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Com’è finita la vicenda di Salvini contro la giudice Apostolico – Lettera43

La magistrata che ha disapplicato il decreto sui migranti fu “pizzicata” dal Capitano in un video del 2018 durante una manifestazione per il caso Diciotti. Nordio, in seguito agli accertamenti, ha detto che lei non è accusabile di essere anti-governo. E che il leghista non ha violato profili di riservatezza. Quindi, dopo aver strillato sull’allarme democratico da entrambi i fronti, il nulla.

Com’è finita nel silenzio generale la vicenda di Salvini contro la giudice Apostolico

Un giorno qui intorno era tutto un parlare della giudice Iolanda Apostolico e del ministro Matteo Salvini. I fatti sono noti: a Catania la giudice Iolanda Apostolico ha disapplicato il decreto del governo Meloni che prevede il trattenimento dei richiedenti asilo nei Centro per il rimpatrio. Il verbo “disapplicare” non è stato usato per caso in quei giorni a cavallo tra settembre e ottobre perché insinuava l’idea di una ribellione contro la legge. Si potrebbe dire più semplicemente che la giudice Apostolico ha applicato gli articoli 3 e 10 della Costituzione (oltre alle convenzioni internazionali) accogliendo il ricorso di una persona migrante di origini tunisine sbarcata il 20 settembre a Lampedusa e portata nel nuovo centro di Pozzallo, aperto da pochi giorni nel Ragusano. Dalle parti del governo e dei partiti di maggioranza del centrodestra avevano descritto l’evento come «un grave attacco allo Stato». Se dovessimo pesare le parole dovremmo pensare a un golpe giudiziario, l’ennesimo atteggiamento «anti-maggioritario» come sussurrano nei corridoi di Palazzo Chigi ogni volta che si imbattono contro qualcuno (che sia giudice, giornalista o un professionista qualsiasi) che “non sta al suo posto”.

Fango ben oliato dalla Bestia social leghista contro Apostolico

L’opposizione politica gridò allo scandalo inverso. Salvini, com’è sua abitudine, aveva lanciato l’attacco contro la persona senza entrare nel merito della questione, rilanciando un video in cui la giudice Apostolico era presente alla manifestazione del 25 agosto 2018 al porto di Catania per il caso Diciotti. Il fango ben oliato dalla Bestia social del leader leghista (tutt’ora funzionante nonostante la decadenza del suo fedele ex collaboratore Luca Morisi) aveva travolto la giudice colpevole di seguire su Facebook le pagine di Open Arms (la Ong che ha portato Salvini a processo), di Potere al popolo, (sezione di Catania), movimento fondato dal centro sociale «Je so’ pazzo» di Napoli, poi la pagina di Democrazia e Autonomia, il partito fondato da Luigi De Magistris, e quella di Possibile, il partito fondato da Pippo Civati.

Com'è finita nel silenzio generale la vicenda di Salvini contro la giudice Apostolico
La giudice Apostolico col compagno.

Per gli elettori di centrodestra la giudice è solo l’ennesima toga rossa

Qualcuno parlò di una «schedatura» ipotizzando che il video della manifestazione al porto di Catania con la presenza della giudice fosse stato archiviato da servizi più o meno deviati che l’avrebbero messo a disposizione del ministro Salvini. Se dovessimo pesare le parole dovremmo pensare a un apparato parallelo da smascherare il prima possibile per mettere al sicuro la tenuta democratica del Paese. In entrambi i casi i cittadini dovrebbero avere vissuto mesi di infernale preoccupazione in attesa di un chiarimento. Del “caso Apostolico” non ne ha più scritto nessuno e non ne ha più parlato nessuno. Per gli elettori di centrodestra la giudice catanese è solo l’ennesima toga rossa che dovrebbe essere cacciata. Per gli elettori di centrosinistra Salvini è il solito ministro che utilizza canali non convenzionali per accedere a informazioni riservate utili a delegittimare coloro che considera avversari politici nonostante non siano politici.

Com'è finita nel silenzio generale la vicenda di Salvini contro la giudice Apostolico
La giudice Apostolico durante le manifestazioni del 2018.

Dagli accertamenti sui social non è emerso nulla contro la magistrata e il suo compagno

Ma com’è finita, in realtà? Replicando all’interrogazione del senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri il ministro alla Giustizia Carlo Nordio ha offerto le risposte. Nordio ha parlato degli accertamenti svolti dall’ispettorato generale nei confronti della magistrata Apostolico e del suo compagno Massimo Mingrino. Ha detto che sono stati scandagliati i social network, ma non si è trovato nulla che potesse far pensare a qualche atteggiamento contro il governo. Apostolico quindi non è colpevole delle accuse che le sono state rivolte.

