l’elusione scolastica sono finiti i finanziamenti per la metropolitana di Napoli, per la diga di Montaquila in Molise e per la linea ferroviaria Biella-Novara. Nel decreto 145/2023, contenente norme fiscali, ci sono anche disposizioni relative a istruzione, sport, sicurezza, e procedure concorsuali della Consob.

Perché i Decreti omnibus sono un baco invisibile che guasta i meccanismi democratici
Il governo Meloni (Imagoeconomica).

Così, senza far rumore, si eludono i meccanismi della democrazia

La questione è sicuramente molto meno avvincente degli epici complottismi della maggioranza o delle polemiche sulla satira televisiva ma rivela chiaramente come l’elusione dei meccanismi della democrazia possa attuarsi con poco baccano e senza bisogno di riforme. La lotta all’indifferenza verso la politica potrebbe partire proprio da qui: l’appassionarsi ai bachi sfruttati per comandare più che governare.

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Renzi preso a Caten…ate: De Luca demolisce Matteo

Mentre sulle pagine dei giornali in vista delle prossime elezioni europee si scrive della presidente del Consiglio Giorgia Meloni possibile candidata come capolista di Fratelli d’Italia per dosare i voti e della possibile sfida della segretaria del più consistente partito di opposizione, Elly Schlein del Partito democratico, nelle retrovie si gioca un duello appassionante per protagonisti, toni e contenuti. “L’altra sera ‘stai sereno’ Renzi a Porta a Porta straparlava di me e di Sud chiama Nord. Oltre al fatto che mi piacerebbe tanto poter replicare nella stessa trasmissione e per questo faccio un appello a Bruno Vespa, anche per rispetto del pluralismo essendo la Rai servizio pubblico”. A prendere carta e penna ieri è stato il leader di Sud chiama Nord, Cateno De Luca, che non ha ancora finito di litigare con il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, ormai alla disperata ricerca di alleati per non affondare ben sotto alla soglia di sbarramento delle prossime europee dove Renzi ha promesso di correre in prima persona.

“Al buon Renzi – dice De Luca – che si diverte a raccontare fesserie e falsità, ma non è una novità, vorrei ricordare che fino all’altro giorno lui e i suoi ambasciatori ancora ci cercavano per fare la lista insieme, visto che sono disperati all’ennesima potenza. Caro Matteo… tieniti Cuffaro, noi siamo una cosa diversa, la nostra porta ormai è chiusa”. Uno scontro tra Renzi e Cateno De Luca è la fotografia dello stato attuale del partito renziano che – ha detto proprio ieri il capogruppo di Italia Viva alla Camera Davide Faraone – vuole proporsi “a chi non si sente rappresentato dal sovranismo e dal populismo e si ispira a sentimenti europeisti”. Sarà un successo, senza dubbio.

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Salvini come Silvio, vede complotti dappertutto

Matteo Salvini è in tilt. Dopo avere scambiato l’aula bunker di Palermo – dove è imputato nel processo Open Arms – ora vede magistrati ovunque, come Silvio Berlusconi nei suoi tempi migliori. Ieri è riuscito a vedere un complotto contro di lui pure nell’indagine per corruzione che riguarda il presidente della Sardegna Christian Solinas.

Dal processo Open Arms in poi il vicepremier Matteo Salvini è ossessionato dalle toghe

“Sì, io sento Solinas per le infrastrutture, perché la Campania come la Sardegna è stata un po’ bistrattata. Su quello che fa la magistratura non do commenti, perché ne sono personalmente oggetto di attenzione quasi quotidiana. Diciamo che la riforma della giustizia servirà al Paese ed è urgente”, ha detto il vicepremier e segretario della Lega parlando con i cronisti a Benevento, che gli chiedevano se avesse sentito il governatore della Sardegna. Alla domanda se tema imbarazzi sul caso di Solinas, ha replicato: “No, figurati”.

Tra le righe Salvini sembra voler fare intendere che la “giustizia a orologeria” non sia contro il presidente sardo ma contro di lui, magari per sabotarlo nel suo sostegno alla ricandidatura di Solinas per le prossime elezioni regionali. Forse la magistratura vorrebbe favorire nella tempistica la candidatura spinta da Meloni di Paolo Truzzu? Impossibile saperlo. Di certo stupisce che Salvini si stupisca di andare a processo dopo avere lasciato 147 naufraghi a rosolare in mezzo al mare per accontentare le pance dei suoi elettori. Stupisce che Salvini si stupisca che il sospetto di una corruzione spinga la Procura a indagare.

