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L’illusione della parità di genere: l’Inps smonta la propaganda pro-famiglia delle destre

Il XXIII Rapporto Annuale dell’Inps del 2024 delinea un quadro che smentisce le narrazioni ottimistiche della maggioranza governativa. Nonostante gli sforzi legislativi sbandierati con orgoglio dalla presidente del Consiglio il Paese continua a rappresentare un contesto ostile per le madri, costrette a barcamenarsi tra lavoro e famiglia in un sistema che non riconosce né valorizza il loro ruolo. I dati del rapporto evidenziano che non si tratta soltanto di una questione economica ma di un problema radicato nelle strutture profonde del mercato del lavoro, dove la disparità di genere è una costante difficilmente scalfibile.

Il mito infranto: occupazione femminile e maternità

A maggio 2024, il tasso di occupazione femminile era del 53,5%, ancora ben lontano dal 70,9% maschile. Queste cifre si traducono in una minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro e in una presenza concentrata in settori a bassa retribuzione, spesso legati a contratti temporanei o a tempo parziale. Le donne sono costrette a ridurre l’orario lavorativo o a scegliere lavori meno qualificati per conciliare le esigenze familiari, sacrificando così prospettive di carriera e stabilità economica.

L’analisi del rapporto evidenzia un dato allarmante: la nascita di un figlio rappresenta un evento cruciale per le carriere delle donne. Nei primi tre anni di vita del bambino, il 30% delle madri abbandona il lavoro o riduce drasticamente l’impegno professionale. Il congedo parentale, che nelle intenzioni dovrebbe favorire una ripartizione più equa delle responsabilità familiari, viene utilizzato quasi esclusivamente dalle donne, che nel 2023 hanno usufruito del 90% delle giornate complessive di congedo. Nonostante l’introduzione di un congedo obbligatorio di paternità retribuito al 100% per una durata di 10 giorni, l’adesione da parte dei padri resta bassa, con un take-up pari al 64,5%.

Questi numeri indicano un’asimmetria di fondo nelle politiche di conciliazione tra vita familiare e lavoro: le madri sono ancora le prime a fare un passo indietro sul piano professionale per far fronte alle esigenze familiari. Questa situazione è aggravata da un sistema di welfare frammentato e inefficace, che lascia scoperti molti dei bisogni fondamentali delle famiglie italiane. Anche il Bonus Asilo Nido, che nel 2023 ha raggiunto circa 480mila bambini, è percepito come insufficiente: copre solo in parte i costi di gestione della cura infantile, spingendo molte donne a preferire soluzioni casalinghe e riducendo ulteriormente le opportunità di impiego.

Un ulteriore elemento di criticità emerge dalla perdita salariale subita dalle madri nel periodo successivo alla nascita di un figlio. Il congedo di maternità, retribuito all’80%, copre solo parzialmente le esigenze economiche delle famiglie. Secondo le stime riportate nel Rapporto, se non fosse per il congedo, la perdita salariale nel primo anno di vita del bambino sarebbe vicina all’80% del reddito annuale della madre. L’incremento del valore del congedo parentale per una delle tre mensilità (elevato al 80% della retribuzione) ha portato a un lieve aumento delle richieste, ma la misura resta ancora lontana dal garantire un’adeguata tutela economica e sociale.

La retorica di un Paese che “accompagna le madri” si scontra con una realtà in cui le donne, una volta diventate madri, faticano a rientrare nel mercato del lavoro, vedendo compromessi non solo il proprio sviluppo professionale ma anche il contributo previdenziale per il futuro. Tutto questo genera un circolo vizioso che vede la povertà e la precarietà economica femminile aumentare, con ricadute pesanti anche sulle generazioni future.

Politiche insufficienti: il fallimento del welfare familiare

Nel quadro delle misure previste dal governo per sostenere la natalità e l’occupazione femminile, l’Assegno Unico e Universale (Auu) rappresenta uno dei principali strumenti di sostegno economico. Tuttavia, la misura, pur avendo raggiunto una copertura del 93% delle famiglie con figli nel 2023, non è sufficiente a risolvere il problema della denatalità e della difficoltà di conciliazione tra lavoro e vita privata. Le risorse stanziate per l’assegno – pari a 18 miliardi di euro nel 2023 – mostrano l’intenzione del governo di investire sulle famiglie, ma non affrontano la radice del problema: la mancanza di politiche strutturali che permettano alle madri di non dover scegliere tra lavoro e famiglia.

