Chissà cosa hanno pensato i 260 miliardari di tutto il mondo che ieri hanno indirizzato una lettera ai leader politici presenti al World Economic Forum di Davos per chiedere di essere tassati di più per non mettere a rischio la democrazia. I ricchi che si fanno sindacato per i poveri sono una delle molte storture del sistema economico capitalistico in cui gli oppressori sono garantiti dagli oppressi che abboccano alla favola di poter sperare di diventare un giorno come loro.
I 260 miliardari di tutto il mondo hanno indirizzato una lettera ai leader politici presenti a Davos per chiedere di essere tassati di più
“Saremmo orgogliosi di pagare più tasse”, scrivono alcune tra le persone più ricche del pianeta. Nella loro missiva i miliardari citano uno studio condotto tra 2.300 persone di paesi G20 con patrimonio di oltre un milione di dollari (case escluse) che dice come tre quarti degli interpellati siano a favore di maggior tasse sui patrimoni e la metà di loro sia convinta che l’accumularsi di ricchezze astronomiche in capo a singoli individui sia un pericolo per le democrazie.
Scrivono i miliardari: “Eppure i leader politici non sono riusciti ad adottare la soluzione più semplice: aumentare le tasse sugli ultra-ricchi. Questa è una scelta politica”. Pronunciare o scrivere una frase del genere in Italia significa essere infilati di corsa nel cassetto dei comunisti dediti all’esproprio proletario.
Chissà allora cosa hanno pensato anche i politici che da anni frignano ogni volta che si chiede una patrimoniale o una maggiore tassazione. Partiti che hanno passato la vita ad additare i poveri come invidiosi e ora si ritrovano a fare i conti con quei ricchi che volevano difendere che li accusano di essere cretini. A meno che non siamo di fronte all’esproprio miliardario. No?
Ieri, solo per citare un caso, è accaduto in un liceo della provincia di Pordenone: alle 10 il termometro nelle aule segnava 13 gradi e di fronte alla prospettiva di passare in quell’aula altre sette ore gli studenti hanno deciso di lanciare un messaggio inequivocabile abbandonando le lezioni. Le altre classi in segno di solidarietà hanno deciso di proclamare un giorno di sciopero. La dirigente scolastica non ha potuto fare altro che rilasciare un’intervista al giornale locale in cui si augura che i caloriferi si accendano e la protesta si spenga.
Da Nord al Sud, le scuole al gelo
Secondo un recente sondaggio del sito specializzato skuola.net più di uno studente su due, complessivamente, si è lamentato per un ambiente scolastico in cui si registra un clima inadatto per poter svolgere serenamente le lezioni. Tanto che molti lasciano sulle spalle il cappotto, quando non arrivano a portarsi da casa il plaid. Per il 28 per cento degli studenti l motivo di tali problemi sarebbe da rintracciare nella scarsa tenuta termica degli edifici. Non è di certo una coincidenza che quasi sei strutture scolastiche ogni dieci su tutto il territorio stiano per compiere 50 anni.
All’Istituto Verga di Modica, in provincia di Ragusa, per ovviare al malfunzionamento dei termosifoni gli studenti si sono armati di coperte e scaldamani. Negli ultimi giorni al gelo s’è però aggiunta la pioggia che filtra dal soffitto e ha reso inagibili alcune aule. A Palermo nei giorni scorsi gli studenti dell’Istituto Tecnico Economico Marco Polo hanno deciso di occupare la scuola, per denunciare le temperature insostenibili che si protraggono costanti dal rientro dalle vacanze natalizie. A San Donà, in Veneto, nell’Istituto di Ragioneria Alberti hanno deciso di affidarsi ai cerotti riscaldanti perché secondo studenti e genitori le rotture della caldaia sono ormai croniche.
Quando non ci sono guasti il freddo è provocato dalle ristrettezze economiche, come nelle favole di Andersen: all’Istituto professionale Marconi del comune aretino di San Giovanni Valdarno il riscaldamento si accende il più tardi possibile perché – dicono i tecnici – le riserve di gasolio sono limitate. Cristina Costarelli, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi del Lazio, intervistata sulla questione, spiega che il freddo nelle scuole si lega alle strutture scolastiche ormai datate, alla difficoltà di manutenzione e alle esigenze di risparmio economico. I dirigenti scolastici possono gare poco di fronte a impianti vetusti e a cavilli burocratici. Qualche giorno fa nna dirigente scolastica di un istituto di Torino illustrava parlando con La Stampa i suoi sforzi quotidiani nel documentare le condizioni di freddo e nell’invocare interventi risolutivi. La problematica si scontra con la burocrazia e le competenze degli enti locali. La Consulta degli Studenti sottolinea la disparità di trattamento tra la mancanza di fondi per la scuola e le spese per la guerra e gli armamenti, evidenziando un problema di priorità nell’allocazione delle risorse.
