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L’empietà di capodanno

L’anno inizia con la nave Ocean Viking i Sos Mediterranée sotto sequestro amministrativo a Bari per una presunta “violazione del decreto Piantedosi”. Dopo essere approdata nel porto pugliese il 30 dicembre con 244 persone salvate in zona Sar (Search and rescue) libica per la seconda volta in due mesi l’imbarcazione ha ricevuto l’avviso di fermo. 

Sos Mediterranée, in un post su X, sottolinea che la nave “è ferma per aver effettuato una minima deviazione dalla sua rotta verso Bari. Una deviazione che non ha causato alcun ritardo su un viaggio di quasi 3 giorni. I tre soccorsi di 244 persone erano stati effettuati sotto il coordinamento delle autorità marittime”. Si tratta, secondo l’Ong, di una “legge ingiusta, che punisce i soccorritori umanitari per aver svolto quel lavoro che gli Stati non riescono a fare nel Mediterraneo”. Le autorità italiane, spiega l’Ong, “accusano la Ocean Viking di non aver rispettato le istruzioni di procedere senza indugio, alla massima velocità sostenibile e con rotta diretta, verso il luogo di sicurezza assegnato. Possiamo solo supporre che la nostra presunta ‘inosservanza’ consista in un piccolo cambiamento di rotta avvenuto dopo aver ricevuto la segnalazione di un caso di pericolo con almeno 70 naufraghi a bordo, a sole 15 miglia nautiche di distanza. Una posizione aggiornata dell’imbarcazione in difficoltà ha poco dopo mostrato che l’imbarcazione in pericolo si trovava 60 miglia nautiche più a nord. A quel punto la Ocean Viking, non essendo più in grado di prestare assistenza, ha immediatamente ripreso la rotta verso il porto di Bari, che è stato raggiunto senza alcun ritardo”.

“Se seguire il diritto marittimo internazionale è un crimine, noi siamo colpevoli”, ha affermato Anita, coordinatrice della ricerca e del soccorso a bordo della Ocean Viking. “Mentre cambiavamo rotta per renderci disponibili a prestare assistenza ad almeno 70 persone in pericolo vicino alla nostra nave, abbiamo chiaramente dichiarato che avremmo ripreso la nostra rotta originale verso Bari non appena fossimo stati sollevati dall’obbligo di prestare assistenza da un’autorità competente”, ha spiegato. “Senza alcuna indicazione che qualcun altro stesse venendo in soccorso di queste persone in difficoltà, semplicemente non avevamo altra scelta legale e morale se non quella di rispondere a questo allarme – ha proseguito -. Qualsiasi altra cosa sarebbe stata una violazione del diritto internazionale. Eppure stiamo pagando questa piccola deviazione, che non ha portato a un ritardo nel viaggio di quasi 3 giorni verso il porto assegnato a Bari, con il secondo fermo in due mesi”.

Buon 2024. 

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L’incrocio tra potere e affari, un vizietto per mezzo governo

La famiglia della fidanzata del ministro alle Infrastrutture e ai Trasporti Matteo Salvini è composta da lobbisti che si occupano anche di infrastrutture. Al di là degli esiti giudiziari si può dire senza dubbio di smentita che l’ex parlamentare Denis Verdini e suo figlio Tommaso fossero interessati (lecitamente o meno lo deciderà un giudice) alla ricca torta di appalti e di consulenze dell’Anas, società che gestisce la rete di strade statali e autostrade di interesse nazionale. In una democrazia evoluta, la vicinanza quasi famigliare tra attività di lobby e ministero sarebbe considerata inopportuna. In Italia però il conflitto di interessi è un concetto tramortito dalle cannonate in epoca berlusconiana ed è ormai considerato un vezzo da puristi e intellettuali.

Conflitti di interessi, così solo in Italia

Dicono i bene informati che la premier Giorgia Meloni non abbia nascosto la sua irritazione per un’indagine che sfiora la sua squadra di governo. E c’è da crederci. A Palazzo Chigi fin dai giorni dell’insediamento di questo governo la Presidente del Consiglio e i ministri sono terrorizzati dalla magistratura vista come unica pericolosa opposizione. Un nervosismo già mostrato al sorgere del caso Santanchè, la ministra coinvolta in un’indagine per bancarotta e falso in bilancio con una delle sue società, Visibilia.