Anche sul fronte delle politiche aziendali, la situazione appare poco incoraggiante. Gli strumenti di flessibilità, come lo smart working, sono applicati in modo limitato e spesso non strutturato. Il risultato è che le madri continuano a essere costrette a sacrificare la propria carriera, vedendo così consolidarsi il divario salariale di genere. I dati INPS indicano che la differenza retributiva tra uomini e donne, già significativa prima della maternità, si amplia in modo drammatico dopo la nascita di un figlio. Il divario salariale, che nel 2023 si attesta a una media del 30%, è ancora più accentuato nelle regioni del Nord, dove le donne guadagnano circa il 35% in meno rispetto ai colleghi maschi.

Con buona pace della propaganda la realtà dimostra che l’Italia non è un Paese per madri. 

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Garante dei detenuti, scontro sull’ex funzionario del Dap scelto da Nordio. Il Pd all’attacco: “Nomina fuorilegge”

Il ministro Nordio ha trovato il suo uomo per vigilare sui diritti dei detenuti: Riccardo Turrini Vita, fresco di nomina come Garante nazionale. Un curriculum impeccabile, non c’è che dire. Vent’anni di onorato servizio nei meandri del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, culminati con la vicedirezione del Dipartimento per la giustizia minorile. Chi meglio di lui può conoscere le dinamiche carcerarie?

Certo, qualche malizioso potrebbe far notare che la legge prevede esplicitamente che il Garante non sia un dipendente pubblico. Ma si sa, le leggi in Italia si prestano alle più svariate interpretazioni. E quella data da Nordio è chiara: l’esperienza vale più della forma.

Nuovo garante dei detenuti, la legge è un’opinione: quando l’esperienza batte i requisiti

Il Partito Democratico parla di “palese incompatibilità” e di “nomina fuorilegge”. Magistratura Democratica solleva timidamente una “delicata questione di rispetto della legge”. Come se in Italia il rispetto della legge fosse mai stato un criterio per le nomine di alto livello.

L’Unione Camere Penali, con un tocco di ironia involontaria, ricorda che l’ufficio del Garante è ospitato proprio all’interno del Dap. Un dettaglio che rende la nomina ancora più appropriata: almeno il designato non dovrà chiedere indicazioni per trovare l’ufficio.

Nel frattempo, le carceri italiane continuano a essere un modello di efficienza. Il sovraffollamento in alcune strutture supera solo del 260% la capienza prevista. I suicidi tra i detenuti sono una costante rassicurante. E gli istituti minorili, grazie al “decreto Caivano”, hanno visto un aumento di presenze del 49%. Numeri che fanno dormire sonni tranquilli.

In questo contesto idilliaco, l’indipendenza e la terzietà del Garante sono ovviamente superflue. Perché mai dovremmo volere un occhio esterno e critico quando possiamo avere qualcuno che conosce il sistema dall’interno? Nordio deve aver pensato che distinguere tra il suo ruolo passato e quello futuro non è un problema e che cambiare prospettiva dopo decenni è un gioco da ragazzi.

Da guardiano alla ‘difesa’ dei detenuti

Il viceministro Sisto assicura che Turrini Vita ha “tutti i requisiti, le competenze e le capacità” per il ruolo. Non c’è motivo di diffidare del suo giudizio. Ma resta il fatto che la nomina voluta dal ministro riporta in auge una vecchia tradizione italiana: affidare il controllo a chi dovrebbe essere controllato. Una tradizione che in passato e in più di un’occasione non ha certo brillato per risultati.

Di certo, il nuovo Garante si troverà ad affrontare sfide non indifferenti. Dovrà vigilare su un sistema carcerario in cui il sovraffollamento è la norma, i suicidi sono quasi all’ordine del giorno e le condizioni di vita dei detenuti sono spesso al limite dell’umano.

Resta solo da capire se questa nomina porterà a quel cambiamento radicale di cui il sistema carcerario italiano ha disperatamente bisogno. E se chi di quel sistema ha fatto parte per molti anni si dimostrerà la persona giusta per farlo. Staremo a vedere.