Il piatto piange
Gli uffici scolastici regionali addossano le responsabilità agli enti locali che a loro volta lamentano scarsità di fondi dal governo nazionale. La normativa attuale (D.Lgs. 81/08) non fissa assolutamente dei valori di temperatura né minimi, né massimi, per le scuole. Si fa riferimento ad altre fonti tecniche complesse che devono essere adattate all’ambiente scolastico con le dovute valutazioni che si dovranno effettuare a partire dal documento interno della valutazione dei rischi. Ma intanto a scuola si gela e i soldi che dovrebbero arrivare con il Pnrr, avvisano i dirigenti scolastici, saranno comunque insufficienti.
Duecentotrentanove (239) giorni dopo la passeggiata nel fango di Giorgia Meloni nel territorio devastato dall’alluvione tra Forlì e Faenza la presidente del Consiglio ritorna a Bologna e a Forlì per provare a fare il punto sui soldi che gli alluvionati continuano ad aspettare. Alle 9.45 la presidente del Consiglio è attesa in Regione, con il presidente emiliano-romagnolo Stefano Bonaccini e il ministro per gli Affari europei, le Politiche di coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto, per la firma del nuovo accordo sul Fondo sviluppo e coesione (Fsc) 2021-2027, che garantisce investimenti per quasi 600 milioni in Emilia-Romagna.
Fuori in contemporanea è annunciato un presidio ambientalista contro l’accordo sulla Campogalliano-Sassuolo e Cispadana. È però in Romagna l’appuntamento più atteso e anche simbolico della giornata. Meloni sarà a Forlì, tra i centri colpiti dalle alluvioni dello scorso maggio, per una visita insieme alla presidente della Commissione Ue, Ursula Von Der Leyen. Tornano insieme sui luoghi che furono devastati dopo la visita che fecero il 25 maggio, con la Romagna ancora in ginocchio e sotto il fango.
Non saranno applausi. Fuori, in piazza Saffi, è preannunciato dalle 12 un sit-in di protesta degli alluvionati che “non si arrendono”, associazioni e comitati fra cui anche Anpi, Cgil, Legambiente, che giudicano “assolutamente insufficienti, gravemente tardive ed estremamente farraginose le poche risposte giunte finora ai bisogni urgenti delle terre alluvionate”. Bonaccini ha annunciato che verrà firmato l’accordo “per ricevere poco meno di 600 milioni di euro che sono i cosiddetti fondi sviluppo-coesione, fondi europei che spettano alle regioni per fare investimenti su diverse opere, dalle infrastrutture a bandi per progetti di rigenerazione urbana, per impiantistica sportiva, culturale, in un momento in cui l’andamento dell’economia non è proprio felice”. L’esponente del Pd ha ricordato che i rimborsi agli alluvionati “erano stati stimati a poco più di 4 miliardi per danni, metà per le imprese e metà per le famiglie: lì siamo lontani da ciò che serve e servirà” ma – ha aggiunto Bonaccini – “voglio sperare che quello che è stato promesso venga mantenuto. Non ci sposteremo di un millimetro finché, come per il terremoto, il 100% dei danni di cittadini, imprese e Comuni non venga rimborsato”.
Alluvione Romagna, la riunione (senza Meloni)
Ieri intanto si è tenuta una riunione tra il ministro per gli Affari europei, il Sud le Politiche di coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto, il ministro dell’Economia e delle finanze, Giancarlo Giorgetti, il Commissario straordinario Francesco Figliuolo e il Presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini per fare il punto sulla ricostruzione in Emilia-Romagna. Nel corso della riunione – si legge in una nota – sono stati affrontati i temi relativi alla nuova misura Pnrr che ha stanziato 1,2 miliardi di euro aggiuntivi per interventi di difesa idraulica, di ripristino della viabilità delle infrastrutture stradali, del patrimonio edilizio residenziale pubblico e delle strutture sanitarie e sociosanitarie di proprietà pubblica nonché delle infrastrutture sportive e delle reti energetiche.