Daniela Santanchè tra le altre cose è un’imprenditrice attiva nel campo del turismo. “Questo governo vuole difendere 30mila aziende balneari, non le abbandoneremo”, diceva proprio la Santanché lo scorso primo aprile. Non scherzava, seppure abbia omesso di dire che tra questi c’è pure il Twiga dell’amico Flavio Briatore, di cui è stata socia. Nella domanda di ristrutturazione del debito per salvare dal fallimento Visibilia, Santanchè sostiene che l’impegno sarà “soddisfatto” anche grazie alle “disponibilità” che “deriveranno” da una percentuale sugli incassi del locale. Locale di cui la Santanchè stessa ha ceduto le quote al suo compagno Dimitri Kunz d’Asburgo Lorena e a Briatore, chiudendo così, a modo suo, il conflitto di interessi esistente.

Ancora. A fine ottobre l’Antitrust, dopo le segnalazioni trasmessa dal ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, sulle possibili incompatibilità delle attività, per lo più di conferenziere, di Vittorio Sgarbi con il suo ruolo nel governo, ha avviato un procedimento nei confronti del sottosegretario alla Cultura per possibili condotte illecite in violazione di quanto previsto dalla legge in materia di attività incompatibili con la titolarità di una carica di governo.

Tengono famiglia

E ancora. Il ministro alla Difesa, Guido Crosetto, dopo la nomina ha rinunciato alla carica nell’AIAD, una importante associazione di Confindustria che raccoglie quasi 200 aziende, molte delle quali strategiche nella produzione di sistemi satellitari e armi, e alla presidenza di Orizzonte sistemi navali. Qualcuno si chiede se sia sufficiente una dismissione formale per levare ombre su un possibile conflitto di interessi. Il ministro ha risposto per sé stesso dicendo di sì. Ma il dubbio che le cose non stiano così inevitabilmente rimane, e per questo quanto accade alla luce del sole in Italia farebbe indignare in molti Paesi esteri. Dunque, al di là delle inchieste giudiziarie, la Meloni dovrebbe interrogarsi sulle sue scelte: la composizione della suo governo trasuda rischio di conflitti di interesse da tutti i pori. Siamo già oltre ai “Fratelli d’Italia”, siamo sulla soglia di una grande famiglia.

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Un governo nemico del Sud, soltanto alla Sicilia ha tolto 5 miliardi

Ammontano a quasi 5 miliardi le risorse sottratte alla Sicilia dal governo Meloni. Questo nonostante la Sicilia non stia affatto bene, con indici di povertà e di disoccupazione elevati, infrastrutture e servizi carenti, settori fondamentali come la sanità in profonda crisi. Ad affermarlo è la Cgil Sicilia nel dossier intitolato “Governo Meloni quanto ci costi”.

“Il governo taglia – ha detto il segretario generale nell’Isola, Alfio Mannino – peraltro nel silenzio e con l’assenso del governo regionale, impegnato solo ad occupare spazi di potere”.

Tutti i punti del dossier della Cgil Sicilia

Il dossier della Cgil indica che si arriva a oltre 4,8 miliardi con i tagli al Pnrr, pari a più di due miliardi e 400 milioni, in controtendenza con la situazione nazionale che vede invece crescere, con la revisione approvata dal Consiglio europeo, le risorse dell’1,73% (oltre 3 miliardi).

Sommando a questi la decurtazione del Fondo di sviluppo e coesione per un miliardo e 400 milioni, destinati in origine a infrastrutture, dissesto idrogeologico e interventi di coesione sociale e dirottati a finanziare il Ponte sullo Stretto e aggiungendo il taglio al Reddito di cittadinanza (che non farà arrivare nell’Isola 614 milioni), il mancato gettito fiscale di 150 milioni che lo Stato avrebbe dovuto trasferire alla Sicilia e altri 150 milioni in un triennio come risarcimento per i costi dell’insularità, previsti dal Def di aprile e scomparsi nella Finanziaria, il conto è salatissimo.