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Spot al libro di Bocchino alla Galleria d’arte moderna

La Galleria Nazionale d’Arte Moderna (Gnam), tempio della cultura italiana, è stata trasformata in un megafono per la propaganda di destra. Il pretesto? La presentazione del libro di Italo Bocchino, Perché l’Italia è di destra. Un titolo che suona come una sentenza, non come l’inizio di un dibattito.

Ma il vero inciampo si è palesato dietro le quinte. Alcuni dipendenti della Galleria hanno avuto l’ardire di esprimere dissenso, chiedendo l’annullamento dell’evento. La risposta Una repressione degna dei peggiori regimi. La direttrice, novella inquisitrice, ha prontamente segnalato i nomi dei “ribelli” al Ministero della Cultura. Un atto di pura intimidazione, un messaggio chiaro: chi dissente sarà punito.

La Gnam, un tempo santuario dell’arte, è diventata palcoscenico per celebrazioni di partito. Da Tolkien a Vito Cozzoli, passando per Bocchino. La Cgil grida allo scandalo. Ma il vero scandalo è che nel 2024 ci troviamo ancora a combattere battaglie che credevamo vinte decenni fa. La libertà d’espressione, fondamento di ogni democrazia, viene ridotta a un privilegio concesso solo a chi si allinea al pensiero dominante.

L’episodio non è un semplice campanello d’allarme: è la prova tangibile di un pericoloso scivolamento verso l’autoritarismo. La cultura da strumento di emancipazione rischia di diventare un’arma di propaganda nelle mani del potere. E noi, cittadini e lavoratori, siamo chiamati a resistere. Perché se l’Italia è davvero di destra, come proclama Bocchino, allora abbiamo il dovere morale di ricordarle cosa significhi veramente libertà e democrazia. 

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Il chiodo fisso di Salvini

Sono passate poche ore da quando il ministro ai Trasporti Matteo Salvini ha parlato di un operaio “di una ditta privata” che ha sbagliato a piantare un chiodo e quindi sarebbe il vero colpevole del tilt del traffico ferroviario di tre giorni fa. Attilio Franzini, uno degli operai che in subappalto martella i chiodi, ieri è morto investito dall’Intercity Roma-Trieste lungo la linea Bologna-Venezia, a ridosso della stazione di San Giorgio di Piano, nel Bolognese, intorno alle 4.30 di mattina.

Il ministro Salvini di fronte alle telecamere aveva annunciato tronfio di volere sapere in fretta “nomi e cognomi” dei colpevoli dei ritardi. Qualsiasi persona di buon senso ha provato un forte senso di disagio ascoltando un vice presidente del Consiglio che scaricava la colpa sull’ultimo degli operai del complesso e costoso sistema di trasporto nazionale di cui è a capo. 

Qualsiasi esperto di comunicazione politica avrebbe potuto consigliare al leader della Lega di smetterla una volta per tutte di fare il forte con i deboli per sottrarsi alle proprie responsabilità politiche. Anche perché in questa Italia i lavoratori deboli, gli ultimi della catena, sui binari troppo spesso muoiono. 

Non è un caso che Antonio Laganà, fratello di una delle vittime della strage di Brandizzo, avvenuta sui binari poco più di un anno fa, ieri sia sbottato confessando di avere sperato “che almeno Brandizzo fosse un punto di non ritorno” e che “le regole potessero cambiare”. E chi si occupa delle regole? Salvini, al di là dei chiodi. 

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Von der Leyen promette, la Corte dei Conti smentisce: il sostegno all’Ucraina è un miraggio

La Corte dei Conti europea ha recentemente pubblicato una relazione che mette in discussione l’efficacia e la fattibilità del programma industriale di difesa dell’Unione europea previsto dal bilancio europeo per il periodo 2025-2027. Il programma era stato presentato con enfasi dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen come garanzia di sostegno all’Ucraina. La promessa sembra vacillare sotto l’esame minuzioso della Corte.