Migranti, il ministero della Giustizia ha avviato l'accertamento preliminare per la giudice Iolanda Apostolico.
Carlo Nordio (Getty Images).

Salvini ha usato informazioni pubbliche senza violare profili di riservatezza

L’altro aspetto importante di quella risposta è che Nordio ha scagionato anche il suo collega di governo Salvini: il Guardasigilli ha scritto che gli accertamenti svolti, come emerso dalla nota estesa in data 20 ottobre 2023 dall’ispettorato generale, hanno consentito di acquisire materiale informatico dal quale emergeva l’esistenza di video e messaggi pubblicati sui social network; in data 17 ottobre 2023 veniva, quindi, conferito incarico a un assistente informatico (…) per la loro individuazione ed estrapolazione. A seguito di tale incarico, l’assistente informatico rimetteva (…) il materiale acquisito, precisando di avere potuto svolgere ricerche accedendo a informazioni di natura esclusivamente pubblica senza violare profili di riservatezza». Quindi: allarme democratico da entrambi i fronti, chiasso seguito da silenzio e disinteresse. Nessuna riflessione sugli esiti. Allarmi estemporanei che subito si spengono. Tutto questo parla della politica, più di Iolanda Apostolico.

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Crosetto e “i mandanti” del Giornale. Spunta il fuoco amico sul ministro

Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, alla fine ha capitolato e ha deciso di riferire in Aula alla Camera – lo farà il 19 dicembre – sulle sue incaute dichiarazioni sulla magistratura. Intanto ieri ha toccato con mano il senso per la stampa de Il Giornale e del suo direttore Alessandro Sallusti, innescando una polemica tutta interna al centrodestra che promette di finire in querela. Motivo del contendere è il titolo che il direttore del quotidiano milanese (che fu di Berlusconi e ora è del Gruppo Angelucci) ha riservato all’incontro di due giorni fa di Crosetto in Procura.

Il 19 dicembre il ministro della Difesa Crosetto tornerà a riferire alla Camera sulle sue dichiarazioni sulla magistratura

“Inchiesta su Crosetto”, strilla in prima pagina Il Giornale, titolando l’articolo di Luca Fazzo, lasciando intendere che il ministro sia vittima di un’indagine nei suoi confronti che – nella logica editoriale sallustiana – dovrebbe essere la dimostrazione dell’ennesimo complotto giudiziario nei confronti del governo. La realtà è molto più semplice. Il ministro della Difesa è entrato negli uffici della Procura di Roma in piazzale Clodio per incontrare il procuratore capo Francesco Lo Voi in seguito all’intervista di Crosetto al Corriere della Sera in cui il fondatore di FdI aveva parlato di un “grande pericolo” per la continuità del governo Meloni, costituito dall’ “opposizione giudiziaria di chi si sente fazione antagonista da sempre”, che “ha sempre affossato i governi di centrodestra”.

E poi aveva lanciato un’accusa circostanziata: “A me raccontano di riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a ‘fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni’. Siccome ne abbiamo visto fare di tutti i colori in passato, se conosco bene questo Paese mi aspetto che si apra presto questa stagione”. Pochi giorni dopo la sua intervista Crosetto aveva ridimensionato le sue parole parlando di un “tentativo di mistificazione” e di “interpretazioni malevole”. “Non ho detto che a me raccontano di incontri segreti, di cospirazioni“, ma di “alcuni interventi pubblici che io reputo gravissimi sulla questione giustizia”, aveva detto alla Camera rispondendo a un’interpellanza.

L’esponente di FdI querela il quotidiano degli Angelucci. Il direttore Sallusti: il nervosismo fa perdere lucidità

Alla Procura di Roma è stato aperto un fascicolo iscritto a modello 45, senza indagati e senza ipotesi di reato che è stato al centro dell’incontro tra il procuratore e il ministro. Ieri Crosetto ha parlato di “un incontro cordiale” con il procuratore sottolineando come “quasi tutti i giornali” hanno dato “una rappresentazione corretta”, “Il Giornale invece – ha detto il ministro – inventa di sana pianta un titolo gravemente diffamatorio, totalmente falso, costruito evidentemente con il solo intento di infangare. Un atto gravissimo per il quale ho dato immediatamente mandato di denunciare in ogni sede possibile”. E ancora: “Il titolo e l’articolo del Giornale rivelano invece la chiara volontà di mistificare la realtà e trasmettere un messaggio, lo ripeto, tanto diffamatorio quanto falso, inaccettabile. Non posso ora esimermi dal capirne la ratio e soprattutto i mandanti”.