La nuova misura prevede scadenze precise: entro settembre 2024 occorre selezionare gli interventi mediante ordinanze del Commissario straordinario. Tutti gli appalti dovranno essere aggiudicati entro il 30 giugno 2025. Entro giugno 2026 sarà necessario completare il 90% degli interventi. Una parte dei soldi che dal governo davano per “già dati” all’Emilia Romagna per la ricostruzione è stata ufficializzata a 24 ore dalla nuova sfilata di Meloni e Von Der Leyen. I romagnoli si augurano che a breve sia programmata la prossima.
Per il bavaglio serve gente che abbia voglia di indossare i panni degli imbavagliatori e a sentire il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro al governo si sono già messi in moto. L’ispettorato generale del ministero della Giustizia ha attivato il monitoraggio su 13 Procure per quanto riguarda le loro modalità di comunicazione sui procedimenti penali in corso. Andrea Delmastro Delle Vedove l’ha spiegato alla Camera rispondendo ad un’interrogazione del deputato di Azione Enrico Costa. La notizia tra le righe è enorme: di fatto il ministero sta indagando su 13 uffici inquirenti per una possibile violazione del decreto sulla presunzione d’innocenza varato dal governo di Mario Draghi e dall’allora guardasigilli Marta Cartabia, proprio su suggerimento dello stesso Costa.
La riforma Cartabia vieta di fatto ai pm e agli investigatori di parlare con i giornalisti. A parlare deve essere solo il Procuratore capo o i comunicati ufficiali. Nella sua interrogazione di ieri Costa ha denunciato “innumerevoli violazioni delle disposizioni” del bavaglio Cartabia, puntando il dito sulla procura di Milano, rea di aver ribattezzato un’indagine su una maxi truffa allo Stato con l’appellativo “Beagle Boys” cioè Banda Bassotti. Nel decreto Cartabia dare nomi in codice alle indagini è vietato. «Banda Bassotti non credo rientri nel diritto di cronaca, ma scivoliamo sulla spettacolarizzazione», ha detto Delmastro, rispondendo in aula all’interrogazione.
La guerra all’informazione giudiziaria si innesta nella linea di provvedimenti che il governo sta assumendo in questi mesi. La Fnsi ha lanciato nei giorni scorsi un appello per invitare il presidente della Repubblica Mattarella a non firmare la modifica del codice penale che vieta la pubblicazione delle ordinanze cautelari integrali o per estratto. «Viola l’articolo 21 della Costituzione», denuncia Fnsi. Ma la maggioranza (allargata al fu Terzo polo) non sembra preoccuparsene.
Buon mercoledì.
Nella foto: da sinistra il ministro Nordio e il sottosegretario Delmastro Delle Vedove
È inarrestabile l’occupazione militare dei luoghi di cultura da parte del governo. Ieri abbiamo saputo che il ministro alla Cultura Gennaro Sangiuliano ha messo nel mirino, dopo il blitz del governo al Centro sperimentale di Cinematografia, l’Accademia del Cinema italiano che si occupa dell’assegnazione dei prestigiosi premi del David di Donatello.
Secondo Repubblica la settimana scorsa il capo della direzione cinema e audiovisivo al MiC Nicola Borrelli ha inviato una lettera all’attuale presidente, ed ex direttrice di Ciak, Piera Detassis, chiedendo di inserire all’ordine del giorno una modifica allo statuto che includerebbe nel direttivo anche “il ministro della cultura o un suo delegato”. Come ha fatto giustamente notare il responsabile informazione e cultura del Pd Sandro Ruotolo parlando con l’Ansa il ministro dopo avere collezionato una magra figura alla premiazione di libri che non aveva letto ora ha intenzione di occupare il cinema italiano con l’ossessione di un’egemonia culturale che vede sinistra dappertutto.
Mancano solo le recite d’asilo di fine anno. La sostituzione culturale per i componenti del governo Meloni è una priorità, con il solito schema della distruzione dell’esistente come primaria soddisfazione del proprio elettorato. Anche in questo caso potremo toccare con mano lo spessore dell’egemonia culturale nell’era Meloni: nell’attuale direttivo di fianco a Detassis, Valeria Golino, Edoardo De Angelis, Francesca Cima, Francesco Giambrone, Giancarlo Leone, Luigi Lonigro, Mario Lorini, Domenico Dinoia e Francesco Ranieri Martinotti si siederà Sangiuliano o la sottosegretaria Lucia Borgonzoni.