La denuncia

“La situazione dell’Isola – dice Mannino – dovrebbe suggerire investimenti, non tagli. Con le misure del governo, un gioco delle tre carte di segno antimeridionalista, avremo meno servizi, meno risorse per affrontare le emergenze sociali, le infrastrutture interne resteranno carenti, ci sarà più povertà in una regione che oggi, a causa di disoccupazione e del lavoro povero soffre particolarmente il peso dell’inflazione. E la situazione non promette meglio per il 2024”.

Il dossier ricorda poi che “il reddito medio lordo disponibile in Sicilia è di 14.764 euro annui, tra i più bassi d’Italia (media nazionale 19.753 euro)” e che “la Sicilia è la seconda regione per bassa intensità di lavoro (dato 2021): in molte famiglie cioè si lavora pochi mesi”.

In Sicilia ospedali bocciati

Il dossier fa anche il punto sulle carenze del sistema sanitario, con meno posti letto rispetto al resto d’Italia, meno infermieri, un tasso di emigrazione sanitaria in altre regioni del 6,2% e una quota di persone che rinuncia alle cure, principalmente per motivi economici o per le difficoltà di accesso al servizio, pari al 7,2%.

“Paradossalmente – spiega Francesco Lucchesi, segretario confederale Cgil – la Sicilia mostra uno svantaggio anche per la minore produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. Per non parlare dei trasporti con oltre il 37% delle famiglie che lamenta difficoltà di collegamento con i mezzi pubblici nelle zone di residenza”.

E “mentre in Sicilia la percentuale di binari non elettrificati supera il 40%, le reti idriche sono un colabrodo e le altre infrastrutture non se la passano meglio – dice Lucchesi – il governo taglia. Arrivando pure a colpire la riqualificazione dei beni confiscati alla mafia”. Secondo Lucchesi “per quanto riguarda il Pnrr, ad esempio, si taglia sulle case di comunità che non saranno realizzate o sui posti letto di terapia sub intensiva che non ci saranno”.

E Mannino insiste: “siamo lontani dalla narrazione del governo: di fatto la questione meridionale è scomparsa senza che la classe di governo della regione abbia fatto e faccia sentire la sua voce a tutela della Sicilia e dei siciliani”.

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La neolingua dei meloniani e quell’ossessione tragicomica per il maschile – Lettera43

Dopo che la prima premier donna della storia della Repubblica italiana ha chiesto di essere chiamata il presidente tra i suoi è scattata la guerra di pronomi per compiacerla. Il risultato è un «lessico povero» che «limita gli strumenti di ragionamento complesso e critico». Uno degli archetipi dell’Ur-fascismo elencati da Eco nel 1995. Oggi ci siamo arrivati.

La neolingua dei meloniani e quell’ossessione tragicomica per il maschile

Pochi giorni da alla Camera la deputata del Partito democratico Maria Cecilia Guerra è sbottata. Senza perdere la sua elegante gentilezza ha preso la parola e si è rivolta al presidente di turno, il forzista Giorgio Mulè, chiamandolo «signora presidente». Guerra ha sottolineato come poco prima il deputato di Fratelli d’Italia Marco Perissa in un suo intervento avesse chiamato «segretario» la leader dei dem Elly Schlein. «Quindi se è permesso rivolgersi a una donna con appellativo maschile, allora è consentito anche a me rivolgermi a lei al femminile a meno che non richiami tutti quelli che continuano a chiamare le donne al maschile. Lei tiene al suo genere, io tengo al mio», ha spiegato Guerra. Impagabile la reazione del maschio Mulè: «Onorevole Guerra, avrei qualcosa da ridire. La mia identità è quella e se si rivolge a me lo faccia come presidente, non si può rivolgere a me come ‘signora presidente’».

Il Giurì d'onore chiesto da Conte su Meloni si farà, l'annuncio del presidente della Camera Fontana
Giorgio Mulè (Ansa).

L’ossessione tragicomica di utilizzare il maschile per ogni ruolo che sembri importante

A proposito di cose da ridire. Il 2023 verrà ricordato anche per un aspetto meno importante ma molto significativo: per un intero anno una schiera di stampa, di politici della maggioranza, di commentatori televisivi, di conduttori radiofonici e analisti da ufficio o da bar hanno chiamato al maschile la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Per un intero anno la prima presidente del Consiglio donna nella storia della Repubblica italiana ha non solo accettato ma addirittura richiesto di essere chiamata al maschile e con quella forzatura di genere nel linguaggio ha preteso di essere vista come paladina della libertà e delle donne. Il risultato è un’ossessione tragicomica che spinge il malcapitato di turno – come nel caso del deputato Perrissa – a utilizzare il genere maschile per qualsiasi ruolo gli sembri importante convinto di onorare così la sua capa. Sembra una storia di Calvino: dopo il cavaliere inesistente e il visconte dimezzato anche la presidente maschio.

