«Non accettavo che lei non fosse più mia». Altro che i biscotti, altro che il padre in tivù per lamentarsi che suo figlio venga diffamato perché indicato come assassino reo confesso com’è, altro che le lacrime, altro che gli articoli per sapere che libri vorrebbe in cella, altro che i rabdomanti di sangue sui marciapiedi, altro che la piscomagia del raptus: se c’è una frase su cui dibattere dell’interrogatorio di Filippo Turetta che ha ammazzato Giulia Cecchettin è questa: «non accettavo che lei non fosse più mia»
«Mia» come lo sono le cose che teniamo nel cassetto porta oggetti dell’auto. «Mia» perché possesso. «Mia» perché l’autonomia delle donne è un tradimento all’atavico patto che le donne debbano stare al loro posto, che spesso non è loro ma di qualche uomo che glielo concede.
Quali siano gli strascichi giudiziari del processo sul femminicidio di Giulia Cecchettin, a quanto ammonterà la condanna e che forma avrà la strategia difensiva è una piega della vicenda che ha poco a che vedere con quello che dovrebbe interessarci sui femminicidi come danni collaterali del patriarcato legittimato.
La discussione politica (già sopita come accade agli emendamenti di una legge di Bilancio) e la discussione culturale (egemonia di maschi impauriti) dovrebbe convergere su quel «mia» esalato dalla bocca di quasi tutti i femminicidi. Ma è una riflessione che non accadrà perché smentisce le radici delle scemenze ascoltate in queste settimane. Ogni femminicidio è premeditato perché sedimentato da una cultura che opprime e sopprime anche quando non uccide. Altro che biscotti.
Una “giullarata politica” che arriva dal futuro. Venticinque aprile 2045: un decreto legislativo obbliga tutti i cittadini, i partiti e le associazioni a rispettare la Costituzione. «In ufficio, nei bar, in casa, sul marciapiede, ovunque», dice Giulio Cavalli in apertura della prova generale di “Odio gli indifferenti – Che Paese saremmo se si rispettasse la Costituzione”, in scena venerdì sera nello spazio del teatrino San Rocco a Lodi grazie alla collaborazione del BarZaghi, il locale dell’omonima piazza che ha organizzato l’evento. Erano anni che l’attore, scrittore e giornalista non si esibiva nella sua città, a causa di vecchi “dissapori” che si sono come dissolti nell’abbraccio del pubblico, numeroso ed entusiasta. Il testo, seppure “in fieri”, è stato accolto da applausi convinti: Cavalli ha scritto un’opera geniale, divertente, a tratti commovente e pure ferocemente provocatoria. E la presenza sul palco di Luigi De Magistris, ex magistrato ed ex sindaco di Napoli, ha garantito ulteriore autorevolezza a un testo sì di fantasia ma che affonda le proprie radici nella realtà, tra gli articoli della legge fondamentale del nostro Stato. Una “carta” a lungo offesa, tradita, pugnalata. «La Costituzione non è un libro da tenere in biblioteca, ma il battito cardiaco di una democrazia», afferma De Magistris: per questo «devono essere processati tutti i traditori, perché fino al 2045 (l a data in cui è ambientata la “giullarata” , ndr) sono stati processati quelli che l’hanno rispettata». Nell’Italia che saremmo se si rispettasse la Costituzione, i poveri, gli immigrati, i diversamente abili e gli sconfitti improvvisamente si sveglierebbero con una dignità che non avrebbero mai potuto nemmeno sognare. E chi vive di rendita perché è “figlio di…” non scamperebbe all’arresto: perché l’Articolo 1, “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, entrerebbe finalmente in vigore, e soprattutto verrebbe applicato anche l’Articolo 4: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Una società in cui, nel 2045, «sarebbe tutelato il principio di uguaglianza, il principio fondamentale della Costituzione» e in cui, ironizza Cavalli, «nelle carceri finirebbero soprattutto ricchi, istruiti e con la pelle bianca, e non il 90 per cento di poveri con bassa scolarizzazione, come succede oggi». Dal 12 al 21 gennaio lo spettacolo andrà in scena al Teatro della Cooperativa di Milano: per continuare a combattere l’indifferenza (o peggio: la complicità e la connivenza) e non smettere di sognare un Paese più giusto.