L’Arabia Saudita ha giustiziato almeno 172 persone nel 2023, nonostante il principe saudita Mohammed bin Salman avesse promesso di “limitare” le esecuzioni capitali nel suo Paese in nome del “rinascimento arabo” di cui si fa un gran parlare anche qui in Occidente.
Il triste primato di bin Salman
Da quando il principe ereditario e suo padre, re Salman, hanno assunto il potere nel 2015, l’Arabia Saudita ha giustiziato almeno 1.257 persone, con una media di 140 persone all’anno. I sette anni più sanguinosi della storia moderna del Regno si sono verificati sotto la loro guida e il tasso di esecuzioni è quasi raddoppiato. I numeri si ottengono incrociando i dati dell’Ong Reprieve, dell’Organizzazione euro-saudita per i diritti umani e quelli di Amnesty International.
Per la direttrice di Reprieve Maya Foa “è terrificante pensare che nell’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman tutto proceda come al solito. Dietro i mega-investimenti nello sport e la facciata di riforme, – spiega Foa – il Regno rimane uno dei principali carnefici del mondo. Possedere i libri sbagliati, pubblicare un tweet critico, parlare con un giornalista o essere in disaccordo con il principe ereditario può farti guadagnare una condanna a morte. E mentre i leader mondiali si guardano le scarpe e accettano di credere alle bugie del regime, le uccisioni continuano senza sosta”. Taha al-Hajji, direttore dell’Organizzazione Saudita Europea per i Diritti Umani (ESOHR), sottolinea come il principe bin Salman incolpi le “cattive leggi” e i giudici disonesti per l’alto numero di esecuzioni “ma nel Regno non viene fatto nulla senza la sua approvazione”.
Per al-Hajji “le sue infinite e vuote promesse di riforma sono contraddette dai fatti: è stato un altro anno di spargimento di sangue in Arabia Saudita. I manifestanti e i bambini imputati restano a rischio imminente di esecuzione con un colpo di penna del sovrano”. Il numero reale delle esecuzioni non può essere accertato con certezza. L’Esohr monitora più fonti pubbliche di dati di esecuzione. Nel 2022, le autorità hanno annunciato 147 esecuzioni, ma la Commissione saudita per i diritti umani ha successivamente confermato ad Amnesty International che erano state effettuate 196 esecuzioni: un record moderno. Ad esempio, nel gennaio 2023, l’Esohr è stata informata delle esecuzioni di due cittadini yemeniti avvenute il mese precedente che non erano state riportate nei resoconti ufficiali. Inoltre, non c’è modo di sapere quante centinaia o addirittura migliaia di persone si trovino nel braccio della morte poiché il sistema della giustizia capitale del Regno è quasi del tutto opaco.
Uno sviluppo notevole nel 2023 è un aumento significativo del numero di donne giustiziate: sei, di cui tre di nazionalità saudita, una yemenita, una ghanese e una del Bangladesh. Un’altra è l’esecuzione di due uomini sauditi condannati da tribunali militari: queste sentenze vengono raramente emesse in Arabia Saudita e non è possibile rintracciarle o conoscere i dettagli dei processi lì. Amnesty International a dicembre dell’anno scorso aveva lanciato l’allarme per la sorte di Abdullah al-Derazi e Jalal Labbad che rischiano l’impiccagione da un momento all’altro dopo che la Corte suprema, ad inizio novembre, ha confermato in gran segreto le condanne per aver partecipato a proteste antigovernative.
Manca solo la ratifica del re Salman perché si proceda alla loro impiccagione. I due ragazzi non possono, infatti, più fare appello. A salvare la faccia e le mani sporche di sangue ci pensa intanto lo sportwashing con il calcio in prima fila e la finale della Coppa Italia già venduta per i prossimi 4 anni. Nemmeno troppo nelle retrovie briga anche l’ex presidente del Consiglio, ora leader di Italia viva, Matteo Renzi.
Il tempo utile per le iscrizioni alle scuole di ogni ordine e grado nell’anno 2024/2025 sarà dalle ore 8 del 18 gennaio alle ore 20 del 10 febbraio. Per iscriversi alle prime classi della scuola dell’obbligo – scuola primaria, secondaria di primo e di secondo grado – nell’anno scolastico 2024/2025 bisogna presentare richiesta online sulla piattaforma Unica all’indirizzo unica.istruzione.gov.it/it/orientamento/iscrizioni.