La neolingua dei meloniani e quell'ossessione tragicomica per il maschile
Marco Perissa (Imagoeconomica).

Meloni “uomo dell’anno” perché secondo Libero il femminile è una diminutio insopportabile

Nel 2023 dare dell’uomo a una donna è diventato un complimento e a nessuno dei portatori dell’egemonia culturale di questo governo scappa da ridere riguardandosi indietro. Anzi, peggio: l’ex portavoce della presidente del Consiglio ora direttore di Libero ha pensato di eleggere Giorgia Meloni “uomo dell’anno” in prima pagina per onorarne la capacità di prepotenza e di dominazione. Il direttore Sechi deve avere pensato che femmina fosse un sinonimo di mollezza e che servisse una parola sola per indicarne il verbo. C’è da scommettere che avrà pensato a quel “donna con le palle” già imbarazzante in un film western. Infine ha deciso che l’aggettivo migliore fosse “uomo”. Il femminile da quelle parti è una diminutio insopportabile per la leader. O il leader. Insomma, quella roba lì.

Giorgia Meloni è «l'uomo dell'anno» per il quotidiano Libero
Giorgia Meloni è «l’uomo dell’anno» per il quotidiano Libero

Fratelli d’Italia e quella celebrazione della donna-madre di fascistissima memoria

La zuffa sui pronomi è significativa perché contiene lo stesso seme che spinge una senatrice (o un senatore?) come Lavinia Mennuni – ovviamente di Fratelli d’Italia – ad andare in televisione per spiegarci che una donna si realizza solo se mamma. La celebrazione della madre e del fanciullo di fascistissima memoria si innesta in una carriera politica che si potrebbe riassumere così: battaglia per l’obbligo del presepe a scuola, sepoltura dei feti anche contro il volere delle madri, una protesta contro l’intitolazione di una piazza a Martin Lutero e 6 mila emendamenti presentati nel 2015 contro la delibera sulle unioni civili discussa in Campidoglio. La senatrice Mennuni (prendiamo lei come esempio, non ne abbia a male) è il prototipo di chi vuole esercitare la libertà di obbligare gli altri a fare quello che ritiene giusto.

La senatrice di FdI Mennuni «L'aspirazione delle nostre figlie deve essere quella di diventare mamme»
Lavinia Mennuni  (Imagoeconomica).

La lezione dimenticata di Eco sull’Ur-fascismo e la creazione del machismo

Per Umberto Eco il fascismo è esistito prima della dittatura fascista in Italia. Ed è continuato a esistere dopo il 25 aprile 1945. Non nella stessa forma o con le stesse modalità, ma nell’insieme delle sue caratteristiche culturali, psicologiche e comunicative. Nell’aprile del 1995, tre mesi dopo la caduta del primo governo Berlusconi, Umberto Eco si trovava a New York per tenere una conferenza alla prestigiosa Columbia University ed elencò gli archetipi di quello che chiamò Ur-fascismo. Il 12esimo punto era lo spostamento del culto dell’eroismo su questioni sessuali, creando il machismo. In questo modo secondo Eco vengono giustificati il «disdegno per le donne e una condanna intollerante per abitudini sessuali non conformiste, dalla castità all’omosessualità». Controllo e repressione della sessualità, quindi. Ma quello che ci interessa è l’ultimo punto, il 14esimo: l’uso di una “neolingua” non intesa come l’idioma inventato da George Orwell nel libro 1984, ma come un «lessico povero» caratterizzato da «una sintassi elementare, per limitare gli strumenti di ragionamento complesso e critico». Eccoci qui.