Le esternazioni sul caso Solinas sono solo le ultime di una lunga serie di attacchi alla magistratura

Del resto è lo stesso Salvini che il 14 febbraio 2016 al palazzetto dello sport di Collegno durante un congresso regionale della Lega, davanti ad un migliaio di persone disse: “Difenderò qualunque leghista indagato da quella schifezza che si chiama magistratura italiana, che è un cancro da estirpare”. È lo stesso Salvini che nel 2019 quando era al Viminale voleva impugnare le decisioni di tre magistrati, perché li riteneva non fossero obiettivi e “avrebbero dovuto lasciare il fascicolo ad altri”.

È lo stesso Salvini che se la prese con il giudice Gerardo Boragine del tribunale di Lucca, reo a suo avviso di avere assolto i disturbatori di un suo comizio e finito sotto scorta dopo un post contro di lui sulla pagina Facebook. È lo stesso Salvini che tre mesi fa si è schiantato contro la giudice Apostolico. È quel Salvini, semplicemente peggiorato nella sua ossessione e nel suo narcisismo.

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Gaza è diventata «il luogo più pericoloso del mondo per un bambino»

Il vicedirettore di Unicef è di ritorno da una missione di tre giorni a Gaza. Dice che la situazione «è passata dalla catastrofe al quasi collasso» e che la Striscia è diventata «il luogo più pericoloso del mondo per un bambino». «Abbiamo detto che questa è una guerra contro i bambini. – ha detto Ted Chaiban – Ma queste verità non sembrano diffondersi. Delle quasi 25.000 persone che sarebbero state uccise nella Striscia di Gaza dall’escalation delle ostilità, fino al 70% sarebbero donne e bambini. L’uccisione di bambini deve cessare immediatamente». 

Oltre 1,9 milioni di persone, ovvero quasi l’85% della popolazione di Gaza, sono ora sfollate, tra cui molti che sono stati sfollati più volte. Più di un milione di loro si trova a Rafah, in un mosaico di rifugi e siti di fortuna che hanno reso la piccola città quasi irriconoscibile. L’enorme massa di civili al confine è difficile da comprendere e le condizioni in cui vivono sono disumane.

Delle quasi 25.000 persone che sarebbero state uccise nella Striscia di Gaza dall’escalation delle ostilità, fino al 70% sarebbero donne e bambini. Oltre 1,9 milioni di persone, ovvero quasi l’85% della popolazione di Gaza, sono ora sfollate, tra cui molti che sono stati sfollati più volte. A metà dicembre, erano stati registrati 71.000 casi di diarrea tra i bambini sotto i cinque anni, con un aumento di oltre il 4.000 per cento dall’inizio della guerra. Tra le 250.000 e le 300.000 persone che vivono nel nord di Gaza non hanno accesso all’acqua potabile e a malapena al cibo.

Buon venerdì. 

 

 

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Export delle armi senza controlli. Le destre assestano il colpo di grazia alla trasparenza

Ora i signori delle armi vogliono ritoccare la normativa. Nell’iter per la modifica della legge 185/90 che regolamenta l’export militare le Commissioni Affari Esteri e Difesa di Palazzo Madama hanno infatti approvato nella seduta di martedì 16 gscorso tre emendamenti che inficiano gravemente la trasparenza della Relazione annuale al Parlamento sulle esportazioni dall’Italia di materiali militari.

Con tre emendamenti la maggioranza sbianchetta dalla relazione le banche coinvolte nel business dell’export di armi

Il ddl del governo aveva destato già la preoccupazione della Rete Italiana Pace Disarmo e l’Osservatorio Permanente Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa di Brescia che in audizione lo scorso 17 ottobre avevano sottolineato la cancellazione della prescrizione per cui il Cisd riceve informazioni sul rispetto dei diritti umani anche da parte di enti internazionali e dalle organizzazioni non governative, la eliminazione dell’Ufficio di coordinamento della produzione di materiali di armamento che potrebbe pregiudicare le attività di confronto con la società civile e l’armonizzazione della raccolta dati sull’export di armi, la non attribuzione di una funzione di stimolo a ipotesi di conversione delle imprese militari (prevista già nei principi fondamentali della Legge 185/90).