A stretto giro è arrivata la risposta del direttore Sallusti che ha sottolineato come a Crosetto “il nervosismo faccia perdere la lucidità”. “Il titolo è una sintesi”, si è difeso Sallusti. Evidentemente il dono della sintesi di Sallusti per il ministro lascia ampiamente a desiderare. Sorride sardonico il deputato del Pd Arturo Scotto: “Il ministro parla di ‘mandanti’. E non si riferisce agli avversari politici. Ho l’impressione che si ballerà molto nei prossimi mesi dalle parti di Palazzo Chigi”, scrive su X. E in effetti sarebbe curioso capire a chi si riferisca Crosetto quando ipotizza un disegno del giornale ‘amico’ per screditarlo. Del resto “il centrodestra è compatto e unito”, aveva detto l’altro ieri Giorgia Meloni. A vederli da fuori non si direbbe.

 

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Autonomie e gabbie salariali. Le misure che spaccano l’Italia

Era il 26 gennaio di quest’anno quando il ministro all’Istruzione, Giuseppe Valditara, disse che “chi vive e lavora in una regione d’Italia in cui più alto è il costo della vita potrebbe guadagnare di più”, tornando all’idea di differenziare gli stipendi degli insegnanti su base regionale. Ripiombare negli anni Settanta con le gabbie salariali abolite dopo fortissime pressioni sindacali non sembra una buona idea. Secondo alcuni studi de lavoce.info la differenza salariale media tra il Nord e il Sud in Italia è del 4,2 per cento, mentre il costo della vita varia significativamente sul territorio e cresce all’aumentare, per esempio, della densità urbana, con differenze che arrivano anche a 30-40 punti percentuali.

In porto il blitz della Lega per gli stipendi differenziati. E la riforma Calderoli aumenterà il divario tra Nord e Sud

Legalizzare le differenze non era stata una buona idea negli anni ’60 e quasi tutti, a gennaio, furono d’accordo che non lo sarebbe stato nemmeno nel 2023. Il 3 maggio il ministro Valditara rispondendo ad alcune interrogazioni parlamentari spiegò di “non avere mai parlato di gabbie salariali”. La questione sembrava chiusa. E invece no. Le gabbie salariali invocate dalla Lega prima maniera, quella di Umberto Bossi, sono tornate in un velenoso ordine del giorno firmato dai leghisti Andrea Giaccone e Rossano Sasso alla guida di una schiera di colleghi. Non servono troppe interpretazioni per comprendere la proposta di “una base economica e giuridica uguale per tutti, cui aggiungere una quota variabile di reddito temporaneo correlato al luogo di attività”: per i proponenti “lo stipendio unico nazionale” potrebbe “comportare diseguaglianze sociali su base territoriale, creando discriminazioni di reddito effettivo”.

L’ordine del giorno è andato a segno, benedetto dal sottosegretario al Lavoro (il leghista Claudio Durigon) che l’ha considerato approvato dal governo evitando anche la discussione prima del voto. Marco Sarracino, deputato e responsabile Sud nella segreteria del Partito democratico, non ha dubbi: “La destra torna a sdoganare il principio delle gabbie salariali, perché con l’ordine del giorno presentato dalla Lega e approvato in piena notte, si punta esplicitamente a classificare i cittadini del Meridione e delle aree interne quali cittadini di serie B”. “Per la destra — spiega Sarracino — un medico, un infermiere, un insegnante del Sud deve guadagnare meno di un suo collega del Nord: è un colpo alla coesione e all’unità nazionale, che si aggiunge allo scellerato progetto di Autonomia differenziata, mentre già oggi lo Stato italiano investe per un cittadino del Nord circa 18mila euro l’anno, mentre per uno del Mezzogiorno circa 13mila”.