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Femminicidio, una parola da chiarire

Per l’enciclopedia Treccani la parola dell’anno è “femminicidio”. L’occasione è buona anche per un ripasso generale in un Paese in cui spesso si pensa che femminista sia sinonimo di femminile, e in cui una schiera di maschi spaventati rivendica l’istituzione del reato di maschicidio esibendo l’ignoranza di chi è convinto che vi sia femminicidio ogni volta che viene uccisa una donna. Basta scorrere la stessa Treccani per imparare che la connotazione di genere del termine “femicide” risale alla seconda metà del Novecento, quando la studiosa Diana Russell ha distinto gli omicidi di donne per motivi accidentali o occasionali tutte quelle uccisioni di donne, lesbiche, trans e bambine basate sul genere, da quelle situazioni in cui la morte di donne, lesbiche, trans e bambine rappresenta l’esito o la conseguenza di altre forme di violenza o discriminazione di genere.

Nella categoria criminologica del femminicidio rientrano: gli omicidi di donne commessi durante o al termine di una relazione di intimità da parte del partner o ex; gli omicidi da parte di padri, fratelli o altri familiari in danno di figlie, sorelle o altre familiari che rifiutano un matrimonio imposto, o per qualsiasi altro motivo espressione di punizione nei confronti della donna, ovvero di controllo e di possesso; gli omicidi dei clienti o degli sfruttatori in danno delle prostitute; gli omicidi delle vittime di tratta; gli omicidi di donne a causa del loro orientamento sessuale o identità di genere; ogni altra forma di omicidio commesso nei confronti di una donna o bambina perché donna. Come sottolineava la scrittrice Michela Murgia “femminicidio non indica il sesso della morta. Indica il motivo per cui è stata uccisa”. Chissà se lo capiscono.

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Pure Madrid chiude col nucleare, solo in Italia resta l’illusione

Mercoledì scorso in Spagna il Consiglio dei ministri ha deciso: il Paese abbandonerà il nucleare entro il 2035. Dopo la Germania che ha spento i suoi ultimi reattori ad aprile di quest’anno, un altro grande Stato europeo decide di rinunciare alla tecnologia che il governo italiano vorrebbe invece introdurre.

Così l’esecutivo guidato dal premier socialista Pedro Sànchez ha approvato il settimo piano generale per i rifiuti radioattivi, che stabilisce la tabella di marcia per il trattamento dei residui pericolosi provenienti dalle centrali nucleari. Proprio questo piano, la cui approvazione arriva con otto anni di ritardo, è un passo indispensabile affinché la Spagna possa intraprendere la chiusura ordinata delle cinque centrali che ha ancora attive, che inizierà nel 2027 e sarà completata nel 2035.

La Spagna dice addio al nucleare: il piano per l’uscita

Questa chiusura comporta un complesso processo di smantellamento delle strutture e il successivo trattamento dei rifiuti radioattivi. Fino a questo momento la dismissione delle centrali era stata messa in stand-by perché non si sapeva con esattezza che fine avrebbero fatto le scorie prodotte con il loro smantellamento. Le cinque centrali attualmente attive coprono da sole il 20% circa di tutto il fabbisogno energetico del Paese e il programma del governo è quello di sostituire questa percentuale con fonti rinnovabili.

I rifiuti di bassissima, bassa e media attività andranno a El Cabril, il magazzino situato nella provincia di Córdoba, che dovrà essere ampliato. Le scorie dalla pericolosità maggiore invece verranno stoccate in sette depositi temporanei accanto alle centrali dismesse. La decisione è arrivata dopo anni di trattative e cambi di programma:i rifiuti rimarranno nei depositi temporanei fino al 2070 circa, quando – stando ai piani attuali – verrà realizzato un deposito geologico nazionale dove stoccare le scorie in maniera permanente. La gestione dei rifiuti radioattivi e lo smantellamento degli impianti costeranno circa 20,2 miliardi di euro, che saranno pagati grazie a un apposito fondo sostenuto dagli operatori degli impianti.

Una scelta condivisa

L’abbandono del nucleare non è una sorpresa nella penisola iberica, dopo essere stato al centro del dibattito politico durante la recente campagna elettorale con i conservatori del Partito popolare che promettevano in caso di vittoria – non realizzata – di investire nello svecchiamento delle centrali nucleari esistenti. “Non possiamo scollegare il 21% dell’energia installata in Spagna senza avere un altro 21% in grado di funzionare con energia rinnovabile”, disse il leader del PP, Alberto Nunez Feijoo, immaginando che “il prezzo dell’energia aumenterà in modo esponenziale”.