La legge che potrebbe essere un’occasione per aumentare la trasparenza sul commercio di armi e rendere strutturali le modalità con cui vengono redatte le Relazioni al Parlamento sul tema rischi di diventare un’occasione di ulteriore opacità. La Commissione Affari Esteri e Difesa del Senato ha infatti approvato nella seduta di martedì 16 gennaio 2024 tre emendamenti che inficiano gravemente la trasparenza della Relazione annuale al Parlamento sulle esportazioni dall’Italia di materiali militari. E che si innestano su un testo che presenta già aspetti problematici, come sottolineato in audizione da Rete Pace Disarmo, perché modifica i meccanismi di rilascio delle autorizzazioni affidando il cuore delle decisioni all’ambito politico senza un adeguato passaggio tecnico che garantisca il rispetto dei criteri della legge italiana e delle norme internazionali sulla materia.

Se le modifiche votate in questa prima fase di dibattito parlamentare sul ddl 855 sopravviveranno ai successivi passaggi dell’iter verranno sottratte al controllo di Parlamento, società civile e opinione pubblica le informazioni precise e dettagliate – oggi presenti nella Relazione annuale ufficiale – sulle esportazioni dei materiali militari autorizzate e svolte dalle aziende. “Particolarmente negativo – commenta Giorgio Beretta dell’Osservatorio Opal – è l’emendamento proposto dalla Relatrice volto ad eliminare ogni informazione riguardo agli Istituti di credito operativi nel settore dell’import/export di armamenti. I correntisti non sapranno più dalla Relazione quali sono le banche, nazionali ed estere, che traggono profitti dal commercio di armi verso l’estero, in particolare verso Paesi autoritari o coinvolti in conflitti armati”.

Oltre al merito a preoccupare l’Osservatorio Opal è anche il metodo già visto durante questa legislatura: bocciati praticamente tutti gli emendamenti proposti dalle minoranze, nonché alcuni importanti emendamenti proposti dalla Relatrice del provvedimento (la Presidente della Commissione Craxi) che andavano nella direzione di un miglioramento di controlli, meccanismi decisionali e trasparenza sull’export di armi. “Nonostante nostre ripetute e circostanziate richieste non si fa nemmeno riferimento ai criteri Trattato internazionale sul commercio di armi che l’Italia ha ratificato con voto unanime del Parlamento nel 2013. Assenza grave, che la Rete Pace Disarmo andrà sicuramente a contestare impugnando il testo di Legge, se questa formulazione verrà confermata fino alla fine dell’iter” evidenzia Francesco Vignarca coordinatore campagne della Rete Italiana Pace Disarmo.

Per l’associazione risulta “evidente come il Governo intenda favorire e concretizzare una richiesta di revisione delle norme in vigore ripetutamente richiesta negli ultimi anni dall’industria militare e da Istituti di ricerca ad essa vicini in un’ottica di facilitazione delle esportazioni di armamenti a favore della competitività dell’industria militare”, la cui funzione è stata sempre enfatizzata – erroneamente – come “strategica” per il “rilancio” dell’economia nazionale. “Un puro e semplice regalo agli interessi armati, in direzione contraria ai principi delle norme nazionali ed internazionali”, scrive Opal.

L’Italia continua a esportare ingenti quantità di armamenti

Tutto questo mentre l’Italia continua a esportare ingenti quantità di armamenti in in decine di situazioni di conflitto, di violazione diritti umani, di presenza di regimi autoritari come invece sarebbe e espressamente vietato dalle norme in vigore. Le associazioni ora temono che con la legge in discussione la situazione “possa solo peggiorare” riportando l’Italia a uno stato di opacità e debole regolazione della vendita di armi cui era stato posto un freno con l’approvazione dell’innovativa Legge 185 nel 1990.

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Pozzolo non vuota il sacco. Scena muta pure coi pm

La triste parabola di Emanuele Pozzolo, deputato di Fratelli d’Italia che nel giro di pochi giorni dal trono è finito nella polvere. Parte tutto dalla festa di capodanno in quel di Rosazza, dove il nostro prode arriva molto allegro – lo dicono i presenti – e con una pistola da borsetta in tasca da fare vedere agli amici.