All’interno della piattaforma Unica è presente il nuovo punto d’accesso alle iscrizioni online, con tutte le informazioni utili per la procedura (“Iscrizioni”). La piattaforma contiene anche numerose informazioni per aiutare studenti e famiglie nella scelta della scuola. Se è impossibile accedere alla piattaforma online il Ministero invita le famiglie di rivolgersi all’istituto di provenienza o all’istituto scolastico scelto.
La giungla formativa sulla scuola
Se oltre all’iscrizione a scuola si vuole aderire a servizi e iniziative, come ad esempio la mensa o il trasporto con lo scuolabus o il pedibus, allora è necessario rivolgersi al Comune competente. Le iscrizioni online sulla piattaforma Unica sono infatti dedicate solo all’accesso al ciclo scolastico e non ai servizi legati alla scuola, di cui appunto si occupano i Comuni.
Le domande si possono presentare a una sola scuola: dunque sul modulo bisogna indicare la propria prima scelta. C’è però spazio per scrivere il nome di al massimo due scuole in subordine, ovvero una seconda e una terza scelta: se la scuola indicata come prima scelta non potrà accogliere l’alunno perché non ha disponibilità di posti, si passerà alle scuole indicate come seconda e terza scelta.
Se una domanda sarà rifiutata sarà lo stesso sistema di iscrizioni online a girare la domanda all’istituto in subordine e a comunicarlo alla famiglia, attraverso una mail. Se nessuno dei tre istituti indicati nella domanda – la prima scelta e le due scuole in subordine – accoglie la domanda di iscrizione, l’ultima scuola a cui è stata girata è tenuta ad aiutare i genitori ad individuare un altro istituto.
Dal 23 gennaio sarà possibile iscriversi sulla piattaforma anche al “Liceo del made in Italy” fortemente voluto dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal suo governo. “Sarà un baluardo per la crescita sostenibile e la valorizzazione del talento italiano su scala internazionale”, dice il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso. Per il ministro all’Istruzione Giuseppe Valditara il liceo sarà “una parte qualificante della nostra riforma della scuola, che avvicina istruzione e mondo del lavoro”.
Ognun per sé
Come spiega Carlo Canepa su Pagella Politica però su questo nuovo liceo ci sono ancora incertezze, dal percorso di studi alle risorse a disposizione, passando per il numero di scuole dove potersi iscrivere. Su quest’ultimo punto negli scorsi giorni alcuni dirigenti scolastici si sono lamentati delle tempistiche troppo ristrette date dal governo per organizzare dal prossimo settembre l’avvio delle prime classi.
Entro lunedì 15 gennaio 2024 gli istituti scolastici interessati ad attivare le prime classi del liceo del Made in Italy dovranno presentare una richiesta alla Regione e all’Ufficio scolastico regionale ma nella provincia autonoma di Bolzano e nel Friuli Venezia-Giulia nessun istituto ha mostrato interesse nel creare un prima classe del liceo del Made in Italy.
Nella Ligura guidata dal presidente forzista Toti solo due scuole (una a Savona e una a Genova) hanno mostrato disponibilità. Le associazioni di studenti e insegnanti lamentano troppa confusione normativa che disorienterebbe le famiglie. Valditara è ottimista ma per i dirigenti scolastici “è una corsa contro il tempo”. E molti stanno decidendo in questi giorni di rinviare tutto al prossimo anno.
Dopo una campagna elettorale costruita sul “superamento della legge Fornero” e su una “riforma delle pensioni” che avrebbe dovuto essere il primo atto al governo ora alla Lega di Matto Salvini tocca fare i conti con la realtà. Il sottosegretario leghista al Lavoro Claudio Durigon in un’intervista a Repubblica spiega che non hanno “rinunciato ad abolire la legge Fornero” ma si stanno “avvicinando”.