Recentemente contro lo spegnimento delle centrali nucleari si era mosso anche Manuel Perez-Sala, presidente della lobby aziendale Circulo de Empresarios che invitava il governo a non tenere “posizioni ideologiche” e a ritardare la transizione.

In Italia il nucleare è invece sempre presente nei pensieri del ministro Gilberto Pichetto Fratin. Come ha sottolineato il Wwf, ancora oggi la bozza di aggiornamento del Piano Nazionale Energia e Clima (PNIEC) continua a valorizzare gas naturale, biocombustibili e persino l’energia nucleare, “mostrandosi totalmente incoerente – scrive l’associazione – con gli obiettivi e le tempistiche della transizione energetica ed ecologica”.

Ieri un’indagine commissionata da Alleanza luce & gas, la energy company controllata da Coop Alleanza 3.0, ha evidenziato come l’80% degli intervistati considerano il futuro energetico dell’Italia legato alle energie rinnovabili e solo il 26% ritiene plausibile il rafforzamento del nucleare.

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Il Corano delle destre con le donne tutte gravide

La senatrice di Fratelli d’Italia Lavinia Mennuni ha trovato la soluzione per la crisi di natalità in Italia che dal 2014 è calata nel 72% dei Comuni italiani: “far diventare la maternità cool, con le ragazze di 18 anni che vogliono sposarsi e fare una famiglia”. La senatrice, ospite di Coffee Break su La7, ha detto: “la mia mamma mi diceva ‘ricordati che qualsiasi aspirazione tu abbia – io volevo fare politica – puoi fare quello che vuoi, ma non dimenticare che la prima deve esser quella di diventare mamma’. Questa è una cosa che noi donne dobbiamo ricordare alle nostre figlie”.

“Sennò, il rischio che si genera è che in nome di questa realizzazione professionale” ha spiegato la parlamentare, salti “la missione, sì dico missione perché è una cosa bella, di metter al mondo dei bambini”. “Gli uomini e le donne fanno grandi cose insieme”, ha continuato Mennuni, dicendo di non essere mai stata una da “femminismo separatista”, qualsiasi cosa significhi. E quindi la soluzione: “dobbiamo aiutare le istituzioni, il Vaticano, le associazioni nel far diventare la maternità di nuovo cool. Far sì che le ragazze di 18 anni, 20 vogliano decidere di sposarsi e vogliano metter al mondo una famiglia”.

Dunque, il governo femminile più patriarcale della storia non invita le donne a realizzarsi, studiare, stare nel mondo: le vuole gravide. E questi non sono nemmeno sfiorati dal fatto che per fare figli servano il lavoro, uno stipendio e servizi decenti. Umberto Eco diceva che tra i segnali d’allarme di fascismo rientra anche il controllo e la repressione della sessualità. Le donne secondo Meloni sono questa roba qua. L’importante è che non portino il velo, ma sotto sono identiche.

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Il poco senso dell’attendibilità di Giorgia Meloni

Con la consueta e analitica pazienza nella redazione di Pagella Politica si sono messi a verificare la veridicità di un anno di dichiarazioni della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in attesa della conferenza stampa di fine anno che si svolgerà all’inizio dell’anno nuovo per problemi di salute (il 4 gennaio ndr). 

Le 182 dichiarazioni analizzate da Pagella Politica permettono di cogliere una tendenza che a conti fatti non pare proprio volgere nel lato della verità. Complessivamente, le dichiarazioni «attendibili» sono state 59 (il 32,4 per cento sul totale), quelle “imprecise” 53 (29,1 per cento), mentre quelle «poco o per nulla attendibili» 70 (38,5 per cento). In altre parole, quasi il 70 per cento delle dichiarazioni di Meloni, tra quelle che abbiamo sottoposto al nostro fact-checking, è risultato impreciso o poco o per nulla attendibile.

Non è difficile immaginare che Meloni abbia commesso meno errori sul tema del lavoro, con circa il 54 per cento delle dichiarazioni verificate attendibili mentre si sia lasciata prendere dalla propaganda mendace quando ha parlato di immigrazione con oltre il 70 per cento di dichiarazioni verificate poco o per nulla attendibile. 