“Lui era un brav’uomo e rimane un brav’uomo al di là di quello che ha fatto, se l’ha fatto”, spiegherà il portiere non mancando di ripetere a tutti come Tullio Ravasi fosse dedito al lavoro: “Lavoro lavoro lavoro, solo quello, fino a tardi, dalla mattina prestissimo, e quando torna a casa si ritrova quel muso buio di una moglie ingrata, eternamente insoddisfatta”. Al radio giornale pure la madre di lei a mezza bocca dovrà ammettere che ce ne vuole per esaurire la pazienza del marito di sua figlia. “Come può un uomo che lavora tutto il giorno per garantire l’inedia della sua signora non esplodere?”, chiederà un passante senza nome e cognome da scrivere nel sottopancia del servizio televisivo. (p. 28)
La moglie “ingrata”, Frida, è stata uccisa dal tanto paziente marito che da molto tempo ormai, non le dedicava alcuna attenzione, rincasava tardi, stanco, così lui riferiva, ma nessuno sapeva che Tullio abusava nel suo ufficio, ma anche altrove, delle stagiste che avevano bisogno di lavorare e stavolta la nuova ragazza aveva avuto il coraggio di denunciare tutto. Il pericolo dello scandalo e le conseguenze legali del suo comportamento lo avevano incattivito e capro espiatorio di tanta tensione era stata sua moglie che già da tempo si era confidata con la madre, manifestando preoccupazione:
«No, mamma, non posso stare sempre zitta. […] Questa volta è diverso. Tullio non è stanco, è diventato cattivo. Ieri sera è tornato a casa, puzzava di alcol, la camicia increspata e i capelli schiacciati. […] Te lo giuro, mi guardava con odio. Odio». (p. 22)
Frida, Sonia, Clara e altre donne sono state uccise dai loro compagni, ossia dalla persone cui un giorno avevano deciso di affidare la propria vita. È la cronaca nera che dà in pasto al sensazionalismo dei media storie e retroscena di violenze, stupri e femminicidi. Nella nazione di DF, quello stato immaginario che abbiamo già visto nei romanzi Carnaio e Nuovissimo testamento, Giulio Cavalli osa provocare per l’ennesima volta, e forse anche di più rispetto ai precedenti libri della trilogia, creando una situazione paradossale: il femminicidio è ammesso dalla legge. È legale uccidere donne. A DF il femminicidio è parificato all’attività venatoria: l’uomo, il cacciatore per eccellenza, va a caccia di donne e le uccide, allo scopo di combattere l’esuberanza numerica della popolazione di sesso femminile. Quello che conta è rispettare le normali regole igieniche, seguire le istruzioni dettate dal ministero evitando di uccidere la donna in presenza di minori che possano assistere allo spettacolo di caccia. Questa è l’unica “delicatezza” concessa, per il resto l’utilizzo o meno di brutalità, l’abuso sessuale prima o dopo la caccia non è neppure tenuto in considerazione dalla normativa. L’oggettificazione della donna raggiunge allora il culmine: non solo il suo consenso non è richiesto in nessuna occasione, ma è qualcosa di cui disfarsene quando diventa molesta. È come dire che il bene-donna, nel libero mercato della nazione di DF, è un surplus di cui non se ne fa nulla, non è parificato alla persona, ma alla selvaggina ed è necessario disfarsene seguendo regole di smaltimento ben precise: eliminare donne per rispettare l’equilibrio sociale e demografico di DF.
Decreto Legge n. 55/4231 Misure straordinarie per la regolamentazione temporanea dell’attività venatoria speciale/straordinaria del femminicidio
IL PRESIDENTEVisti gli articoli 77 e 87 della Costituzione, […] Decreta:Articolo 1 – FinalitàIl presente Decreto Legge stabilisce misure straordinarie per la regolamentazione della caccia al fine di preservare l’ordine pubblico e i principi etico-sociali, nel rispetto delle nome igienico-sanitarie.
Articolo 2 – autorizzazione all’attività venatoria specialeè consentita la pratica venatoria volta all’equilibrio dei generi, secondo i protocolli e le modalità stabilite nel presente Decreto Legge. L’autorizzazione alla caccia è subordinata al possesso di una licenza rilasciata dalle autorità competenti, previo superamento di un esame attestante la conoscenza delle norme igienico-sanitarie e delle regole di sicurezza. (p. 123)
Leggendo il nuovo romanzo di Cavalli, ci si rende conto paurosamente di quanto il paradosso, o se si vuole, la distopia che lui costruisce sia lo specchio fedele della realtà in cui viviamo, ma di cui fatichiamo a renderci conto. Nella storia vi sono personaggi politici inventati, con sigle politiche generiche, ma dietro cui non si fatica certo a trovare le posizioni, le ipocrisie e la corruzione della classe politica, italiana e non solo. Ospitate televisive in occasione delle elezioni, scontri verbali fra esponenti di forze avversarie da cui partono a razzo parolacce o ingiurie che mettono in imbarazzo l’intero partito e a cui bisogna entro il giorno dopo porre rimedio tramite social, magari con un post. È la politica che salva le apparenze, partecipa ai diversi programmi televisivi per parlare del niente e creare discorsi che mirano a infangare il partito nemico, contando sul power dressing (leggi: l’abito fa il monaco) e distogliendo l’attenzione dai problemi reali. È proprio il caso di Valerio Corti, che, partecipando a una intervista televisiva, è convinto di farcela e di fare del suo partito quello vincitore nel parlamento di DF, ma nel confronto verbale con Clementina Merlin, direttrice del giornale DF unita ed esponente del partito opposto, quello dei democratici, commette una serie di gaffe e si fa scappare di bocca commenti ingiuriosi sulla donna che gli aveva chiesto semplicemente come mai nel suo programma politico non fossero state previste misure per arginare i casi di violenza sulle donne, alla luce anche del recente omicidio di Frida per mano del suo compagno: “Come le fa brutte le donne, l’isteria”, disse allora ammiccando storto verso la telecamera. […] Dismette la postura da damerino.