La deputata del M5S, Anna Laura Orrico, chiede se “i parlamentari meridionali e del centro di Fratelli d’Italia e di Forza Italia sono d’accordo con i loro alleati leghisti che vorrebbero introdurre le gabbie salariali per pagare di meno gli insegnanti del centro e del sud” mentre il sindaco di Firenze Dario Nardella parla di “scontro di diritti”. Il segretario generale della Cgil Sicilia, Alfio Mannino, ieri ha chiesto al presidente della Regione Renato Schifani se intende restare in silenzio, mentre Flc Cgil accusa Meloni e il governo di dare solo “risposte che dividono il Paese puntando a dividere anche i lavoratori” annunciando “lotta e mobilitazione”. L’ordine del giorno leghista, osserva qualcuno, non impegna il governo ma è solo un atto di indirizzo. È vero.

L’indirizzo del governo nei confronti del Sud però non ha bisogno di troppe conferme. L’abolizione del reddito di cittadinanza, il no al salario minimo e le modifiche del Pnrr sono scelte che danneggiano e danneggeranno soprattutto il Meridione. L’ultimo decreto Sud ha cancellato le otto Zes (Zone economiche speciali) esistenti per farne una unica. “Un modo per non farne nessuna”, osservavano nei giorni della discussione in Parlamento le opposizioni. Nel 2022 per gli sgravi in queste aree, in tutto otto da Napoli a Palermo, erano stati stanziati 1,6 miliardi di euro. Ora il governo ha allargato formalmente le Zes a tutto il Meridione, passando da 20 mila ettari di aree speciali a 10 milioni di ettari che ricomprendono tutte le aree dei Comuni.

Contemporaneamente ha accentrato le competenze in un’unica struttura al ministero di Raffaele Fitto, con sessanta tecnici dedicati per rilasciare le autorizzazioni. Un commissariamento del Sud da parte di Palazzo Chigi. “Per aprire un cinema, un centro sportivo, un negozio, e chiedere contestualmente il credito d’imposta, si dovrà presentare la domanda al ministero che secondo il’“dl Sud” avrà anche poteri derogativi ai limiti urbanistici e alla pianificazione paesaggistica di Comuni e Regioni: un potere discrezionale enorme”, spiegava a fine ottobre il deputato del Pd, Piero De Luca.

Cancellate le otto Zone economiche speciali. E Palazzo Chigi commissaria il Mezzogiorno

All’orizzonte si staglia il disegno di legge sull’Autonomia differenziata, cavallo di battaglia della Lega e del ministro per gli Affari regionali e per le Autonomie, Roberto Calderoli. A quel punto la sottrazione di ingenti risorse alla collettività nazionale e la disarticolazione di servizi e infrastrutture logistiche (come i trasporti, la distribuzione dell’energia, la sanità o l’istruzione), che per il loro ruolo nel funzionamento del sistema Paese dovrebbero avere necessariamente una struttura unitaria e a dimensione nazionale sarà legge. La sottrazione del gettito fiscale alla redistribuzione su tutti i territori potrà violare per legge il principio di solidarietà economica e sociale contenuto in Costituzione, andando a aumentare le disuguaglianze tra Nord e Sud, con un conseguente crollo sociale ed economico dei territori più svantaggiati che potrebbe mettere facilmente in crisi l’intera Italia.

A quel punto il disegno sarebbe completo. In Italia su due milioni di famiglie italiane povere, circa 775mila sono al Sud; inoltre, su 5,6 milioni di individui in condizioni di povertà, 2,3 milioni sono al Sud. In più, in misura percentuale rispetto al totale della popolazione, l’incidenza dei poveri al Sud è maggiore che al Nord, e al Mezzogiorno sono anche cresciuti nell’anno della pandemia: 9,4% nel 2020, contro l’8,6% nel 2019. Svimez sottolinea come la debolezza dei consumi degli individui sia causata da una dinamica salariale piatta (circa il 15% dei dipendenti al Sud è sottopagato, contro l’8,4% del Centro-Nord), oltre che da un tasso di disoccupazione alto e in crescita rispetto al periodo pre-Covid. A pensarci bene le gabbie salariali leghiste sono solo un tassello di un disegno più grande e più spaventoso.

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Salvini scappa ancora

Matteo Salvini, il capitano, scappa. Era già scappato dal processo con Carola Rackete  (Vedi foto). L’ha definita una sbruffoncella fuorilegge, complice dei trafficanti, una potenziale assassina, una criminale che ha provato ad ammazzare cinque militari italiani. «Sono tutte menzogne, tutte bugie. Ma Salvini di tutte queste falsità non risponderà mai, perché i suoi amici al Senato hanno bloccato la possibilità di procedere nei suoi confronti», commentò lo scrittore Roberto Saviano il primo luglio di quest’anno. 