Come spiega Pagella Politica nel 2023 la presidente del Consiglio ha fatto dichiarazioni più attendibili nei discorsi ufficiali, come le comunicazioni in Parlamento in vista delle riunioni del Consiglio europeo, l’organo che raccoglie i capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri dell’Unione europea. Meloni è stata invece più imprecisa negli “Appunti di Giorgia”, la video rubrica sui social network in cui racconta le misure adottate dal suo governo. Perché sia allergica ai giornalisti è facile immaginarlo.

Buon venerdì. 

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Coldiretti è la Bibbia per il governo, ma non se parla di clima

Con la rielezione di Ettore Prandini alla presidenza della Coldiretti, sancita all’unanimità nell’assemblea del 20 dicembre, si è rinnovato l’asse tra l’organizzazione e il Governo e, in particolare, con Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura, sovranità alimentare e foreste. Una vicinanza programmatica che ha consentito al sindacato di Palazzo Rospigliosi di piazzare diversi colpi a favore nelle decisioni dell’esecutivo di Giorgia Meloni in questo 2023, a partire dalla legge sul cosiddetto cibo “sintetico” dello scorso novembre, contestato da più parti. Del legame Coldiretti-governo si potrebbe chiedere anche a Benedetto Della Vedova, ex segretario di +Europa che fu aggredito dal presidente di Coldiretti di fronte a Montecitorio e dovette assistere qualche giorno dopo al buffet organizzato alla Camera con i prodotti dell’associazione di agricoltori.

L’analisi della Coldiretti

Ieri invece il governo ha deciso di chiudere le orecchie. L’analisi della Coldiretti sulla base delle previsioni della banca dati Noaa, il National Climatic Data Centre che registra le temperature mondiali dal 1850 ha certificato al 99% la probabilità che il 2023 si classifichi come l’anno più caldo mai registrato nel Pianeta dopo che la temperatura sulla superficie della terra e degli oceani è risultata addirittura superiore di 1,15 gradi rispetto alla media del ventesimo secolo, nei primi undici mesi dell’anno. Una tendenza al surriscaldamento confermata anche in Italia, dove nello stesso periodo la temperatura è stata di 1,05 gradi superiore la media storica secondo Isac Cnr ma con anomalie che – sottolinea la Coldiretti – hanno raggiunto i 10 gradi a fine dicembre in certe aree del Paese. Il caldo anomalo di inizio inverno sconvolge la natura e rischia addirittura di far ripartire le fioriture con il pericolo di esporre le coltivazioni a danni rilevantissimi. A preoccupare è anche il rischio siccità, soprattutto sull’Italia centro-meridionale, dove stanno emergendo i primi sintomi di stress idrico che, accompagnati alla scarsità di neve in diversi settori dell’arco alpino e su gran parte della dorsale appenninica, fanno scattare un campanello d’allarme. Senza dimenticare che se non arriva il freddo le popolazioni di insetti che causano danni alle colture potrebbero sopravvivere e svernare per attaccare i raccolti nella prossima primavera.

Che scoperta!

Siamo di fronte – dice Coldiretti – ad una evidente tendenza alla tropicalizzazione con una più elevata frequenza di manifestazioni violente, sfasamenti stagionali, precipitazioni brevi ed intense ed il rapido passaggio dal caldo al maltempo con effetti devastanti come dimostrano le alluvioni in Romagna e in Toscana”. L’agricoltura italiana è l’attività economica che più di tutte le altre vive quotidianamente le conseguenze dei cambiamenti climatici ma è anche il settore più impegnato per contrastarli” ha affermato Prandini nel sottolineare che “i cambiamenti climatici impongono una nuova sfida per le imprese agricole che devono interpretare le novità segnalate dalla meteorologia e gli effetti sui cicli delle colture, sulla gestione delle acque e sulla sicurezza del territorio”.

Ma ieri Lollobrigida, il ministro Matteo Salvini e gli altri membri del governo non hanno trovato il tempo di ossequiare Coldiretti sul cambiamento climatico. I partiti della maggioranza sono pronti a immolarsi per la sovranità alimentare, utile a sfamare la propaganda, ma poi non trovano il tempo di aprire una discussione sul cambiamento climatico. Un campo dove i negazionisti trovano ampio ascolto a destra. E in vista delle prossime scadenze elettorali, guai a contraddirli.

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