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Venti punti per ogni morto nei cantieri. Rivolta contro la patente della Calderone

Ieri a Palazzo San Macuto nella Commissione di inchiesta sulle condizioni di lavoro, sfruttamento e tutela della salute e sicurezza è stato il turno della ministra al Lavoro Marina Calderone che sull’onda dello sdegno per la strage di lavoratori a Firenze promette controlli più serrati. “Tra il 2023 e 2024 con il personale che abbiamo attualmente in forza avremo un aumento del 40% delle ispezioni”, ha annunciato la ministra. “Con il nuovo contingente – ha aggiunto – andiamo a raddoppiare numero degli ispettori tecnici addetti ai controlli di cantiere e questo significa aumentare in prospettiva del 100% le nostre potenzialità in termini di controlli”.

Calderoni difende la misura, ma sindacati e opposizione la bocciano

La ministra ha riconosciuto che “nelle aziende edili ispezionate la percentuale di irregolarità sul 2023 è del 76%” che sale all’85% nei cantieri del Superbonus. Calderone ha anche difeso l’introduzione del nuovo sistema per classificare le imprese e i lavoratori autonomi, chiamato “patente a punti” o “patente a crediti”, licenziato dal Consiglio dei ministri lo scorso 26 febbraio. La patente a punti è stata introdotta nel nostro ordinamento dopo il confronto con le parti sociali ed è stata una scelta coraggiosa”, ha detto la ministra, invitando a “non ironizzare” sulla misura che entrerà in vigore dal primo ottobre di quest’anno.

Sulla misura adottata dal governo però più che ironie sono arrivate critiche. La Uil, per esempio, che è tra coloro che richiedevano la cosiddetta patente a punti è netta: “La patente come l’hanno strutturata al governo non funziona – ha detto la scorsa settimana il segretario generale Pierpaolo Bombardieri -. È mai possibile che una vita valga 20 crediti, che si possa operare con 15 e se ne possano recuperare 5 con un corso di formazione? Un criterio inaccettabile. Dovremmo confrontarci sul sistema delle sanzioni”. Il segretario della Cgil Maurizio Landini ha sottolineato come la patente dovrebbe esserci “per tutti i settori, non solo per gli edili. I morti e gli infortuni ci sono in tutti i settori e attività”. Della stessa idea anche il M5S per cui limitare l’iniziativa al settore edile “significa ignorare i morti nelle fabbriche, o davanti a un orditoio”.

La riforma si applica solo al comparto edile e non prevede sanzioni se l’incidente mortale si verifica in fabbrica

La deputata del Partito democratico Cecilia Guerra ha detto che “non si può pensare a uno strumento come quello per la patente di guida, in cui se perdo i punti mi fanno fare di nuovo l’esame”. Secondo Guerra, “è fondamentale impedire l’accesso agli appalti pubblici, ma anche togliere i benefici fiscali e contributivi di cui le imprese godono”. Confartigianato ritiene che si tratti di “un meccanismo farraginoso e pieno di incertezze e lacune applicative” destinato “a non produrre alcun risultato positivo in termini di riduzione degli infortuni, mentre rischia di trasformarsi nell’ennesimo balzello burocratico sulle spalle degli imprenditori edili, in particolare le piccole imprese, che duplica oneri economici e adempimenti amministrativi rispetto a quelli già esistenti”.

L’Associazione costruttori edili lamenta che non si tenga conto di “altri fattori quali l’anzianità e l’esperienza dell’impresa, i contenziosi intercorsi con le varie committenze, il know how aziendale, il numero di infortuni pregressi ed altri criteri reputazionali”. Per la deputata del Pd e capogruppo in commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, Giovanna Iacono, bisognerebbe intervenire sui subappalti che “consentono spesso di aggirare gli obblighi formativi, mettendo a rischio lavoratrici e lavoratori che hanno minori tutele.”Insomma, sulla patente a punti pensata dal governo si ode di tutto tranne che semplici “ironie” da superare con una scrollata di spalle come fa la ministra Calderone.