Ieri Matteo Salvini è scappato anche da Roberto Saviano. Ieri non si è presentato all’udienza programmata in tribunale. Racconta Saviano: «Probabilmente è spaventato di dover rispondere in tribunale di ciò che ha detto e di tutte le minacce che ha fatto. La giustificazione è risibile, ha detto che aveva un collegamento online, dimenticandosi che online poteva collegarsi anche dal tribunale, poi ha aggiunto un pranzo di beneficienza che si allunga fino alla prima della Scala a Milano. Salvini è così, scappa». 

Matteo Salvini è così, non solo lui. Salvini confonde volutamente il suo ruolo e addita come nemici giornalisti, intellettuali e artisti fingendo di non sapere del dislivello. è lo stesso Salvini che ha martoriato Michela Murgia fino al suo ultimo secondo, è lo stesso Salvini che dà in pasto comuni cittadini alla schiera di suoi seguaci attraverso i suoi social. Matteo Salvini, il capitano, scappa perché sa che fuori dal suo ring (che per nostra disgrazia ha piantato dentro le nostre istituzioni) esiste la responsabilità delle proprie affermazioni. 

Buon venerdì. 

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Nuova figura barbina. Anche sulla pista da bob

La politica italiana e la sua credibilità sulle prossime Olimpiadi Milano-Cortina 2026 sono appese a una pista di bob. Dopo avere passato mesi a magnificare la pista che sarebbe stata, additando ogni dubbio come un maledetto uccello del malaugurio, lo scorso 16 ottobre il presidente del Coni Giovanni Malagò ha dovuto mestamente confessare al Comitato olimpico di tutto il mondo che realizzare l’impianto sul tracciato della vecchia pista Eugenio Monti a Cortina sarebbe costato almeno 150 milioni di euro, oltre ai danni ambientali denunciati da molti.

La politica italiana e la sua credibilità sulle prossime Olimpiadi Milano-Cortina 2026 sono appese a una pista di bob

Niente da fare, ha detto Malagò, certificando così la figuraccia della Società Infrastrutture Milano Cortina 2020 – 2026 e della Regione Veneto. A quel punto era chiaro che l’unica soluzione restava quella di spostare le gare in Austria e Svizzera, subappaltando un pezzo di olimpiadi all’estero per inettitudine organizzativa. Uno bello smacco per i sovranisti di casa nostra. Sarà per questo che il ministro alle Infrastrutture e leader della Lega Matteo Salvini qualche giorno fa nella “cabina di regia” riunita per decidere se e dove si farà la pista da bob, skeleton e slittino ha deciso di difendere ad oltranza la scelta già bocciata di Cortina, lasciando di stucco i presenti.

Pur di non scontentare il suo compagno di partito (e avversario interno) Luca Zaia, presidente del Veneto, Salvini si è detto pronto a riscrivere i progetti, ad andare contro alla volontà del Comitato italiano olimpico (Cio) e a trovare qualche ditta disposta ad assumersi l’onere. Se non ce la farà, come oggettivamente è probabile, a quel punto saremo in ritardo anche per valutare le piste disponibili all’estero. E la figura barbina sarà olimpica, appunto.

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Via della Seta, l’ultimo bacio di Meloni alla pantofola di Biden

L’Italia è uscita ufficialmente dalla Via della Seta con una nota consegnata a Pechino nei giorni scorsi. La notizia, anticipata dal Corriere della Sera, viene confermata all’Ansa da fonti informate. La mossa è stata preceduta da una missione in Cina del segretario generale della Farnesina Riccardo Guariglia in estate e a seguire dalla visita del ministro degli Esteri Antonio Tajani: incontri in cui è stata confermata l’intenzione di coltivare il partenariato strategico tra i due Paesi e in cui sono stati avviati fra gli altri i passi preparatori per la visita del capo dello Stato Sergio Mattarella l’anno prossimo in Cina.

L’Italia è uscita ufficialmente dalla Via della Seta con una nota consegnata a Pechino nei giorni scorsi

La cosiddetta Belt ad Road Initiative, lanciata da Xi Jinping nel 2013, è uno dei cardini del piano del Dragone per rafforzare la propria economia attraverso una rete di infrastrutture fra tre continenti che favorisca gli scambi. Il memorandum con l’Italia – unico Paese del G7 ad aderire – era stato firmato dal primo governo Conte nel 2019. L’esecutivo guidato da Giorgia Meloni doveva decidere se rinnovarlo o meno entro la fine del 2023. Per il ministro agli Esteri Tajani “la non partecipazione alla Via della Seta non significa che sia un’azione negativa nei confronti della Cina, significa poter continuare ad avere ottimi rapporti e lavorare intensamente sugli aspetti commerciali per rafforzare la nostra presenza sul mercato”. Ieri il ministro ha spiegato che “chi non è parte della via della Seta ha avuto risultati migliori” anticipando una prossima riunione intergovernativa Italia-Cina “per affrontare tutti i temi di commercio internazionale”.