Le falle del programma: budget inadeguato e governance confusa

La relazione sottolinea diverse criticità sostanziali. In primo luogo il budget stanziato di 1,5 miliardi di euro appare inadeguato rispetto agli ambiziosi obiettivi dichiarati. La Corte sottolinea esplicitamente il rischio: “le limitate risorse dell’Ue potrebbero essere disperse su un’ampia gamma di progetti che potrebbero non avere un impatto misurabile a livello dell’Ue”.

Un altro punto critico riguarda lo Strumento di Sostegno all’Ucraina. La Corte rileva una preoccupante mancanza di disposizioni specifiche per la sua attuazione. Il report afferma che “la proposta non stabilisce disposizioni specifiche relative all’attuazione dello Strumento di Sostegno all’Ucraina e applica disposizioni simili a quelle per gli Stati membri”. Questo approccio viene giudicato inadeguato, considerando “i diversi obiettivi, la fonte di finanziamento di bilancio, la base giuridica e l’elevato rischio di corruzione in Ucraina”. 

La tempistica stessa del programma solleva dubbi significativi. Con soli due anni di attuazione previsti (2026-2027), la Corte avverte che “per raccogliere tutti i benefici del sostegno di bilancio dell’Ue, la Commissione dovrebbe considerare di integrare l’EDIS con una strategia di finanziamento a lungo termine per l’EDTIB nell’ambito del prossimo quadro finanziario pluriennale”. Questa osservazione mette in luce la mancanza di una visione a lungo termine nel programma.

La Corte dei Conti esprime inoltre preoccupazioni riguardo alla governance del programma. Il report sottolinea la complessità del quadro istituzionale esistente e avverte che “la Commissione e i colegislatori dovrebbero considerare il rischio di sovrapposizioni e sfide nella conduzione di valutazioni e audit derivanti da un quadro così complesso”.

Anche sul monitoraggio delle prestazioni la Corte rileva lacune significative. Il report afferma che “non abbiamo identificato indicatori di performance per riflettere specificamente gli obiettivi di promuovere l’interoperabilità e standardizzare i sistemi di difesa in tutta l’Ue”.

Tensioni diplomatiche: l’Ungheria ostacola gli aiuti all’Ucraina

Intanto il prossimo mercoledì 9 ottobre, gli ambasciatori dei ventisette Stati membri dovrebbero approvare la proposta della Commissione di fornire un prestito da 35 miliardi di euro all’Ucraina. Questo prestito dovrebbe essere rimborsato utilizzando i proventi degli attivi russi congelati, nell’ambito del più ampio prestito da 50 miliardi di dollari promesso a giugno dai leader del G7.

Ma non sarà facile. L’Ungheria ha confermato la sua intenzione di porre il veto a un testo legislativo considerato fondamentale per la partecipazione degli Stati Uniti al prestito del G7. Si tratta del prolungamento da 6 a 36 mesi della durata delle sanzioni dell’Ue che mantengono gli attivi russi immobilizzati.

Un diplomatico ha riferito al Mattinale europeo che “l’Ungheria ha detto di voler aspettare novembre e le elezioni americane. Non si muoverà”. Nonostante ciò, sembra che l’Ue sia determinata a procedere. Lo stesso diplomatico ha aggiunto: “Se non riusciremo a prolungare la durata delle sanzioni, non ci sarà la piena partecipazione degli Usa. Ma l’Ue farà da sola. L’Ucraina avrà i 35 miliardi di euro”.

Von der Leyen in favore di telecamera continua a rassicurare all’Ucraina “il massimo sostegno”. Nei fatti invece la presidente della Commissione dimostra – per l’ennesima volta – di non avere una politica estera davvero comune. 

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Governo contro se stesso: tassato il simbolo anti-ecologista

Tre miliardi e cento milioni da recuperare allineando le accise del diesel a quelle della benzina. Alla fine Giorgia Meloni ha dovuto cedere alle pressioni del suo ministro Giancarlo Giorgetti di fronte a una realtà che non si può piegare con l’abituale propaganda: servono soldi.

Così la presidente del Consiglio che inscenava in favore di telecamera azioni da Robin Hood all’amatriciana al distributore di benzina dicendosi «convinta che prima o poi riusciremo a fare un taglio strutturale delle accise» è costretta ad alzarle. Parimenti il ministro Salvini si rimangia «il taglio alle accise» che ripetutamente prometteva come nuovo contratto con gli italiani. 