“Guardi Clementina…”“Merlin”, lei lo interrompe.“Signorina”, dice Corti, “non vorrei sbagliarmi, poiché le indagini sono ancora in corso, ma questa Frida non era propriamente un’eroina. Quel che sappiamo, lo può leggere sui giornali, è che questa Frida, pace all’anima sua, ha potuto comodamente dedicarsi al solo mestiere di moglie, senza doversi alzare per andare a fare un lavoro normale. E il suo dovere non lo ha esercitato molto bene se il povero marito è stato trascinato dall’ esasperazione fino a compiere un gesto inimmaginabile a detta di chiunque lo abbia conosciuto. […] (pp. 46-48) Discorsi maschilisti, frasi e commenti sessisti però non si leggono, ahimè, solo nei libri distopici! E Frida, come si è già detto all’inizio, in questo romanzo non è l’unica vittima di uomini violenti. Uomini che non sanno accettare un no, che non si capacitano della fine di una storia, uomini che chiedono a una donna di licenziarsi dal proprio lavoro e di dipendere solo dal maschio, uomini che approfittano dell’occasione e diventano ladri di corpi di donne, usandoli a proprio piacimento per poi disfarsene, uomini che continuano a pensare che la donna sia “roba” loro, uomini che temono la donna forte. Uomini mangiafemmine, appunto. Un romanzo davvero provocatorio, forte, dissacrante, scritto da un artista libero, che non ha paura di esporsi, che sa dominare le pagine con uno stile davvero interessante, fluido e chirurgico insieme, volutamente freddo a volte, laddove il freddo serve per agghiacciare le coscienze. Il problema non sono solo gli uomini che uccidono o che stuprano, il problema sono anche gli uomini che non uccidono e non stuprano ma hanno il terrore di avere prima o poi il bisogno di farlo. Nella loro testa è sempre la reazione sbagliata a una rabbia giusta. E se non delegittimiamo quella rabbia, la nostra salvezza dipenderà sempre dal buon cuore del nostro nemico. (p. 151) Voglio chiudere la mia recensione con questa citazione, che è uno stralcio del discorso di Clementina Merlin, nel romanzo democratica e giornalista attivista per i diritti delle donne, perché trovo che sia emblematica, in quanto in essa è condensata l’essenza del patriarcato, che, ci piaccia o meno ammetterlo, ha profonde radici nella nostra tanto evoluta cultura. Tra le righe si legge infatti: «io, uomo, posso aver bisogno di farti del male, ucciderti anche, se mi dai motivo di farlo». La donna vittima di violenza – lo dicono i dati – si colpevolizza, si sente causa del suo male, prova verso sé stessa disgusto e vergogna e questo circolo vizioso che si crea è alimentato proprio dal maschilismo che continua a considerare la donna un essere inferiore e più debole bisognoso di essere guidato, mero oggetto di soddisfazione sessuale. Questo retaggio medievale, duro da combattere, ha dato sfogo alla frustrazione dell’uomo che in età recente ha visto diventare la donna sempre più libera, sempre più indipendente. La violenza è la punizione per aver osato emanciparsi. Per cominciare a fare davvero qualcosa di concreto, non bastano leggi e decreti, c’è bisogno di una rivoluzione culturale, di un nuovo paradigma su cui impostare una nuova visione del mondo veramente inclusiva e paritaria.
Nel primo Consiglio dei ministri che convocherò entro la fine della prossima settimana interverremo con un decreto», dice la presidente Marzia Rizzo testa sul microfono come un abbeverarsi, «legalizzando il femminicidio e chiudendo una volta per tutte questa piaga infestante che ha assalito il dibattito pubblico. Il popolo ha espresso la sua volontà, ci affida la responsabilità di occuparci di cose ben più serie per la prosperità dei cittadini di DF».
«Legalizzare il femminicidio?». Nella sede dei Democratici, uffici usurati e odore di mensa, la conferenza stampa della presidente Marzia Rizzo è seguita nel salone principale da una televisione larga e pesante ormai fuori produzione. «Legalizzare il femminicidio è impossibile, ha preso un abbaglio, avrà voluto dire normare e le è scappata la mano», dice un senatore che anche questa volta è riuscito a rientrare in Parlamento, per 110 fortuna, visti i debiti ancora da pagare.
Il segretario dei Democratici assiste alla trasmissione su una sedia di magazzino, i gomiti sulle ginocchia, una campagna elettorale appena persa che non ha lasciato segni. Alla brocca del caffè Mario Spini, un vecchio comunista che ancora legge libri, lamenta un «periodo nero, nerissimo, per cui non siamo pronti, per cui non siamo attrezzati», e gli altri che gli dicono di smetterla, di accontentarsi, che ha guadagnato un altro giro di giostra alla sua età e non ha ancora imparato a fare un caffè. In fondo alla stanza si consigliano di non evidenziare l’errore, non è questa l’opposizione che gli elettori si aspettano, non è una parola sbagliata a fare perdere il consenso a questi che sono una corazzata. Dall’osservatorio del sentimento sui social dicono che quella frase sostanzialmente è passata inosservata. «Alle femministe gliela farà pagare. Questo lo possiamo dare per certo.