Coro di critiche da Conte ad Alemanno: “Danno economico per migliaia di imprese italiane”

A definire la decisione “un autogol” è il leader del M5S Giuseppe Conte spiegando di avere lavorato “a un’intesa programmatica che non interessava nessun asset e infrastruttura strategica del nostro Paese”: “a pagarne lo scotto saranno semmai le imprese e le famiglie”, ha detto Conte. Per il quale l’Osservatorio economico della Farnesina parla chiaro: “Nei primi 9 mesi del 2023 l’export italiano in Cina ha registrato una crescita tendenziale del 25,1%, attestandosi quasi a 15 miliardi di euro”. Contesta la decisione anche Gianni Alemanno, segretario di Indipendenza, la sua nuova creatura politica: “È una follia il cui conto sarà pagato dalle piccole e medie imprese italiane, che non avranno più nessuna copertura politica per la loro attività con la Cina e verso la Cina”, spiega l’ex sindaco di Roma.

Chi invece plaude alla scelta è il leader di Azione Carlo Calenda che su X scrive: “Lo stop alla Via della Seta è una decisione sacrosanta. Avere buoni rapporti con la Cina e diventarne una pedina in Ue sono cose molto diverse”. Di “conferma del collocamento geopolitico dell’Italia che sta saldamente con l’Occidente e all’interno del sistema delle alleanze tradizionali”, parla anche il senatore della Lega Marco Dreosto, segretario dell’Ufficio di presidenza in commissione Esteri e Difesa di Palazzo Madama: “La Cina rimane un partner commerciale ma allo stesso tempo – dice Dreosto – era necessario respingere al mittente le mire geopolitiche di Pechino nei confronti del nostro Paese”. La Lega parla di “allineamento tra potenze autocratiche – Russia, Cina e Iran – che sfidano l’Occidente”.

L’Italia di Giorgia Meloni ancora una volta conferma il suo approccio unilaterale in campo internazionale

Palazzo Chigi non ritiene opportuno commentare. Qualcuno, come il senatore di Italia viva Ivan Scalfarotto, chiede almeno un confronto in Parlamento per “un accordo firmato in pompa magna sotto gli occhi del mondo viene cancellato in sordina, quasi di nascosto”. L’Italia di Giorgia Meloni ancora una volta conferma il suo approccio unilaterale in campo internazionale. Gli Usa sorridono, i suoi elettori, che l’avevano votata per tutt’altro, un po’ meno.

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Salvini visto da Sud

Lorenzo De Cicco racconta su Repubblica il blitz di ieri da parte di una schiera di deputati leghisti che torna alle cosiddette gabbie salariali per premiare i dipendenti pubblici che lavorano al Nord, spacchettando l’unità nazionale in un Paese a due marce più di quanto già lo sia.

Nel mezzo della convulsa giornata parlamentare che ieri ha definitamente affossato il salario minimo l’ordine del giorno approvato impegna il governo a «valutare l’opportunità di prevedere con apposito provvedimento un intervento sulla contrattazione del pubblico impiego». L’odg della Lega auspica «per alcuni settori, come ad esempio nel mondo della scuola, un’evoluzione della contrattazione», proponendo «una base economica e giuridica uguale per tutti, cui aggiungere una quota variabile di reddito temporaneo correlato al luogo di attività». Questo perché «lo stipendio unico nazionale», si legge, potrebbe «comportare diseguaglianze sociali su base territoriale, creando discriminazioni di reddito effettivo».

L’idea di legalizzare le disuguaglianze in nome dell’uguaglianza è un paradosso così bieco che perfino il ministro all’Istruzione Valditara ha dovuto, tempo fa, innescare la retromarcia chiedendo scusa a tutti. In fondo basta allungare un ordine del giorno nell’agitazione di una seduta parlamentare per insinuare lo stesso concetto senza bisogno di affrontare l’opinione pubblica e la stampa. 