Tre miliardi e cento milioni di euro che verrano scuciti dalle tasche degli automobilisti italiani con una nuova tassa infilata tra le pieghe. Eppure gli automobilisti con motore diesel sono i tipi perfetti per sostenere questo governo: sono quelli che esultano ogni volta che un’esponente della maggioranza si sollazza negando il cambiamento climatico, sono coloro che restano appesi alle braghe del ministro Urso quando fa la voce grossa a Bruxelles per rivendicare il diritto di inquinare con un bel motore scoreggiante, 

Quindi non solo il governo smentisce se stesso affidandosi a un fastidioso balzello com’è sempre accaduto fin qui, colpisce anche un motore che aveva elevato a simbolo dell’opposizione alla transizione ecologica, quasi un vessillo. 

Con questi non ci si può sentire al sicuro nemmeno abbracciandone le più strampalate teorie. 

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Inno alla giustizia fai da te nella Roma del Giubileo

Benvenuti nel Far West della Capitale, dove la legge del più forte si fa strada tra le pieghe di un tessuto sociale sempre più lacerato. L’ultimo episodio di questa saga western all’amatriciana ci porta in via Silicella, periferia sud-est di Roma, dove il presidente del Municipio VI, Nicola Franco di Fratelli d’Italia, ha deciso di indossare i panni dello sceriffo e chiamare a raccolta i suoi cittadini. L’obiettivo? Un centinaio di disperati, tra cui venti minori, che hanno osato cercare riparo in un albergo abbandonato. Il loro crimine? Essere poveri e senza casa in una città che si prepara al Giubileo come fosse un concorso di bellezza, dove la miseria va nascosta sotto il tappeto e i problemi sociali risolti a colpi di ruspa.

Franco non si è limitato a invocare lo sgombero: ha aizzato la folla, invitando i cittadini a “scendere in strada per cacciare gli occupanti”. Un invito alla giustizia fai da te che fa rabbrividire, ma che ben si sposa con il clima da stato di polizia che si respira in questi giorni, con il Ddl Sicurezza che promette di trasformare l’Italia in un grande laboratorio sulla legge e l’ordine. Ma la domanda sorge spontanea: è questa la soluzione? È questa la sicurezza, travestita da vendetta In questo scenario da basso impero, c’è chi sogna una città ripulita per il Giubileo, come se la povertà fosse polvere da nascondere sotto il tappeto. E allora, caro Franco, invece di giocare allo sceriffo, perché non provi a fare il presidente di Municipio che si occupa dei problemi anziché crearne di nuovi? Basterebbe una telefonata ai suoi colleghi di partito, no?

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Altro che Europa green, un altro anno per deforestare

No, non sarà un’Europa verde. L’Unione europea fa marcia indietro sulla lotta alla deforestazione globale. Il 2 ottobre 2024, la Commissione europea ha annunciato il rinvio di un anno dell’entrata in vigore del Regolamento Ue sulla deforestazione (Eudr), una normativa che avrebbe segnato una svolta epocale nella tutela delle foreste mondiali.

Il provvedimento, inizialmente previsto per il 30 dicembre 2025, mirava a vietare l’importazione nell’Ue di prodotti legati alla deforestazione, come caffè, cacao, soia, olio di palma, legno e carta. L’obiettivo era chiaro: arrestare il contributo europeo alla perdita di aree boschive nel mondo, un fenomeno che dal 1990 al 2020 ha causato la scomparsa di 420 milioni di ettari di foreste, secondo i dati della Fao.

La decisione di posticipare l’applicazione della legge al 30 dicembre 2026 per le grandi aziende e al 30 giugno 2027 per le piccole e micro imprese arriva dopo mesi di pressioni da parte di diversi Stati membri, industrie e partner commerciali internazionali. In prima linea tra i critici c’è la Germania, con il cancelliere Olaf Scholz che già a settembre aveva chiesto personalmente alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen di sospendere il regolamento “fino a quando le questioni aperte sollevate non saranno chiarite”.