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Armi, cosa accade dietro la faccia rassicurante di Bruxelles?

Conviene fare un breve ripasso su quali siano gli obiettivi dell’Unione europea che si celano dietro l’ispessimento di notizie su un esercito europeo e su una ventilata economia di guerra. Provare a rispondere alla fatidica domanda: cosa accade dietro la faccia rassicurante di Bruxelles?

Martedì gli alti funzionari Ue hanno presentato il loro piano per una sostanziale revisione dell’industria della difesa e del blocco. Moltissime le idee e pochissimo – per ora – i soldi. Sul piatto ci sono 1,5 miliardi di euro nel Programma europeo per gli investimenti per la difesa (Edip). Cinque propositi sul piatto. Innanzitutto Bruxelles vuole che i governi dell’Ue acquistino meno armi dagli americani (anche se, in segno di dominio della difesa degli Stati Uniti, la presentazione effettiva includeva una foto di un caccia a reazione McDonnell Douglas F/A-18 Hornet). Quando dagli Usa si sono detti preoccupati per il possibile calo di vendite americane il vicepresidente esecutivo della Commissione Margrethe Vestager ha rassicurato: “l’Europa sarà più autosufficiente ma ovviamente non completamente autosufficiente”.

Serviranno almeno 100 miliardi di euro. Dove prenderli? Qualcuno propone di utilizzare i fondi di coesione (che servirebbero per le disuguaglianze), molti vorrebbero che la Bce “cambi la sua politica di prestito” per consentire investimenti in difesa (qualcosa non attualmente consentita).

E la Nato? Un alto funzionario della Nato ha detto che i piani dell’Ue per maggiori finanziamenti sono i benvenuti, ma anche che l’organizzazione sta “osservando da vicino per vedere se l’Ue spingerà questioni come i propri standard per le armi”. Ed è solo l’inizio. 

Buon giovedì. 

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Al bando la farina di grillo. L’ultima balla della Lega

Due giorni fa l’eurodeputata della Lega Isabella Tovaglieri ha dato sui suoi social una notizia con il fare di chi è convinto di avere ottenuto una vittoria politica storica. Il risultato eccezionale sarebbe di avere fatto approvare una mozione nella Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera del suo partito “contro l’uso della farina di grillo nelle mense scolastiche”.

La risoluzione votata è radicalmente cambiata proprio nella parte finale dove il divieto di usare novel food nelle mense è sparito

“Da una parte abbiamo una sinistra che vieta la carne di maiale nelle scuole (per accontentare le famiglie islamiche) e dall’altra la Lega che vieta la farina di grillo nelle mense. Voi da che parte state?”, ha scritto Tovaglieri. Noi, se l’europarlamentare di Salvini non si offende, preferiremmo stare dalla parte della verità e dell’attinenza ai fatti. I fatti dicono che la risoluzione (no, non era una mozione) presentata in Commissione dal deputato della Lega Rossano Sasso chiedeva di impegnare il governo a “proseguire la sensibilizzazione nelle scuole sull’importanza di una corretta alimentazione che non può prescindere dal consumo di prodotti a filiera corta” e “a stilare un protocollo d’intesa” affinché fosse “bandito l’uso dei novel food nelle mense scolastiche”.

In quest’ultima frase ci sarebbero i famosi grilli. Peccato che la risoluzione votata sia radicalmente cambiata proprio nella parte finale e il divieto di usare novel food nelle mense sia sparito. Si parla generalmente di “avviare un’approfondita riflessione”. C’è un altro particolare non trascurabile: come ricorda Pagella politica le risoluzioni delle commissioni parlamentari esprimono un indirizzo al governo ma sono tutt’altro che giuridicamente vincolanti. A ciascuno le sue conclusioni.

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Tra sciopero e mimose. Questo 8 marzo le donne si ribellano

Nell’anno 2024 la Giornata internazionale della donna (no, non è “la festa della donna” celebra l’8 marzo) con il governo più maschilista seppur a guida femminile si celebra con uno sciopero generale proclamato dalla maggior parte delle sigle sindacali italiane (Flc Cgil, Slai Cobas, Adl Cobas, Cobas Usb, Cobas Sub, Osp Faisa Cisal, Usi Cit, Clap, Si Cobas, Cub Trasporti, Uitrasporti, Usi 1912, Flaei Cisl e Uiltec Uil).