La triste parabola di Emanuele Pozzolo, deputato di Fratelli d’Italia che nel giro di pochi giorni dal trono è finito nella polvere

Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove in quel preciso istante racconta di essere uscito a buttare l’immondizia del fine cenone mentre il compagno di partito (ora sospeso) Pozzolo bighellonava con il suo giocattolo che era un’arma. A farne le spese è un trentunenne che si becca una pallottola addosso. Niente di grave, per sua fortuna, anche se iniziare l’anno con uno sparo addosso non deve essere stata una bella sensazione. Ovvia la preoccupazione dei presenti, in una sala piena di persone e di bambini.

Il deputato Pozzolo dice di non essere stato lui a sparare. Lo dice convinto ai giornalisti e – soprattutto – ai carabinieri che gli chiedono spiegazioni. Quindi chi ha sparato? Non ce lo dice. Qualche giorno fa però aveva promesso di “raccontare tutto ai magistrati”. E invece ci ha ripensato. Convocato alla Procura di Biella Pozzolo è rimasto in silenzio davanti alla procuratrice Teresa Angela Camelio. Dicono i bene informati che sia una “strategia difensiva” quella di contraddire la promessa fatta ai cittadini pochi giorni fa. Sarà.

Di certo Pozzolo sta aspettando i risultati balistici e si è visto ritirare il porto d’armi della prefettura di Biella per non avere “adottato tutte le cautele necessarie ad evitare fatti anche accidentali e sinistri involontari”. Forse Pozzolo prima di parlare aspetta che l’arma confessi di avere sparato da sola.

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Lega, Zaia e Salvini ora sono separati in casa

Qualcuno suggerisce che dietro lo scontro tra il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, e il leader del Carroccio, Matteo Salvini si possa intravedere in controluce la nuova Lega che mangerà quella attuale già pronta a diventare vecchia. Certo, la bocciatura per un solo voto nel Consiglio regionale veneto della legge sul fine vita segna un solco tra il conservatorismo spudorato di Salvini e il cauto progressismo di Zaia che da tempo vorrebbe una Lega fatta di meno slogan e di più concretezza.

Oltre ai problemi con FdI, il segretario della Lega Salvini ha nel governatore Zaia il vero pericolo per la sua leadership

Zaia ieri ha provato a diluire la spaccatura nella sua maggioranza che per un solo voto ha bocciato la legge regionale sul suicidio medicalmente assistito: “La legge non cambiava il corso delle cose, il fine vita è già autorizzato da una sentenza della Corte Costituzionale – spiega -. La legge non sarebbe servita, come avevo già detto in precedenza. Mi spiace che qualcuno abbia dato una lettura errata, ovvero che la legge discussa in Veneto istituiva il fine vita”.

Ma all’indomani della bocciatura l’attacco al governatore veneto arriva dal suo capo partito Salvini: “Per me la vita va tutelata da prima della culla alla fine. Bisogna garantire cure necessarie alle future mamme e a coloro che sono in difficoltà alla fine dei loro giorni – ha detto il segretario del Carroccio – ma senza arrivare ai livelli olandesi della morte per procura”. E ancora: “La regione Veneto ha votato, poi in democrazia hanno vinto i no – ha spiegato -. Anche io avrei votato in quel senso lì. La Lega non è una caserma, c’è libertà di pensiero. Quindi bene che sia finita così”.

Ma è finita così? No, per niente. Le scintille tra Zaia e il suo segretario affondano su temi ben più ampi di un semplice voto. Sulle Olimpiadi il ministro alle Infrastrutture si adopera per accontentare Zaia che lamenta lo “scippo” del bob alla sua regione e chiede un “ristoro” ottenendo più eventi dalla Lombardia. In ballo c’è anche il terzo mandato che la Lega prova a imporre agli alleati di Fratelli d’Italia per permettere la ricandidatura del presidente veneto.

Salvini preferirebbe spedire Zaia a Bruxelles

Si bisbiglia che in realtà Salvini preferirebbe spedire Zaia a Bruxelles, allontanatolo così anche dalla disfida interna al partito. Nella fazione opposta, dei fedeli a Salvini, si maligna sul presidente veneto più interessato alle faccende interne al partito che al proseguimento del suo lavoro in Regione. Inevitabili maldicenze tipiche dei partiti, certo, ma negli ultimi mesi la spaccatura è diventata evidente anche tra i militanti. Ma non è tutto. Consistenti differenze di vedute tra Zaia e Salvini si riscontrano anche sul tema dell’immigrazione.