Le motivazioni addotte per giustificare il rinvio sono diverse: la complessità delle nuove regole, la necessità di più tempo per predisporre i sistemi di tracciabilità e due diligence, l’attesa di documenti tecnici da parte della Commissione per guidare l’attuazione. Ma dietro queste giustificazioni si cela una realtà più scomoda: l’Eudr avrebbe impattato su oltre 110 miliardi di dollari di commercio annuale, influenzando le economie di interi continenti.

La pressione dell’industria vince sulla protezione ambientale

Non sorprende quindi che anche dai Paesi extra-Ue siano arrivate critiche feroci. Il Brasile, nazione simbolo della deforestazione, ha bollato il provvedimento come “uno strumento unilaterale e punitivo che ignora le leggi nazionali sulla lotta alla deforestazione” e che contraddirebbe “il principio di sovranità”.

In questo coro di proteste si è inserita anche l’Italia, con una voce autorevole del settore del caffè. Andrea Illy, presidente di Illycaffè, pur definendo il progetto “nobile”, ne ha criticato l’esecuzione “troppo frettolosa”. Secondo l’imprenditore, la messa in opera della norma sarebbe “estremamente onerosa, soprattutto per i Paesi esportatori, che devono fornire le coordinate geografiche e necessitano di tecnologie e costi operativi fuori dalla loro portata economica”.

Ovviamente questo passo indietro solleva interrogativi sulla reale determinazione dell’Ue nel perseguire gli obiettivi del Green Deal. La decisione arriva infatti pochi giorni dopo un altro cedimento alle pressioni dell’industria: l’accordo tra gli Stati membri per declassare la protezione dei lupi in Europa.

Il Green Deal in bilico: l’UE vacilla sui suoi impegni

Il presidente del Partito Popolare Europeo (Ppe), Manfred Weber, ha immediatamente rivendicato il merito di questo dietrofront, dichiarando: “Sono lieto che Ursula von der Leyen abbia seguito la mia iniziativa”. Una affermazione che getta più di un’ombra sulle reali motivazioni dietro questa decisione, suggerendo che considerazioni politiche e pressioni industriali possano aver avuto un peso maggiore rispetto alle preoccupazioni ambientali.

Le reazioni degli ambientalisti non si sono fatte attendere. L’eurodeputata tedesca Delara Burkhardt ha accusato von der Leyen di “minare il Green Deal” prima ancora di iniziare il suo secondo mandato. Virginijus Sinkevičius, ex Commissario per l’Ambiente diventato eurodeputato dei Verdi, ha definito il ritardo “un passo indietro nella lotta al cambiamento climatico” che “danneggia la nostra credibilità sugli impegni climatici”.

Il rinvio dell’Eudr rappresenta un chiaro segnale di come l’Unione europea, di fronte alle sfide economiche e alle pressioni internazionali, sia disposta a mettere in secondo piano le proprie ambizioni ambientali. Il secondo mandato di von der Leyen è sempre meno verde. 

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“Gravi e reiterati ritardi sui migranti”, per il Consiglio di Stato è mala gestio

Una sentenza storica del Consiglio di Stato del 20 settembre 2024 ha accolto, per la prima volta in materia di immigrazione, un’azione collettiva contro la Pubblica Amministrazione. La decisione, che conferma una precedente sentenza del Tar della Lombardia, segna un punto di svolta nella tutela dei diritti dei migranti. 

La svolta storica: l’azione collettiva entra nel diritto dell’immigrazione

Al centro della controversia sono i “gravi e sistematici ritardi” della Prefettura di Milano nella gestione delle domande di emersione dal lavoro irregolare, previste dal decreto-legge n. 34/2020. L’azione legale, promossa da associazioni come ASGI, Oxfam, CILD, Spazi Circolari e NAGA, insieme a oltre 100 cittadini, mirava a “ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio” da parte della Pubblica Amministrazione.

Il Consiglio di Stato ha ribadito che il termine massimo per concludere la procedura di emersione non può superare i 180 giorni. Questa scadenza, sistematicamente disattesa, ha causato gravi disagi a migliaia di lavoratori stranieri, lasciandoli in un limbo giuridico e sociale potenzialmente devastante.