L’8 marzo, Giornata internazionale della donna, si celebrerà con uno sciopero generale proclamato dalla maggior parte delle sigle sindacali italiane

La discriminazione fa la forza, verrebbe da dire vedendo l’ombrello di tutti i sindacati italiani che decidono di scendere in piazza. A queste come ogni anno si aggiunge uno sciopero transfemminista promosso dal movimento “Non una di meno”, che invita le donne alla mobilitazione generale “contro la violenza patriarcale in tutte le sue forme”, per mettere in atto “un blocco della produzione e della riproduzione nelle case e sui posti di lavoro, nelle scuole e nelle università, nei supermercati e nei luoghi di consumo, nelle strade e nelle piazze, in ogni ambito della società. Perché se ci fermiamo noi si ferma il mondo”.

I sindacati di base, nei loro volantini, elencano varie motivazioni. Principalmente ricorrono: “Sciopero contro ogni forma di violenza fisica, psicologia e morale, contro ogni discriminazione salariale e di ruolo sui luoghi di lavoro e nelle istituzioni, ogni guerra e l’aumento delle spese militari e a favore di servizi pubblici di qualità, lavoro stabile, riconoscimento del lavoro di cura, aumenti salariali in rapporto al costo della vita, salute e sicurezza e stato sociale”. In sintesi: “Non donateci mimose”.

I sindacati confederali (Cgil, Cisl e Uil) chiedono di scendere in piazza “per gridare il nostro dissenso ad ogni forma di sopraffazione contro le donne e contro le politiche familiste, razziste e nazionaliste di questo governo, che alimentano sfruttamento e violenza”. Per il sindacato serve scendere in piazza “per gridare il nostro dissenso ad ogni forma di sopraffazione contro le donne e contro le politiche familiste, razziste e nazionaliste di questo governo, che alimentano sfruttamento e violenza, lo sciopero è anche l’occasione per chiedere seri e urgenti provvedimenti”.

La mobilitazione proclamata da “Non una di meno” contro la violenza in tutte le sue forme

Le manifestanti sottolineano anche la continua scia di femminicidi che attraversa il Paese, “un fenomeno intollerabile per un Paese che si dichiara civile”, dicono. In effetti dopo la fiammata di dibattito che ha seguito la morte di Giulia Cecchettin l’emergenza condivisa dall’arco parlamentare sembra essersi affievolita. Il dibattito si è fermato ma le morti no: dall’inizio dell’anno sono già 9 le vittime dei loro mariti, compagni o ex. Qualche giorno fa l’Istat nel suo rapporto “Analisi dei divari di genere del mercato del lavoro e nel sistema previdenziale” ha evidenziato che la parità di genere nel mercato del lavoro è ancora lontana e la necessità di conciliare vita professionale e familiare (e quindi l’uso dei relativi strumenti) rimane legata a una dimensione culturale prettamente femminile.

Nel 2022 a retribuzione femminile media nel settore privato si attesta sui 16.300 euro contro 24.500 euro annui percepiti dagli uomini. Una differenza del 40% che, anche a parità di condizioni (età, contratti, ore lavorate), non si azzera mai e arriva a un 12-13% stabile. Nel settore pubblico il gap si riduce, ma persiste; per le donne la retribuzione è di 28.400 euro annui contro i 33.600 euro annui dei maschi. Questo divario è dovuto al sempre più frequente ricorso nelle Pa dei contratti brevi, soprattutto nella scuola e nella sanità, dove la maggioranza degli occupati è di sesso femminile.