Con una perifrasi dolce Durigon ammette quindi che non ci sarà nessuna possibilità di mantenere le promesse della campagna elettorale. “Faremo una riforma delle pensioni per un decennio – dice il sottosegretario – incentivando a restare al lavoro nei settori in cui c’è bisogno. E favorendo l’uscita con 41 anni di contributi negli altri”. Inutile dire che per indorare la pillola il sottosegretario di Salvini promette per il 2024 un “anno chiave per le pensioni” e che all’orizzonte si intravede comunque “quota 41”. Peccato che di Quota 41 con il ricalcolo contributivo al momento non si intraveda nemmeno l’ombra nelle riforme in programma per quest’anno e peccato che il ricalcolo contributivo significhi una perdita secca di almeno un quarto della pensione.
Come sottolineano Riccardo Magi di +Europa, Franco Mari di Avs, Chiara Appendino del M5S e Annamaria Furlan del Pd la grande riforma delle pensioni sarà il grande imbroglio per le generazioni future: l’uso smodato della flessibilità in uscita peserà sulle nuove generazioni che non prenderanno mai una pensione decente. Prima c’è stata l’abolizione di Opzione Donna, poi il peggioramento di quota 103 e dell’Ape Sociale e ora si prospetta quota 41 con i tagli del ricalcolo contributivo. La legge Fornero ora sembra quasi il meno peggio.
Puntualissimi anche quest’anno i tipi di Oxfam hanno fotografato il dirupo di disuguaglianze nel mondo. Mettetevi comodi: dal 2020 i 5 uomini più ricchi al mondo (Elon Musk, Bernard Arnault, Jeff Bezos, Larry Ellison e Warren Buffett) hanno più che raddoppiato, in termini reali, le proprie fortune – da 405 a 869 miliardi di dollari – a un ritmo di 14 milioni di dollari all’ora, mentre la ricchezza complessiva di quasi 5 miliardi di persone più povere non ha mostrato barlume di crescita. Ai ritmi attuali, nel giro di un decennio potremmo avere il primo trilionario della storia dell’umanità, ma ci vorranno oltre due secoli (230 anni) per porre fine alla povertà.
Nel rapporto Disuguaglianza: il potere al servizio di pochi scopriamo che l’aumento della ricchezza estrema nell’ultimo triennio è stato poderoso, mentre la povertà globale rimane inchiodata a livelli pre-pandemici. Oggi, i miliardari sono, in termini reali, più ricchi di 3.300 miliardi di dollari rispetto al 2020 e i loro patrimoni sono cresciuti tre volte più velocemente del tasso di inflazione.
In Italia, il quadro distribuzionale tra il 2021 e il 2022 mostra quasi un dimezzamento della quota di ricchezza detenuta dal 20% più povero (passata dallo 0,51% allo 0,27%), a fronte di una sostanziale stabilità della quota del 10% più ricco degli italiani. Le soluzioni suggerite sono sempre le stesse: una tassa sui patrimoni, niente condoni e lotta all’evasione fiscale. Disse Warren Buffet: «È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo». A convincersi che la lotta di classe sia finita sono solo i poveri che sognano che i ricchi lascino qualche briciola.
Nato a Milano, è attore, scrittore, giornalista, regista teatrale, drammaturgo e politico.
Nel 2001 fonda la Bottega dei Mestieri teatrali con cui ha messo in scena diversi spettacoli d’impegno civile quali, molti di questi pubblicati come libri; Linate 8 ottobre 2001: la strage, Bambini a dondolo sul turismo sessuale infantile, Do ut des su riti e conviti mafiosi, A 100 passi dal Duomo scritto in collaborazione con Gianni Barbacetto sulle mafie al Nord, Nomi, cognomi e infami e L’innocenza di Giulio.
Dalla stagione 2007-2008 è direttore artistico del Teatro Nebiolo di Tavazzano con Villavesco, in provincia di Lodi.
Nel dicembre 2009 è stato ricevuto dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che gli ha portato la propria solidarietà per la vita sotto scorta che conduce a causa delle minacce ricevute da parte della mafia. Nel gennaio 2010 a Catania gli è stato conferito il premio giornalistico «Pippo Fava».
È consigliere regionale in Lombardia, primo firmatario della legge per l’educazione alla legalità e membro dell’Osservatorio sulla legalità del Consiglio regionale.
Stiamo parlando di Giulio Cavalli al quale ho fatto 5 domande sullo spettacolo in scena al Teatro della Cooperativa in scena dal 12 al 21 gennaio 2024 (esclusi lunedì 15 e mercoledì 17).
Quando e perché nasce lo spettacolo Odio gli indifferenti?