Mentre il leader della Lega insiste sulla chiusura delle frontiere e sulla criminalizzazione dello straniero (meglio se nero), per infoltire il consenso da qualche mese il presidente Zaia prova faticosamente a spiegare che molti imprenditori della sua regione si ritrovano a non poter assumere stranieri per i limiti dei decreti flussi. Sullo sfondo ieri è intervenuto anche Luca De Carlo, senatore veneto di Fratelli d’Italia, presidente della Commissione industria e agricoltura del Senato, colui che Giorgia Meloni vorrebbe candidare per la successione dell’attuale governatore.

“Zaia ha sempre avuto questa posizione che lo pone in una posizione incomprensibile forse al Centrodestra o a parte del Centrodestra, questo di sicuro – ha detto De Carlo ospite a 24 Mattino su Radio 24 –. Che tutto ciò abbia riflessi politici sulla sua maggioranza mi sentirei assolutamente di escluderlo”. Rimane la domanda che si pongono molti leghisti: se la Lega di Salvini assomiglia a Fratelli d’Italia ma con meno voti, a che serve? È lo stesso pensiero di Zaia.

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Emergenza maltempo in Emilia-Romagna, tante parole e pochi soldi

“Le risposte sono arrivate”, dice soddisfatta la presidente del Consiglio Giorgia Meloni giunta a Forlì con la presidente della Commissione europea a Ursula von Der Leyen. Per silenziare i fischi e le urla dei cittadini arrabbiati Meloni adotta il tono laborioso e umile delle grandi occasioni. Al suo fianco von Der Leyen definisce “molto toccante essere di nuovo qui in Emilia Romagna dopo le devastazioni dell’alluvione” ricordando “questa enorme massa di fango e l’enorme solidarietà di uomini e donne che si aiutavano l’un con l’altro” che aveva sorvolato in elicottero insieme alla capa del governo.

In Emilia-Romagna il maltempo ha fatto 8,5 miliardi di danni. Dopo i primi ristori i privati non hanno più visto un euro.

Ai cittadini che chiedono soldi per ricostruire più che compassione, la presidente della Commissione Ue annuncia di avere “dedicato un miliardo e 200 milioni a questa regione. Vogliamo aiutarvi a rimettervi in piedi – dice von der Leyen – e ad essere più resilienti. Lo stiamo facendo e lo faremo ancora di più”. Quel miliardo e 200 milioni declamato in pompa magna dalle due premier però tecnicamente è una distrazione di fondi.

Il 25 maggio scorso Meloni disse di avere ottenuto soldi ad hoc per risollevare la Regione dall’Europa, spiegando stizzita alla segretaria del Partito democratico Elly Schlein che sarebbe stato impossibile utilizzare i fondi del Pnrr poiché “non si sarebbero potuti spendere subito”. Evidentemente Meloni ha cambiato idea: quel poco più di un miliardo festeggiato ieri come “nuova misura” è un travaso di soldi che scompaiono dalle risorse per la prevenzione destinate a altre regioni. L’ha detto chiaramente Meloni ieri ai giornalisti: i soldi ci sono “grazie alla revisione del Pnrr, difesa idraulica, ripristino del patrimonio pubblico, delle scuole e delle infrastrutture sportive”.

Considerando pure la ricostruzione pubblica si parla di 4 miliardi. Meno della metà della somma stimata

Con il Fondo per lo sviluppo e la coesione arrivano 137 milioni per la manutenzione stradale, con rilevazione annuale del fabbisogno delle province. Sfugge un particolare non da poco: i soldi dei fondi Pnrr sono destinati a investimenti pubblici, le persone che protestano là fuori invece hanno bisogno di rimettere in piedi le case e le aziende. Conviene quindi fare un passo indietro. I 5 miliardi di metri cubi d’acqua venuti giù in Romagna fra l’1 e il 17 maggio scorso hanno causato 8,5 miliardi di anni. I conti li ha fatti in fretta la Regione Emilia-Romagna: 3,8 miliardi per il patrimonio pubblico come strade, scuole, canali; 2,2 miliardi per i danni alle abitazioni; 1,8 miliardi per i danni alle attività produttive, comprese le aziende agricole. A questa cifra vanno aggiunti 682 milioni già spesi per fronteggiare l’emergenza e per la messa in sicurezza del territorio, di cui 412 anticipati da Comuni, Province, Regioni e consorzi di bonifica.