La festa della donna ai tempi del patriarcato. E del governo più maschilista della storia

Inoltre, le donne dirigenti con meno di 40 anni guadagnano in media 65.000 euro, a fronte dei quasi 103.000 degli uomini. Giorgia Meloni con il suo governo a oggi si è dimostrata sicuramente femminile ma molto poco femminista. Non resta che sperare nel regolamento adottato dal Consiglio europeo per combattere le discriminazioni retributive, che ogni Stato membro dovrà recepire entro il 2026.

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Patto di Stabilità Ue, Lega e FdI in fuga dal voto e da Giorgetti

La Commissione Econ del Parlamento europeo ha approvato la riforma del Patto di stabilità confermando a maggioranza il proprio voto favorevole a quanto emerso dai negoziati inter-istituzionali sui tre testi di legge che compongono le nuove regole fiscali. Chi mancava nel momento del voto? Gli europarlamentari di Fratelli d’Italia e della Lega.

Per la premier Meloni la riforma del Patto di Stabilità era una vittoria. Ma al momento dell’ok i suoi si sono volatilizzati

Il 20 dicembre dell’anno scorso la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in una nota da Palazzo Chigi definiva l’accordo preso a Bruxelles “un compromesso di buonsenso per un accordo politico”. “L’Italia è riuscita, non solo nel proprio interesse, ma in quello dell’intera Unione, a prevedere meccanismi graduali di riduzione del debito e di rientro dagli elevati livelli di deficit del periodo Covid”, dettava Meloni, che di fronte ai giornalisti si diceva “soddisfatta”, anche se non era “il Patto di stabilità che avrei voluto io”.

Da canto suo il ministro all’Economia Giancarlo Giorgetti aveva sottolineato, in Commissione bilancio della Camera, come con il nuovo patto di stabilità “probabilmente abbiamo fatto un passo indietro”, ma “la valutazione però la faremo tra qualche tempo, rispetto al vecchio ha il pregio che la Commissione può costruire un percorso per ogni singolo paese”, quindi con un sistema di regole “complicato ma mobile”.

La vittoria sventolata da Meloni settimana dopo settimana ha cominciato ad ammainarsi

La vittoria sventolata da Meloni settimana dopo settimana ha cominciato ad ammainarsi. L’altro ieri in commissione l’ultimo atto. Gli europarlamentari della Lega e di Fratelli d’Italia membri titolari della Commissione per i problemi economici e monetari del Parlamento europeo hanno disertato il voto. “Evidentemente si vergognano di mettere la faccia sui tagli draconiani che questa riforma porterà al nostro Paese”, dice l’europarlamentare dei 5s Tiziana Beghin, che sottolinea la “presa di distanza pusillanime” che “non cambia le responsabilità su come si è arrivati a questo testo”. “Il loro Ministro Giancarlo Giorgetti lo ha negoziato in Europa e Giorgia Meloni lo ha più volte difeso. È loro la responsabilità politica – aggiunge Beghin – del ritorno dell’austerity e noi glielo ricorderemo ogni singolo minuto in campagna elettorale. La strategia dello struzzo e cioè far finta che i problemi creati non esistano con i cittadini non funziona”.

Uno studio della Confederazione europea dei sindacati (Ces) basato sui calcoli del prestigioso think tank Bruege ha ipotizzato che il nuovo Patto di stabilità porterà a un taglio alle spese per sanità, istruzione e investimenti che potrebbe arrivare a 100 miliardi di euro in Ue nei prossimi anni. Di cui un quarto solo in Italia. La riforma potrebbe costringere l’Italia a tagli annuali al bilancio tra lo 0,61% e l’1,15% del Pil (le percentuali più alte in Ue dopo Belgio e Slovacchia). Questo dipenderà dal tipo di piano di rientro del debito che il nostro governo concorderà con la Commissione europea (una delle novità della riforma), ossia se un piano di 4 anni o uno di 7 anni.

I sovranisti disertano la Commissione. M5S: “Si vergognano di metterci la faccia”

Nel primo caso, il taglio annuale, calcola la Ces, sarebbe di 25,4 miliardi. Nel secondo caso, lo sforzo scenderebbe a 13,5 miliardi. L’Italia ha ottenuto clausole per ammortizzare i tagli nell’immediato ma per Jeromin Zettelmeyer, economista tedesco con un passato da direttore al Fondo monetario internazionale, se lo sconto nel brevissimo termine “renderà la vita più facile ai governi che hanno negoziato il compromesso” (quindi a Meloni), il rinvio del pagamento degli interessi graverà sui “loro successori”.