Gli Odg in Parlamento, lo sappiamo bene, non sono vincolanti. Continuo però a chiedermi cosa altro serva agli abitanti del sud Italia per avere coscienza della natura anti-meridionali della politica di Matteo Salvini, al di là delle felpe. E mi rimane il mistero. 

Buon giovedì. 

Nella foto: Matteo Salvini (governo.it)

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Ultima Voce recensisce I Mangiafemmine

[@Ultima Voce recensisce #IMangiafemmine]

Nella penombra di un mondo distorto, dove la realtà s’incaglia con la fantasia più buia, Giulio Cavalli conduce il lettore nel labirinto di DF. L’oscurità di questo paese diviene uno specchio rovesciato della società, un riflesso che svela gli abissi dell’animo umano.

Un’epopea cruda e inquietante si dipana tra le pagine di “I mangiafemmine”, tessendo una trama tanto attuale quanto disturbante.

Attraverso il libro “I mangiafemmine”, pubblicato da Fandango Libri, Giulio Cavalli ci trascina nuovamente nel cupo territorio di DF, un luogo che si erge come un sinistro specchio della società attuale, un posto in cui molti preferirebbero non affacciarsi mai. Questo romanzo, crudo e incisivo, si rivela un’opera imprescindibile per coloro che si appassionano alla narrativa distopica e sono alla ricerca di storie in grado di stimolare profonde riflessioni. È la conclusione della trilogia di DF, che aveva preso il via con i titoli “Carnaio” e “Nuovissimo Testamento“.

L’autore, firma forse il suo lavoro più radicale e provocatorio, abbracciando uno stile narrativo riconoscibile, senza timore nel dipingere un mondo già esistente.

Esaminando attentamente la nuova opera di Cavalli, emerge in modo spaventoso il parallelo tra la distopia che l’autore dipinge e la realtà che ci circonda, una realtà che, però, spesso fatichiamo ad ammettere. All’interno di questa storia si presentano figure politiche inventate, contrassegnate da simboli partitici generici, ma che non nascondono affatto le tendenze, le ipocrisie e la corruzione diffuse nella classe politica, non soltanto in Italia ma anche al di là dei confini nazionali.

DF diviene lo specchio deforme di una società in cui affiora un’epidemia di violenza contro le donne, un’epidemia ignorata da una classe politica in piena campagna elettorale. Donne uccise, smembrate dai propri compagni, mentre il candidato premier, Valerio Corti, trascura il problema, ritenendo le vittime come “normali” e non degne di considerazione.

Il romanzo di Cavalli riflette, in modo pauroso, il paradosso di una distopia che trova riscontro nella nostra realtà, con politici fittizi ma facilmente riconducibili alla corruzione diffusa, alle ipocrisie e alle posizioni vuote della politica contemporanea.

L’autore dipinge scene televisive e scontri verbali fra rappresentanti politici che imbarazzano l’intero sistema, distogliendo l’attenzione dai problemi reali. Corti stesso, in una disastrosa intervista, rivela il suo disprezzo verso le donne, negando qualsiasi responsabilità sociale nel caso di violenza su Frida, vittima di un omicidio perpetrato dal compagno.

Ma non è solo nella finzione di Cavalli che si annida il sessismo: la realtà, purtroppo, riflette tali atteggiamenti. Uomini violenti, incapaci di accettare il rifiuto, usurpano il corpo delle donne come oggetto di piacere e possesso. Cavalli, con uno stile chirurgico e freddo, sottolinea questo orrore, spingendo il lettore nell’abisso della misoginia dilagante.

Il romanzo si fa voce di una verità scomoda: il problema non sono solo gli uomini violenti, ma anche coloro che temono di diventarlo, evidenziando la fragilità di una società intrisa di patriarcato.

Le parole di Clementina Merlin, nel romanzo giornalista e attivista, rappresentano la cruda essenza del patriarcato, sottolineando la necessità di una rivoluzione culturale per rompere questo circolo vizioso di violenza e colpa auto-inflitta dalle vittime.

“I mangiafemmine” è un libro claustrofobico, una lettura che stringe lo stomaco e afferra l’attenzione, portando l’angoscia del lettore a livelli estremi. Cavalli adotta uno stile ruvido e crudo, sconvolgente ma necessario per far emergere la drammatica attualità del tema trattato.