Girando per scuole, presentazioni dei miei libri e incontri ho avuto la sensazione che la Costituzione sia ormai un feticcio. C’è chi la sventola come spada per fare opposizione e chi la interpreta come se fosse un biglietto del biscotto della fortuna. Quando mi capita di rileggerla la trovo ferocissima, quasi violenta: scorrere la Costituzione oggi significa fare i conti con il fallimento disastroso della costruzione sociale in cui stiamo.
Quindi mi sono detto: che accadrebbe se diventasse obbligatorio – ma davvero – il rispetto della Costituzione? Quanti mestieri sparirebbero? Quanti falsi profeti verrebbero smutandati? Pensandoci ci ho ritrovato una giullarata già pronta, seppure tragica come lo sono tutte le giullare ben riuscite. A quel punto mi serviva un inquisitore, un uomo di legge, possibilmente qualcuno delegittimato per la sua rigorosa lettura della Costituzione. E Luigi De Magistris mi è sembrato perfetto.
C’è un indifferente che odi di più in assoluto e perché?
Credo di trovare più insopportabili gli indifferenti per vigliaccheria rispetto agli indifferenti per guadagno personale. Potrei citare la solita massima che va fortissima sui social del “silenzio degli onesti” eccetera eccetera ma più di tutto mi basisce la stupidità di chi è disposto a perderci pur di non prendersi la briga di applicarsi. Gli antifascisti omeopatici, ad esempio, che nella storia sono sempre stati la stampella dei fascismi.
Odio gli indifferenti sarà in scena presso il Teatro della Cooperativa che ha fatto della memoria storica e dell’impegno civile il proprio credo grazie al suo direttore artistico (Renato Sarti).
Vista la tematica, quant’è difficile fare in Italia un teatro politico ma soprattutto politica a teatro?
È così da sempre.
Quando ho lavorato con Dario Fo ho imparato che non bisogna mai perdere la voglia di vedere circuiti teatrali dove gli altri non riescono a immaginarli. Ci sono luoghi teatrali in Italia che limitandosi a fare “spettacolo” nell’accezione indolore del termine in realtà stanno facendo politica accarezzando il potere di turno. Nell’ultimo anno – quando dopo più di un decennio sono tornato in scena – mi sono ritrovato a recitare nelle sale mensa, nelle chiese, su palchi disabitati da decenni e nei teatri più prestigiosi e classici. In questo scenario il Teatro della Cooperativa è un unicum perché tiene insieme l’attività e l’attivismo teatrale con perseveranza.
Ho letto che ti definiscono “un autore civile” ma tu preferiresti fare un giro tra gli incivili per capire chi assegna il patentino. Lo hai capito/scoperto?
A me pare che il teatro sia “civile” per definizione.
Già l’impresa di raccogliere persone che dopo una giornata di lavoro anticipano o ritardano la cena, si coprono d’inverno, sfidano il maltempo, cercano parcheggio, organizzano gli orari e poi cedono una considerevole quota del loro poco tempo libero sia un’opera civile. Ancora di più in questo tempo in cui si ha la sensazione di poter usufruire di storie in tempi brevissimi e negli space di uno schermo. Trovo civili tutti i drammaturghi che ho studiato, fin dai secoli più lontani.
A teatro – a differenza di altri mezzi – l’inciviltà non fa share. Per fortuna!
Concludendo, chi vorresti vedere seduto in Prima Fila il 12 gennaio 2024 al Teatro della Cooperativa e cosa vorresti che si portasse a casa dopo la visione dello spettacolo Odio gli indifferenti?
Invecchiando ho maturato un’imbarazzante commozione per ogni singolo spettatore. Non mi spiego il privilegio di potere raccontare storie a persone che vengono ad ascoltarmi con fiducia. Forse avrei voluto almeno per un’altra volta vedere Michela Murgia sorridere per la tragicomicità del momento storico e per la nostra inesauribile voglia di sbeffeggiare il potere. Mi auguro che gli spettatori si portino a casa una cassetta degli attrezzi per affrontare la quotidianità. E domande, moltissime domande. Che barba gli spettacoli che hanno solo risposte.
Teatro della Cooperativa dal 12 al 21 gennaio 2024 ODIO GLI INDIFFERENTI Che Paese saremmo se si rispettasse la Costituzione di Giulio Cavalli con Giulio Cavalli e Luigi De Magistris regia Giulio Cavalli e Renato Sarti