“La riforma del Patto di Stabilità che obbligherà l’Italia a tagliare 12/13 miliardi l’anno – spiega Beghin – è passata in Commissione sostenuta da una maggioranza che va dai socialisti a Orban, passando per i liberali e i popolari. Tutti uniti, ahimé, nel difendere l’austerity”. Per l’Italia mancavano solo i diretti interessati.

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Quei 1.500 camion bloccati a Rafah

Sono almeno mille e cinquecento (1.500) i camion carichi di aiuti umanitari per la popolazione di Gaza bloccati al valico di Rafah. Bloccati perché gli è impedito di entrare nella Striscia dove la popolazione – secondo il Wto – si appresta a contare almeno altri 75mila morti per fame e per sete. 

Le immagini dei mezzi costretti al fermo le ha mostrate Meri Calvelli, cooperante della ong Acs, giunta al valico di Rafah assieme alla delegazione italiana che chiede il cessate il fuoco immediato e l’ingresso nella Striscia di aiuti umanitari senza alcuna limitazione. 

Su Gaza cadono bombe e pochi (pochissimi) aiuti umanitari dal cielo. Lo Stato di Israele evidentemente crede che per sconfiggere Hamas sia necessario impedire l’ingresso di cibo per salvare la gente stremata. Impossibile sapere cosa c’entri con la strategia militare del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu affamare la gente già stracciata. 

Gli operatori umanitari fanno l’elenco di cose semplici che Israele non ha fatto per facilitare l’arrivo degli aiuti: consentire forniture essenziali sufficienti, aprire prima i punti d’ingresso e rispettare le minime condizioni di sicurezza per i convogli e gli operatori umanitari e i loro uffici, che invece vengono attaccati. Israele, inoltre, continua a respingere regolarmente le richieste umanitarie di far entrare altre fonti di energia come i pannelli solari, i generatori e le batterie. I civili palestinesi muoiono per cause evitabili: bombardamenti, mancanza di acqua e cibo, diffusione di malattie, assenza di cure mediche.

Il blocco israeliano è una forma di punizione collettiva e un crimine di guerra. Anche se scriverlo offende qualcuno. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: i camion bloccati a Rafah da Pagina esteri

 

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Figli di due mamme. C’è un giudice a Padova

Si tratta solo del primo round. Il tribunale di Padova ha respinto il ricorso della Procura che nella primavera scorsa aveva chiesto di annullare tutti gli atti di nascita con i quali il comune di Padova aveva riconosciuto a 35 bambini lo status di figli con due mamme. Quei bambini sono finiti in un limbo, orfani per sentenza, con l’avvallo della politica omofoba al governo. Per il tribunale il ricorso della Procura è inammissibile.

Il matrimonio tra persone dello stesso sesso in Europa viene riconosciuto legalmente e realizzato in 21 stati

Poco distante, a Milano, però un mese fa la Corte d’Appello ha dichiarato illegittime le iscrizioni anagrafiche dei bambini con due mamme. La furia ideologica del governo con la mamma cristiana e italiana Giorgia Meloni e con il ministro all’Interno Matteo Piantedosi è semplicemente rimandata. La discriminazione che sfrutta i vuoti normativi è pusillanime. Ma non si possono lasciare i diritti in mano ai giudici.

Non possono essere i tribunali a decidere la geografia delle famiglie. Il matrimonio tra persone dello stesso sesso in Europa viene riconosciuto – a febbraio del 2024 – legalmente e realizzato in 21 stati ovvero: Andorra, Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Islanda, Lussemburgo, Malta, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera e Estonia. Il Parlamento ha l’obbligo di affrontare la questione.