Il suo elettorato glielo chiede ma soprattutto glielo chiede Corti che non sopporta l’idea di essere stato fatto fuori su un tema che per lui non dovrebbe nemmeno esistere», Filippo Sansa è il segretario particolare del segretario, quando dice qualcosa i parlamentari gli prestano attenzione perché conoscono i passaggi di idee all’interno del partito: Sansa propone, il segretario talvolta si limita a smussare ma l’azione finale ricalca la proposta. Il segretario ombra lo chiamano quelli della minoranza interna che vorrebbero scalzare il segretario da anni ma ogni volta ne escono sconfitti. «Ai cittadini di DF interessa l’economia. Vedo che continuate a non capirlo. Non interessano le battaglie ideologiche sui principi. Non interessa l’azione residuale di chi radicalizza lo scontro ma non propone soluzioni», dice Luigi Barattini, l’economista per tutti, professore universitario in una scuola senza iscritti ma membro nei direttivi di una dozzina di fondazioni. «Sì Luigi», gli risponde Sansa, «posso anche essere d’accordo con te ma Valerio Corti non ha perso la poltrona da presidente per una previsione errata sull’inflazione».
Sbuffa, Sansa. Lo scontro nel partito tra chi ritiene gli elettori selvatici sottosviluppati da non inseguire nei loro pruriti e chi, come lui, chiede di intercettare anche i desideri, oltre ai bisogni, è una litania quotidiana. Filippo Sansa non lo vuole nemmeno fare quel lavoro, non sopporta ricoprire quel ruolo. Filippo Sansa ha la natura del funzionario di partito, ama smistare le elaborazioni dei gruppi di lavoro, allertare gli esperti sui progetti di legge, coordinare i gruppi locali e nazionali, tirare le somme degli incassi nelle feste e negli eventi.
Pragmatico, dicono di lui. Il segretario del partito lo vuole con sé perché «il Sansa vede le cose come le vede la nostra gente, è la cinghia di distribuzione tra dirigenti e popolo». «Nei nostri circoli ci si chiede perché non siamo capaci di esprimere una donna come segretario», affonda Sansa. Qui il segretario solleva i gomiti e si pone eretto. «In che senso?», gli chiede, e Sansa spiega che tra gli iscritti al partito galleggia un’evidente delusione per l’intuizione di candidare a presidente di DF una donna, dice Sansa che gli iscritti gli chiedono perché «non siamo arrivati prima noi». «Le iscritte, immagino», interviene il deputato Torlisi.
«Gli iscritti, anche gli iscritti maschi», puntualizza Sansa. «Me li vedo i nostri iscritti Democratici che non dormono la notte perché non abbiamo una donna come segretaria, interessati più al sesso che alle qualità della guida della nostra comunità. A me pare che qui si stia perdendo la bussola. Se domani lanciamo una campagna in difesa degli uccelli dobbiamo proporre un’upupa come ministra all’Ambiente?», chiede Barattini mentre smammola sul telefonino sudato. «Io dico la mia», dice Sansa che ha voglia di troncare la discussione, in sottofondo s’ode Marzia Rizzo rispondere sulle iniziative per richiudere il buco dell’ozono.
«I nostri hanno bisogno di essere scaldati con battaglie identitarie. E infatti in questa campagna elettorale si sono mossi poco, svogliati e male», dice Sansa. Il segretario dei democratici ora è in piedi. «Andare alla guerra contro un governo che non si è ancora insediato accusando una donna di essere nemica delle donne sarebbe un gesto di poco rispetto istituzionale, basato su un pregiudizio. La Rizzo ha anche una figlia femmina. Faremo solo la figura dei fessi, ancora una volta». La discussione è chiusa, forse.
Guardando la conferenza stampa, Clementina si riempie di collera. «Legalizzare il femminicidio?», Clementina Merlin chiama immediatamente la redazione. «Questa è la notizia da mettere in prima», dice trafelata al suo caporedattore. «Non lo so, ora vediamo, non ne sta parlando nessuno, nemmeno i Democratici rispondono, rischiamo di montare un caso inesistente». «Inesistente? Ma cosa serve di più, che vengano a manganellarci in casa? Ma perché siete così cretini?». «Clementina, al solito esageri e io non ho tempo da perdere, devo chiudere il giornale». La stimano in redazione. Però «quando vuole sa essere davvero insolente», dicono. Lei ora vorrebbe poter parlare per l’ultima volta con suo padre, chiedergli un consiglio. «Legalizzare il femminicidio?».
Quando Marzia Rizzo pronuncia la frase, Beatrice Vagnati sta bruciando nel boschetto dietro alla stazione di Saranda. Aveva sedici anni fino a un minuto fa. Ora ha milioni di anni come la cenere che si appoggia. Era contenta di Mario, più grande, con la patente. A volte le faceva il piacere di accompagnare al supermercato anche le sue amiche, in classe con lei. Passavano a prenderle, come gli adulti, lei scendeva per alzare il sedile e spedirle dietro perché il sedile davanti, di fianco a Mario, quello delle mogli, era roba sua. L’ha conosciuto alla festa della scuola, lui era fidanzato con una all’ultimo anno. Ma era una puttana, diceva, perché lo tradiva in continuazione. A Beatrice ha fatto tenerezza, così ferito e bistrattato, nonostante il taglio sul sopracciglio destro.