Parla di 8,5 miliardi la relazione inviata dal Governo a Bruxelles per accedere al Fondo di solidarietà europeo

Inizialmente il Governo ha contestato la stima redatta da Bonaccini, senza mai entrare nel merito delle cifre. Tutta melina politica visto che di 8,5 miliardi parla la relazione inviata dal Governo a Bruxelles per accedere al Fondo di solidarietà europeo. “Quindi la stima dei danni e l’elenco degli interventi necessari che inviammo subito dopo l’alluvione alla presidenza del Consiglio via Dipartimento nazionale di Protezione civile – in tempi estremamente accelerati rispetto a quanto sempre successo prima in caso di emergenze – si sono rivelati esatti e redatti con serietà, insieme agli enti locali”, sottolineano dalla Regione.

Dopo due mesi e mezzo persi per nominare Commissario il generale di Corpo d’Armata Francesco Figliuolo arrivano 2,5 miliardi per la ricostruzione pubblica (dl 61 e dl 88), 639 milioni per la ricostruzione privata (120 milioni del dl 61 + 519 milioni. del dl 104) e 700 milioni di credito d’imposta per finanziare la ricostruzione privata (legge di bilancio 2024). Totale: meno di 4 miliardi di fronte a danni per più del doppio. “Risarciremo il 100% a chi è stato danneggiato” era stata la promessa della premier con gli stivaloni in mezzo al fango nelle zone allagate, e poi a giugno durante l’incontro con i sindaci a Palazzo Chigi. Dalle alluvioni di maggio sono trascorsi ormai quasi 7 mesi e imprese e cittadini hanno ricevuto pressoché nulla.

Le uniche risorse arrivate alle famiglie sono quelle attivate nella prima fase dell’emergenza

Le uniche risorse arrivate alle famiglie sono quelle attivate nella prima fase da Curcio e Bonaccini: oltre al Cas (Contributo autonoma sistemazione) per chi è fuori casa, il Cis (Contributo immediata sistemazione, sperimentato per la prima volta) per dare subito un anticipo di 3/5 mila euro a chi è stato colpito nella prima casa. La situazione la fotografa la segretaria generale della Cgil Forlì Cesena, Maria Giorgini sul sito del periodo della Cgil: “Il clima è nero, le persone si sentono lasciate sole e senza risposte. Sono arrivati solo i primi ristori, quelli delle domande fatte allora dalla Regione Emilia-Romagna. I primi 3mila euro, per intenderci, che per qualcuno si sono trasformati in 5mila” e “mancano i beni mobili che non verranno risarciti, che in realtà, per buona parte della popolazione, hanno rappresentato il grosso del danno”.

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Se il voto non ci piace si rivota

Se il voto non gli sta bene semplicemente rivotano, finché non esce il risultato che loro definiscono giusto. In commissione Affari sociali della Camera ieri è andata in scena l’ennesima violenza istituzionale, uno spettacolo incredibile anche per chi da questo Governo è pronto ad aspettarsi di tutto.

La votazione per istituire la commissione d’inchiesta sul Covid finisce 11 pari. I regolamenti parlano chiaro, senza bisogno di interpretazioni: un pareggio determina la bocciatura del testo. Il vice presidente della commissione Luciano Ciocchetti (Fratelli d’Italia) però ha una soluzione: rivotiamo, magari va meglio, come alla roulette. Spiega Ciocchetti che “c’è la possibilità di fare la controprova”, pensando di poter applicare il Var calcistico anche alle azioni parlamentari. 

Federico Fornaro, deputato Pd, lo dice chiaro alla maggioranza: “voi avete la maggioranza dei numeri: se quando si pareggia o si va sotto richiama i suoi rappresentati per rivotare è evidente che poi ha la maggioranza. In nome della correttezza e della lealtà e del rispetto per l’istituzione in cui lavoriamo la pregherei di ristabilire la correttezza del voto: quello che è accaduto è un vulnus grave”.

In effetti l’episodio apparentemente minimo è significativo per raccontare l’approccio di certa parte della maggioranza verso le istituzioni e le regole della democrazia: il Parlamento e le sue commissioni sono un impiccio burocratico da sbrogliare in fretta dove si ratificano semplicemente le decisioni prese nelle stanze dei leader. Se il pulsante si inceppa si vota di nuovo. 

Buon giovedì. 

Nella foto: Luciano Ciocchetti (FdI) vicepresidente della Commissione Affari sociali della Camera, frame di una video intervista di Radio Radicale

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