Il romanzo è uno spaventoso specchio della nostra realtà, una lettura urgente per tutti coloro che cercano di comprendere e combattere questa epidemia di violenza che ancora affligge la nostra società.

https://www.ultimavoce.it/lo-specchio-distopico-di-giulio-cavalli-e-la-cruda-verita-di-i-mangiafemmine/?fbclid=IwAR1f3KVxeKWefAHHQgE-bkX6B0I4dDMa8tOvT33AxpWWqtY9Q7GDGuiCUto

Sanità, premierato, magistratura… Tutte le balle di Meloni in 30 minuti

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ieri ha rilasciato un’intervista alla trasmissione radiofonica No stop news su Rtl 102.5 in cui ha affrontato i temi politici più scottanti degli ultimi mesi, dalla riforma costituzionale al salario minimo. Abituata a conferenze stampa senza stampa o a più agevoli lettere ai giornali, ieri Meloni ha citato dati che Carlo Canepa per Pagella politica ha verificato.

Intervista a tutto campo alla premier Giorgia Meloni su Rtl 102.5. Dalle riforme alla spesa sanitaria non ne dice una giusta

Sul salario minimo, ad esempio, la presidente del Consiglio ha utilizzato un refrain molto in voga tra coloro che osteggiano la misura: “Per paradosso – ha detto Meloni – il Salario minimo rischia di abbassare il salario di molta gente che oggi si trova con un salario superiore”. Una delle fonti più autorevoli e citate sull’impatto del Salario minimo è il rapporto realizzato nel 2019 per il governo britannico dall’economista Arindrajit Dube, professore di Economia alla University of Massachusetts Amherst, tra i massimi esperti al mondo di Salario minimo.

Studi alla mano, Dube spiega che non ci sono dubbi sul fatto che il salario minimo aumenti le retribuzioni dei lavoratori con paghe sotto il suo livello. Nella letteratura scientifica a oggi non ci sono evidenze – come scrive Pagella politica – che il salario minimo porti a un generale aumento dei salari anche tra i lavoratori non interessati direttamente dalla misura, o a un loro abbassamento. È fuorviante anche la frase con cui Meloni accusa sul salario minimo Pd e M5S (“oggi Movimento 5 Stelle, Pd ci dicono che il salario minimo è l’unica vera cosa che va fatta in Italia. In dieci anni che sono stati al governo non gli è mai venuta in mente di farla”): il M5S è stato al governo non dieci ma quattro anni (2018/22) tra l’altro con tre governi diversi mentre negli ultimi dieci anni il Pd è stato invece al governo da aprile 2013 a giugno 2018. Il primo e il secondo governo Conte avevano tra gli obiettivi di governo l’introduzione del Salario minimo.

Pagella Politica fa le pulci alla Meloni. Smontate pure le accuse alle opposizioni sul Salario minimo

È una falsità già sentita anche quella sulla riforma del premierato. Meloni dice: “Con la riforma del premierato noi non abbiamo toccato i poteri del Presidente della Repubblica”. Come sottolinea Canepa se la riforma fosse approvata così come è stata proposta dal governo (il percorso di approvazione è ancora lungo e potrà prevedere un referendum), il capo dello Stato non nominerà più il presidente del Consiglio, non avrà la possibilità di sciogliere una sola delle camere, non potrà incaricare un tecnico di formare un nuovo governo e non potrà più nominare i senatori a vita.

Fumo anche sui soldi alla sanità. “Sulla sanità abbiamo fatto un aumento del fondo sanitario, che lo porta al massimo storico, mai visto prima”, dice Giorgia Meloni. La presidente del Consiglio però sa benissimo che gli stanziamenti di fondi per il Ssn raggiungeranno il valore in assoluto più alto mai toccato, ma altri governi hanno stanziato più risorse anno su anno sulla sanità e, se si tiene conto del forte aumento dell’inflazione, buona parte delle nuove risorse servirà a compensare l’aumento generale dei prezzi. Infine, se si considera il dato in percentuale al Pil, il livello della spesa sanitaria non sarà il più alto di sempre, ma tornerà sui livelli precedenti alla pandemia di Covid-19.

Lo sciopero dei medici e degli infermieri di tre giorni fa dimostra plasticamente come i numeri assoluti siano semplicemente uno specchietto per le allodole. Infine falso e grave è che Meloni parli di “una piccola, piccolissima parte anche se rumorosa della magistratura che per ragioni ideologiche ritiene di dover fare altro rispetto al suo ruolo, disapplicando provvedimenti del governo”: la disapplicazione delle leggi del governo è dovuta alla loro inapplicabilità, non ai giudici.

 

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