Oggi uscivano per festeggiare un anno di fidanzamento, Mario si è arrabbiato per un messaggio nel telefono di Beatrice, un compagno di classe che la salutava con baci. «Che cazzo bacia? Che vuol dire Bea?», le ha chiesto. «Baci, si dice baci mica perché si bacia, si dice baci come si dice ciao», ma lui no, lui sapeva che semplicemente gli era scappato perché si baciano davvero. «Pensi che sia stupido? Pensi di prendermi per il culo?». A lei veniva da ridere ma non rideva per non farlo arrabbiare di più, lo baciava a baci piccoli sulla bocca come i pappagalli mangiano i biscotti, lui l’ha spinta sul sedile con una manata sulla faccia. «Ma sei scemo?».
«Chi cazzo è questo? Chi cazzo è?», diceva mentre le stringeva le mani sul collo, urlandole come poteva fargli questo, anche lei come tutte le altre, «Ma allora siete tutte puttane», e ripeteva rispondi!, le diceva rispondi!, ma lei non respirava più. Terrorizzato, non voleva. Non se n’è nemmeno accorto. La solleva, non ci riesce, la trascina in uno spiazzo, ha una tanica di benzina per il decespugliatore. Gli rimane l’odore dei capelli bruciati, sembra plastica.
Quando i giornalisti chiedono a Valerio Corti cosa ne pensi dell’ennesimo femminicidio lui risponde che, se è un femminicidio anche un litigio tra ragazzini, allora vale tutto. «Ancora con questa storia? Non preoccupatevi, ora la sistemiamo». Saluta. Ora che è al governo la scorta ha un’auto nuova, più veloce e più elegante.
No, l’Italia non ha cambiato passo e non ha una faccia nuova. La propaganda con cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni condisce ogni sua dichiarazione è stata smentita ieri dall’ultimo rapporto Censis che sovverte di fatto la rappresentazione del Paese che si legge sulla stampa e che sta nei discorsi in Parlamento della maggioranza. Nonostante Renato Brunetta, ora presidente del Cnel, dica di voler vedere “il bicchiere mezzo pieno” e di vedere “un Paese più forte e coeso” i numeri non mentono.
La fotografia del Censis
Il 57esimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2023 fotografa un’Italia dalle mille meraviglie, se ammirato dall’alto delle lussuose terrazze cittadine o degli strapiombi sul mare, ma invischiato in tutte le sue arretratezze, se vissuto dal basso. Il Rapporto mette in evidenza le difficoltà di un’Italia dove prevale quello che viene definito “l’arrangiamento istintivo” rispetto a un “disegno razionale”, dove ormai quel “meccanismo di promozione e mobilità sociale si è usurato”.
In poche parole, sostiene il Censis, “tra vitalità disperse e un confronto pubblico giocato su emozioni di brevissima durata, la società italiana trascina i piedi”. Dal Report emerge una società che non riesce ad avviare un nuovo ciclo e che cerca di sostituire “il modello di sviluppo costruito a partire dagli anni ‘60 nel quale si rivendicava il lasciar fare” o “il riconoscimento delle identità e dei diritti collettivi” con un nuovo modello “confuso”. Quale? Il Censis sostiene che oggi si punta più al “lasciar essere, l’autonoma possibilità – specie per le giovani generazioni – di interpretare lavoro, investimenti, coesione sociale, senza vincoli collettivi”.
Declino e fobie
Per l’80% degli italiani l’Italia è un Paese “in declino”, non in grado di difendersi militarmente (50%) nel caso in cui scoppiasse un nuovo conflitto mondiale (temuto dal 60% degli italiani) e il 48,5% teme invece di vedere i propri risparmi diminuire rispetto al 2022. Secondo il Rapporto Censis esiste “una direzione” ma “pochi traguardi”. “Nelle tensioni e negli affanni di questi ultimi anni – si legge nel report – la società italiana inizia a intravedere, con progressiva chiarezza, i contorni della difficile congiuntura e i possibili punti di arrivo dei cambiamenti in corso, ma elude attentamente stimoli e investimenti utili a tradurre l’intenzione in traiettorie concrete”.
E “il ripiegamento in piccole patrie e piccole rivendicazioni e la scarsità di traguardi condivisi mettono a basso regime, quasi a riposo, i motori delle grandi invarianti collettive. La pandemia – prosegue il testo – la crisi energetica e ambientale, le guerre ai bordi dell’Europa, l’inflazione, i flussi migratori, l’affermarsi di modelli di sviluppo diversi da quello occidentale, l’aggravarsi dei rischi demografici e dei nuovi bisogni di tutela sociale hanno però messo definitivamente a nudo i bisogni di medio periodo del nostro Paese”.