Così ognuno si potrà assumere le proprie responsabilità: gli omofobi si siederanno con gli omofobi, i finti progressisti si sveleranno e ai cittadini verrà data la possibilità di giudicare i voti e non solo le promesse e le posture. La cosa certa è che fingere di non vedere la pluralità di famiglie non le cancella, con buona pace di Meloni e compagnia.

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Sull’Ucraina abbiamo scherzato. Pure l’atlantista Rampini in ritirata

La traiettoria della difficile guerra in Ucraina dopo l’invasione russa partorisce stelle cadenti, commentatori convinti di un’idea che ora predicano l’opposto senza nemmeno un plissé. Nell’orda si riconoscono le bretelle del giornalista del Corriere della Sera Federico Rampini. In un video all’interno della sua rubrica Rampini ci spiega che “bisogna parlare del futuro dell’Ucraina in termini realistici che significa anche crudeli”. “Nei vertici militari americani – spiega Rampini – pochi si illudono che sia possibile liberare tutta l’Ucraina dalla Russia”.

Rampini teorizzava la completa vittoria sul campo dell’Ucraina. Ora ammette: impossibile liberare i territori occupati

Qui allo spettatore sorge il primo velenoso dubbio. Ma come? Ma non era lo stesso Rampini un’esponente di quella folta schiera che fin dalle prime ore dell’invasione russa ci ha spiegato urbi et orbi che la completa vittoria militare dell’Ucraina era l’unica soluzione possibile? E poi: ma non c’era anche Rampini tra coloro che accusavano di filoputinismo chiunque si sforzasse di raccontare la realtà sul campo al di là dell’epica bellicista Deve avere cambiato idea, mica una cambiamento da poco. Ha tutta l’aria di essere un’inversione.

“Probabilmente, dopo le elezioni americane bisognerà trattare con Putin e, alla fine, lasciargli il territorio dell’Ucraina che ha occupato”, scrive il giornalista del Corriere. Dell’esigenza di una trattativa politica che non passasse dalle armi e che prevedesse una mediazione (la più giusta possibile) scrivono le associazioni pacifiste di tutto il mondo fin dall’inizio del conflitto. Non si tratta di “buonismo dei pacifinti”, come sprezzantemente dicono i sodali di Rampini: si tratta di realismo. È la famosa complessità che in Italia si dileggiava. Ora Rampini è diventato pacifinto e consapevole della complessità.

Il nuovo Rampini ora si domanda: “cosa si può dare all’Ucraina in cambio di questo grandissimo sacrificio? La certezza di entrare a far parte dell’Unione Europea al più presto e quindi dell’Occidente, cosa che desidera. E inoltre è necessario stabilire dei patti bilaterali di difesa con la Francia, con la Germania, con la Gran Bretagna, visto che non si potrà accelerare più di tanto il suo ingresso nella Nato”. In un aspetto l’atteggiamento è sempre lo stesso: come per la guerra anche per la pace si dà per scontato che siano altri Paesi a dover decidere le sorti dell’Ucraina.

Il giornalista attaccò su Repubblica il direttore di Avvenire per aver detto ciò che lui stesso sostiene ora

Rampini uno punto zero – vale la pena ricordarlo – era quello che due anni fa apostrofò come amico di Putin il mansueto ex direttore di Avvenire Marco Tarquinio che si era permesso durante una trasmissione televisiva di contestare che 330 miliardi di dollari (la prima spesa complessiva per armi degli Stati europei della Nato) fossero “pochi” e che provò a spiegare come “le sanzioni non piegano i regimi” ma molto spesso “piegano i popoli”. Rampini si infuriò: “Ma stiamo scherzando? – sbottò in diretta televisiva – Questa è un’offesa vergognosa alle madri dei bambini uccisi. Questa è una cosa ignobile che si è permesso di dire e che rivela da che parte sta lei. È uno dei tanti che lavorano per Putin. Questo è il suicidio dell’Occidente: siamo pieni di gente che non vuole aprire gli occhi davanti al vero pericolo”. L’allora direttore di Avvenire non si scompose per “non abbassarsi agli insulti” ma fece notare che “evidentemente Rampini è uno che scrive, ma non legge”.