La sentenza critica duramente l’operato della Pubblica Amministrazione, definendo la situazione un “fenomeno di diffusa e cronicizzata mala gestio amministrativa”. I giudici hanno respinto le giustificazioni basate sull’elevato numero di domande o sulla presunta presenza di tentativi di falsificazione, sottolineando che, in presenza di adeguate risorse finanziarie, l’inefficienza non può essere giustificata.

Particolarmente severo è il giudizio sulle misure correttive adottate dall’amministrazione, definite “intempestive” e tardive. Il Consiglio di Stato ha rimarcato che tali interventi avrebbero dovuto essere implementati fin dall’inizio o almeno prima della presentazione del ricorso.

La sentenza assume un’importanza capitale anche per il riconoscimento della legittimazione e dell’interesse ad agire delle associazioni del settore. Questo apre la strada a future azioni collettive, fornendo uno strumento potente per contrastare le inefficienze sistemiche della Pubblica Amministrazione nel campo dell’immigrazione.

L’azione collettiva, come sottolineato dai magistrati, “recepisce una istanza di tutela di ordine trasversale” che va oltre i limiti di una specifica inerzia. Si tratta di uno strumento concepito per incidere sul fenomeno di inefficienza nel suo complesso, dotando il giudice di poteri decisionali particolarmente penetranti.

Oltre la sentenza: un nuovo capitolo nella lotta per i diritti dei migranti

Le implicazioni della sentenza sono diverse: incoraggia il ricorso alle azioni collettive strategiche da parte di un numero crescente di attori della società civile, che vedono nei ritardi della Pubblica Amministrazione un nodo cruciale della violazione sistematica dei diritti non solo delle persone straniere, ma di tutti i cittadini.

Inoltre, la decisione segna un cambio di rotta rispetto al precedente orientamento restrittivo del Consiglio di Stato sull’azione collettiva. Oggi, il massimo organo della giustizia amministrativa stigmatizza la disfunzione burocratica in modo netto e inequivocabile.

I ritardi nel rilascio dei documenti alle persone straniere non sono una questione meramente amministrativa perché provocano danni gravissimi: perdita del lavoro, mancata iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, impossibilità di esercitare i diritti sociali collegati alla titolarità del permesso. Così i ritardi finiscono per collocare le persone straniere in una condizione di marginalità sociale, spesso strumentalizzata dalla propaganda politica. Così accade che chi prende i voti promettendo di liberare le strade dai migranti sia lo stesso che ingolfa la burocrazia per lasciarli per strada. E il gioco ricomincia. 

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Dal chiodo alla trave di Salvini

Ci sono diversi modi per reagire a una crisi e affrontare un problema che ha messo in ginocchio per una giornata intera i viaggiatori di un’intera nazione.

Si potrebbe, ad esempio, aprire una riflessione sincera sul sistema dei trasporti che è sempre a un  centimetro dal collasso, lasciando ai viaggiatori la sensazione che l’arrivo a destinazione sia dovuto più alla sorte che alla programmazione.

Si potrebbe, ad esempio, discutere del Pnrr che avrebbe dovuto rivoluzionare la nostra qualità della vita – treni inclusi – e invece da queste parti non se ne ha nemmeno la sensazione.

Si potrebbe discutere con coraggio delle strane priorità di un Paese che non riesce a garantire un viaggio sereno da Milano a Roma e intanto progetta un mastodontico ponte per accarezzare l’ego di un ministro che vorrebbe lasciare anche lui la sua piramide ai posteri.

Oppure, pensandoci bene, un ministro potrebbe esercitarsi nella virtù ormai scomparsa dell’assunzione delle proprie responsabilità, come accade per chiunque abbia un lavoro di ogni grado, in ogni mansione, in ogni ruolo. 

Il ministro dei Trasporti Matteo Salvini invece ieri ha sbuffato, era risentito perché ha dovuto abbandonare la sua palestrina dove sta festeggiando la festa dei nonni. Si è presentato davanti alle telecamere con quella faccia da ministro per caso e ha spiegato che il collasso ferroviario era dovuto a un chiodo. 

Il chiodo di Salvini è come il diario mangiato dal cane quando eravamo ragazzini. C’è una non trascurabile differenza: il ministro non se l’è presa con il cane ma con un poveraccio sotto pagato che ha offerto alla bava della piazza. 

Buon giovedì. 

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