La propaganda si sbriciola di fronte alla realtà. Le “famiglie tradizionali” vagheggiate dal governo sono il 52,4% delle 25,3 milioni di famiglie. Il 42% degli anziani deve supportare economicamente figli e nipoti nonostante temano per la propria pensione. Per il 72,8% degli italiani gli stranieri sono “una risorsa per il lavoro” e “necessari”. Il 74% dei cittadini è favorevole all’eutanasia che il governo ostacola. Il 75,4% dei giovani pensa di avere di fronte una vita peggiore di quella dei propri genitori. L’ansia climatica, ovvero la paura per il cambiamento climatico (così vituperata dalla maggioranza) colpisce l’84% degli italiani mentre il 68% di loro teme seriamente per un futuro di siccità. E la popolazione italiana (che qualcuno vorrebbe rinchiudere per preservare) sia avvia a diminuire di 4,5 milioni nel 2050. Il Paese là fuori è l’opposto di quello raccontato dal governo. Le soluzioni facili e brevi – lo dice il Censis – non serviranno a nulla. Ma per ora tengono alto il consenso della Meloni.
Colpa degli altri, lui è stato frainteso. Il ministro alla Difesa Guido Crosetto si dice “profondamente colpito dal tentativo di mistificazione delle mie parole. Non ho detto che a me raccontano di incontri segreti, di cospirazioni“.
Ieri alla Camera il ministro ha negato di avere mai parlato di complotti giudiziari contro il governo. “A me raccontano di riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”, aveva detto in un’intervista al Corriere della Sera.
Sulle toghe la retromarcia di Crosetto
Ora la sua versione cambia. Gli incontri riferiti sarebbero, secondo quanto detto dal ministro, “riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”.
Solo che nel suo intervento di fronte ai deputati si lascia prendere la mano e alla fine non riesce a ricadere nella teoria del complotto che avrebbe voluto allontanare: “Do lettura di alcuni interventi pubblici che io reputo gravissimi sulla questione giustizia. Io ho totale fiducia nella magistratura ma so discernere, mi riferisco ad alcune cose pubbliche che ho sentito in cui qualcuno ha parlato di una magistratura che deve avere ‘una fisiologica funzione antimaggioritaria a tutela dei diritti’…”, ha detto ieri.
E non manca, ovviamente, un po’ di vittimismo. Il ministro ha parlato di “un plotone di esecuzione contro il sottoscritto”. Così la risposta all’interpellanza di Benedetto Della Vedova, deputato di +Europa, alla fine non fa altro che rintuzzare le critiche.
“C’è un tentativo di mistificazione delle mie parole: le rileggo in italiano – spiega Crosetto – come lo saprebbe interpretare un qualunque bambino delle elementari: ‘a me raccontano di riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni’. Ho detto che a me raccontano di incontri segreti, di cospirazioni? No“, ha esordito il ministro della Difesa.
“In questi giorni è stato messo su un plotone di esecuzione contro il sottoscritto, con insulti, interpretazioni malevole delle mie parole. La mia era una riflessione molto più alta. Tornando indietro non la farei perché avevo altro da fare, mi occupo di altro. Mentre scoppiava questo dibattito io ero all’Onu a parlare con Guterres di Medio Oriente, di pace e stabilità”, ha aggiunto.
“Apro un tema di cui dobbiamo discutere prima o poi: questo scontro tra politica e magistratura dovrà finire. Io ho trovato alcuni magistrati – ho sentito esponenti di Area – che vedono nel governo un attacco alla magistratura, quasi che non voglia farla lavorare. C’è chi ha detto che il ruolo della magistratura deve essere quello di riequilibrare la volontà popolare. Ma chi ha responsabilità deve essere terzo: pensate se questa frase la avesse pronunciata un generale o un prefetto”, ha detto Crosetto.
Solito copione
“Dal ministro abbiamo sentito solo complottismi e vittimismi“, ha replicato Giuseppe Conte, parlando fuori da Montecitorio. Il leader del M5s ha aggiunto: “Ha lamentato un plotone di esecuzione ad personam dopo aver rilasciato quell’intervista” sulla giustizia “ma qui ad personam sono solo le fermate dei treni per i ministri e i privilegi di una classe politica che sembra riportarci indietro nel passato”.
Nell’aula della Camera erano presenti soltanto trenta deputati, dell’interpellanza al ministro si è saputo soltanto giovedì sera, alla Camera non c’erano votazioni. C’erano però la segretaria del Pd Elly Schlein e il leader del Movimento Cinque Stelle Conte.
Il Consiglio e il Parlamento europeo hanno trovato l’accordo in trilogo (tra Parlamento europeo, Consiglio dell’Unione europea e Commissione europea) sulla direttiva contro le cosiddette liti temerarie, le cause pretestuose intentate contro giornalisti, media e altri soggetti al solo scopo di intimidirli (Anti-Slapp, Strategic Lawsuit Against Public Participation, nel gergo bruxellese). Le nuove norme mirano a garantire la protezione a livello dell’Ue di giornalisti, media, attivisti, accademici, artisti e ricercatori contro procedimenti legali infondati e abusivi. La nuova legge, spiega il Parlamento, si applicherà nei casi transfrontalieri e proteggerà le persone e le organizzazioni attive in settori come i diritti fondamentali, l’ambiente, la lotta alla disinformazione e le indagini sulla corruzione da procedimenti giudiziari abusivi, mirati a intimidire e molestare.