Ora la penna del Corriere della Sera deve avere trovato qualche minuto per leggere altre opinioni al di là della sua e ha scoperto che la complessità non si cancella deridendola. Chissà che delusione tra i suoi fiancheggiatori bellicisti. Resta solo un ultimo dubbio: non è che le opinioni cambiano in previsione delle nuove opinioni del nuovo potere che avanza negli Usa dove Rampini vive?

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Assange nel sacco dell’umido

Finalmente s’ode una parola per la tutela di Julian Assange dall’Europa che si è fatta unione per proporsi come culla del diritto e della libertà al resto del mondo. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ieri ha detto che «sarebbe bene che i tribunali britannici gli garantissero la necessaria protezione, perché deve effettivamente aspettarsi persecuzioni negli Stati Uniti, in considerazione del fatto che ha tradito segreti di Stato americani». 

Non è un caso che la domanda gli sia stata posta da uno studente durante un incontro in un centro formativo professionale a Sindelfingen. I grandi media, soprattutto quelli che si definiscono più progressisti, perdono la lingua ogni volta che si pronuncia il nome dell’attivista statunitense che rischierebbe 175 anni di carcere se estradato negli Usa. 

Tra i vari sconcerti di questa storia magnificamente silenziata c’è anche la cupidigia con cui gli stessi giornali che oggi si scordano di parlarne quando Assange era fonte autorevole per riempire le prime pagine dei giornali. È qualcosa che ha a che vedere con il giornalismo e con la lealtà. Giornalisticamente è obbligo per ogni testata custodire e proteggere la propria fonte, ancora di più se ha permesso di svelare vergognosi crimini di guerra compiuti in nome dell’esportazione di democrazia. Dal lato della lealtà (meglio, della slealtà) c’è la tranquillità con cui si è buttato nel sacco dell’umido un personaggio che anche dalle nostre parti qualche anno fa era un eroe. Tra il prima e il dopo è cambiata semplicemente l’ossessiva rabbia degli Usa. 

Buon martedì. 

Per approfondire Patrick Boylan Julian Assange la posta in gioco è la sua stessa vita 

Il libro di Left su free Julian Assange

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Il senso delle istituzioni. E le parole a caso di Donzelli

L’indebolimento di una democrazia comincia con l’abuso delle parole e dei dettami costituzionali. Accade così, in qualsiasi parte del mondo. Quando il linguaggio si svuota di significato per diventare solo luogo di propaganda si sedimenta una pericolosa abitudine a soprassedere le gravità e le falsità che vi sono contenute.

Donzelli dice di non ritenere “democratica” l’opposizione al governo. Siamo sicuri che si tratti solo di uso spregiudicato delle parole?

Mai stanco di difendere la sua capa Giorgia Meloni il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli è intervenuto sulle parole della presidente del Consiglio che quasi tutti hanno inteso come un attacco frontale nei confronti del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in merito alle note manganellate contro gli studenti che manifestavano a Pisa.

Donzelli non è un parlamentare qualsiasi, è responsabile nazionale dell’organizzazione del suo partito e ne è stato per tre anni coordinatore nazionale, fino al 2017. Spiega Donzelli che quando Giorgia Meloni ha parlato di ”istituzioni”, che “tolgono il sostegno alle forze dell’ordine”, si riferiva alle forze di opposizione in Parlamento, “perché noi speriamo sempre – dice Donzelli – di avere di fronte un’opposizione istituzionale e democratica, ma purtroppo non è cosi”.

Come ha spiegato la giurista Vitalba Azzolini il singolo parlamentare non può essere definito come istituzione, perché non rappresenta l’istituzione Parlamento, la cui volontà si esprime solo attraverso il voto collegiale, né fa istituzione a sé. Sono concetti che si studiano al primo anno di giurisprudenza che evidentemente sfuggono a influenti dirigenti politici nazionali. C’è anche altro. Donzelli dice di non ritenere “democratica” l’opposizione al governo. Siamo sicuri che si tratti solo di uso spregiudicato delle parole?

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