Il Consiglio e il Parlamento europeo hanno trovato l’accordo in trilogo sulla direttiva contro le cosiddette liti temerarie
Gli eurodeputati hanno fatto in modo che i casi vengano considerati transfrontalieri, a meno che entrambe le parti non siano domiciliate nello stesso Paese del Tribunale e il caso non riguardi solo uno Stato membro. In base alle nuove norme, gli imputati potranno chiedere il rigetto anticipato delle pretese manifestamente infondate: in questo caso, i promotori della causa dovranno dimostrare la fondatezza delle loro ragioni. Per prevenire azioni legali abusive, i Tribunali potranno imporre sanzioni dissuasive ai ricorrenti, solitamente rappresentati da gruppi di pressione, aziende o politici. I giudici possono obbligare il ricorrente a pagare tutte le spese del procedimento, comprese le spese legali della controparte. Ove la legislazione nazionale non consenta che questi costi siano interamente pagati dal ricorrente, i governi dell’Ue dovranno garantire che siano coperti, a meno che non siano eccessivi.
A Bruxelles da anni si discute di liti temerarie e di libertà dell’informazione. Come spiega l’eurodeputato Tiemo Wölken (S&D, Germania), l’accordo sulla direttiva costituisce “un passo verso la fine della pratica diffusa di azioni legali abusive volte a mettere a tacere giornalisti, Ong e società civile. Ora la legge deve essere approvata in plenaria e dagli Stati membri per poi essere pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.
Il disegno di legge targato FdI prevede sanzioni fino a 50mila euro. Per i giornalisti è peggio della galera
In Italia la maggioranza spinge in direzione contraria. Il disegno di legge sulla diffamazione incardinato in Commissione Giustizia al Senato non convince l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa (Fnsi) che lamentano punti critici del testo, che abolisce il carcere per i giornalisti, come chiesto dalla Corte costituzionale e dagli organismi internazionali, come le sanzioni fino a 50mila euro, ritenute assolutamente sproporzionate rispetto alla media retributiva di collaboratori e lavoratori autonomi; la rettifica automatica senza alcun commento da parte del direttore di testata o del singolo giornalista; il fatto che il giornalista non possa difendersi nel foro di registrazione della testata, ma debba farlo in quello del querelante “costringendo – è stato spiegato – colleghe e colleghi che sono ai margini della professione a una sorta di costoso ‘turismo giudiziario’…”.
Per questo la Fnsi ha deciso di convocare per giovedì 14 dicembre alle 10 nella piazza romana di Santi Apostoli una riunione straordinaria del Consiglio nazionale alla quale sono invitati a partecipare, insieme a colleghe e colleghi, i rappresentanti degli organismi della categoria, parlamentari, magistrati. Le modifiche richieste al disegno di legge non sono arrivate “nonostante gli emendamenti presentati da parlamentari di diversi schieramenti politici”, osserva la Fnsi.
Com’era prevedibile in questo inizio di dicembre la stampa in coro canta l’epicedio in onore di Henry Kissinger, morto all’età di 100 anni nella sua casa in Connecticut. L’operazione è piuttosto semplice: Kissinger è stato consigliere per la sicurezza nazionale di Richard Nixon e segretario di stato sotto Gerald Ford ed è, nel bene e nel male, il più importante funzionario di politica estera nella storia americana moderna. La politica estera sotto due presidenti americani rifletteva direttamente la sua visione del mondo.
Com’era prevedibile in questo inizio di dicembre la stampa in coro canta l’epicedio in onore di Henry Kissinger
Prima di entrare entrare nelle stanze che contano, nel 1968, Kissinger era professore di relazioni internazionali ad Harvard. Ha sviluppato una visione del mondo molto chiara incentrata sull’idea di realpolitik: gli Stati Uniti dovrebbero perseguire i propri interessi sondando tutto ciò che è politicamente possibile. Le considerazioni morali e ideologiche, per Kissinger, erano meno importanti delle fredde e dure valutazioni di ciò che avrebbe potuto far avanzare la posizione strategica degli Usa Non è un caso che tra i messaggi di cordoglio ieri sia arrivato anche quello di Vladimir Putin.
Così mentre la politica italiana celebra Kissinger foderata dagli editoriali addolorati tocca spulciare tra la stampa internazionale per ripristinare almeno la verità storica. Kissinger fu ideatore dell’apertura verso l’Unione Sovietica per abbassare le tensioni tra le due superpotenze dotate di armi nucleari, è vero anche che fu lui a pianificare negli anni ’70 il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cina. Questi due risultati lo proiettarono di fatto tra i più venerati strateghi americani. “Kissinger cattura l’immaginazione – scrisse il suo biografo Robert Schulzinger – perché ha progettato la svolta più significativa nella politica estera degli Stati Uniti dall’inizio della guerra fredda”.
Ma quanto è costato tutto questo? “Per coloro che credono che la politica americana dovrebbe essere qualcosa di più del puro perseguimento dell’interesse personale, la continua venerazione di Kissinger a Washington è spaventosa”, scrisse già nel 2016, in occasione di una premiazione a Kissinger a cui partecipò anche il presidente Obama. L’episodio più noto è che fu Kissinger a ideare il piano dell’era Nixon per bombardare a tappeto la Cambogia. Ufficialmente il bombardamento – che colpì indiscriminatamente obiettivi in aree popolate da civili – avrebbe dovuto distruggere le basi del Vietnam del Nord e dei Viet Cong.
Morto a 100 anni il più importante funzionario americano. I suoi “meriti” pagati con fiumi di sangue
In realtà, era stato concepito per migliorare la posizione strategica dell’America prima di un ritiro negoziato. Durante la prima fase dei bombardamenti, dal 1969 al 1970, Kissinger approvò personalmente tutti i 3.875 bombardamenti, secondo un rapporto del Pentagono. Nel 1971 il governo pakistano intraprese una campagna di genocidio per sopprimere il movimento indipendentista in quello che sarebbe diventato il Bangladesh. Yahya Khan del Pakistan, uno degli artefici del genocidio, fu prezioso per le ambizioni di Nixon di ripristinare le relazioni diplomatiche con la Cina. Quindi gli Stati Uniti hanno lasciato che le forze di Khan violentassero e uccidessero almeno 300mila persone, qualcuno dice siano tre milioni.
“Non possiamo permettere che un amico nostro e della Cina venga coinvolto in un conflitto con un amico dell’India”, disse Nixon citando Kissinger. Nel 2014, documenti declassificati suggerivano che negli anni ‘70 Kissinger segnalò ai leader militari della destra argentini che gli Stati Uniti non si sarebbero opposti ai suoi piani di lanciare una repressione del dissenso nel 1976 che divenne nota come Guerra Sporca. Morirono circa 30mila persone. “Henry Kissinger, il criminale di guerra amato dalla classe dirigente americana, finalmente muore”, titolava ieri il periodico Usa RollingStone. Notate le differenza qui da noi.
La retorica e la propaganda intorno alla desiderata riforma costituzionale per il premierato gli deve essere risultata insopportabile e così ieri anche Gianni Letta, storico sottosegretario di Silvio Berlusconi e anima del centrodestra italiano per qualche decennio, ha sbottato. Letta, parlando a un’iniziativa dell’associazione Progetto Città di Firenze, spiega che il rischio di riduzione del capo dello Stato – in caso di approvazione delle riforme volute dalla premier Giorgia Meloni – sarebbe dovuto al fatto “che la forza che ti deriva dalla investitura popolare è certamente maggiore di quella che deriva dal Parlamento: non sta scritto, ma è ovvio che poi nella dialettica chi è investito ha più forza”.
“Secondo me – ha detto Letta intervenendo a un’iniziativa dell’associazione Progetto Città di Firenze – la figura del presidente della Repubblica così com’è disegnata, e l’interpretazione così come è stata data dai singoli presidenti nel rispetto della Costituzione, come tutti i costituzionalisti oggi riconoscono, sta bene così: non l’attenuerei, non la ridisegnerei, non toglierei nessuna delle prerogative così come attualmente sono state esercitate”.
A poco servono gli infervorati comunicati stampa del coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani. La riforma su cui questa maggioranza rischia di schiantarsi svilisce il Presidente della Repubblica a una mera figura cerimoniale utile per tagliare nastri e servire prosecco e pasticcini. Non c’è nulla di nuovo: governanti che vogliono più spazi per governare perché sono incapaci di farlo.
Buon venerdì
foto da Quirinale.it, Attribution, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4732658
Preoccupato di scrollarsi di dosso la sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo che ha condannato l’Italia per l’illegale detenzione di minori nell’hotspot di Taranto avvenuta nel 2017 (c’era il governo Gentiloni) ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha rilasciato una composta intervista al quotidiano La Stampa per assicurare che nessun minore verrà trattenuto nei Centri per il rimpatrio e che le leggi internazionali saranno rispettate. Falso.
Ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha assicurato che nessun minore verrà trattenuto nei Centri per il rimpatrio. Falso
Solo lo scorso 9 ottobre (quindi senza dubbio nella gestione di questo governo e del ministro Piantedosi) l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione ha segnalato come nel centro di Crotone c’erano minori stranieri non accompagnati. La natura giuridica dell’ex Cara non prevede la possibilità di fornire accoglienza ai minori, il che porta a un trattenimento sostanziale e informale dei minori totalmente illegittimo nonché alla mancata attivazione dei servizi previsti per l’accoglienza dei minori non accompagnati.
Era il 12 ottobre di quest’anno invece quando una delegazione del Tavolo Asilo e Immigrazione ha fatto visita all’hotspot di Taranto che vorrebbe essere “dedicato ai minori”. è stata riscontrata una situazione di “privazione della libertà illegittima, condizioni materiali totalmente inadeguate e di promiscuità, permanenze di lunga durata, assenza di tutela dei minori, isolamento sociale e legale, insufficiente assistenza sanitaria”. In Puglia è prassi che i minori finiscano in strutture legate agli adulti. A Roma per i limiti di capienza i minori vengono trattenuti in commissariato in attesa di collocazione. Ce ne sarà di lavoro per la Corte europea per i diritti dell’uomo.