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#nonmifermo Pronti per Milano

Art. 4 della Costituzione La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

NON MI FERMO è il luogo in cui stiamo mentre ci prendiamo la responsabilità di ascoltare, ascoltarci e fare politica. Insieme. NON MI FERMO non è un partito, non è una corrente (anche se le porte sono sempre aperte) e non è un movimento sostitutivo: NON MI FERMO è un luogo di analisi e una proposta sempre in fieri. Perché la politica è un bene comune che non possiamo più permettere di vedere vituperato. Riconosciamo il primato della politica. Della buona politica.

Quella del 3 marzo 2012 sarà la nostra prima Agorà (prima di una lunga serie) che abbiamo scelto di dedicare a etica e politica. I lavori inizieranno alle 14.30 fino alle 18.30 presso il Teatro della Cooperativa in via Hermada, 8 a Milano.

I temi di cui parleremo andranno dall’antimafia alla difesa del mandato costituzionale; dalla tutela di suolo e paesaggio alla lotta contro i tagli alla cultura; dal diritto di cittadinanza allo strumento dell’audizione; dal reddito minimo agli incentivi verso il consumo solidale; dalla difesa dei beni comuni all’innovazione digitale.

A contribuire con idee esperienze e progetti ci saranno politici, amministratori, accademici, giornalisti, rappresentanti della società civile, associazioni, movimenti e lavoratori. A ogni intervento, che durerà circa 8 minuti, corrisponderà poi un’azione o una proposta attraverso la consegna di mozioni, ordini del giorno, proposte di legge.

Perché l’idea di NON MI FERMO è anche quella di fare politica senza fermarsi davanti all’apparente solidità di un bel discorso, ma realizzandolo.

Interverranno, fra gli altri, Sonia ALFANO, Luigi DE MAGISTRIS, Giulio CAVALLI, Chiara CREMONESI, Loris MAZZETTI, Nicoletta RIBOLDI, Daniele BIACCHESSI, Renato SARTI, Patrizia QUARTIERI, Edda PANDO, Diego PARASSOLE, Federico CIMINI, Giovanni GIOVANNETTI, Claudio MESSORA, Jole GARUTI, Alessio BAÙ, Corrado DEL BO’, Piero RICCA, Vladimiro BOSELLI, Chiara PRACCHI, Iolanda NANNI, Daniele CASSANMAGNAGO, Rodolfo SERIANNI, Osservatorio Mafia Monza E Brianza, G.A.S., Comitati Pendolari, Rete Antimafia Brescia, Comitato Acqua Pubblica

Il sito di NON MI FERMO

L’evento su facebook

Vietato entrare ai zingari

Lo racconta Il Giornale di Vicenza in un articolo a firma di Marco Scorzato: «Vietato entrare ai zingari». Scritto così, con l’errore grammaticale. Un cartello arancione, scritta nera. Messaggio choc. Anche se nella sua interezza recita così: «Siamo spiacenti ma per maleducazione e non rispetto delle regole, vietato entrare ai zingari!» Postilla: «Non per razzismo». Lo choc è quello di chi come noi, ieri mattina, si è imbattuto nel cartello affisso sulla porta dell’Euro Point, un piccolo bazar al civico 8 di contrà XX Settembre. Ci sono clienti che entrano senza batter ciglio, mentre alcuni passanti si fermano a guardare e poi se ne vanno, chi mormorando, chi scuotendo il capo. «L’ho messo io quel cartello, qualche giorno fa», dice candidamente la giovane commessa intenta a servire una cliente. «Il titolare? No, lui passa di qua raramente, anzi, mi ha consigliato di toglierlo, perché dice che così rischio solo guai…». Si chiama Fatima, la commessa, e indossa un berretto nero in lana, un berretto alla moda che le copre tutta la chioma. Parla veloce e con stupefacente spontaneità chiede: «Che dice, lo lascio?». Guarda il cartello, poi fissa negli occhi chi le sta per fare almeno una domanda: quella domanda. Ma allora gioca d’anticipo e parte in quarta. La sua storia inizia così: «So cosa sta pensando, ma non ce la faccio più». Gesticolando, mostra il negozio, le collanine sullo scaffale e il bagnoschiuma su quello opposto. «Vede? Gli zingari passano sempre di qua, entrano in negozio in otto o dieci o anche di più; sono sempre gli stessi e hanno sempre dei bambini con loro, che vanno in giro per il bazar. Io non riesco a controllarli e poi, ogni volta, è sempre la stessa storia: rubano ». Sempre così? Cosa vuol dire «sempre»? «Vengono spesso, non dico tutti i giorni, ma spesso; alcune volte gli adulti si sono fermati a pagare, ma anche in quei casi poi mi sono accorta che avevano rubato qualcosa. Ma era tardi per farsi ridare la merce. Mi è capitato anche di dover abbandonare il negozio, e io sono qui da sola, per inseguirli. Non posso andare avanti così». Indica la vetrina dove ha esposto due manifesti: “Svendita totale, 50% di sconto”. «A fine marzo chiuderemo l’attività, non ce la facciamo. Quando abbiamo iniziato, ad aprile, speravamo andasse diversamente, ma la crisi è forte. Adesso svendo tutto e già così per certi prodotti incasso meno di quanto ho speso per comprarli, ma non posso anche accettare che me li rubino…». E poi, forse per analogia, aggiunge: «Vado e vengo con il bus e sul bus a loro è permesso di viaggiare senza biglietto o di non obliterarlo: ho visto coi miei occhi che gli autisti non li controllano nemmeno». Resta la domanda dell’inizio, comunque inevasa: un cartello che vieta l’ingresso agli zingari è una discriminazione razzista che ricorda un’epoca buia, forse la più buia dell’Italia unita. «So che questo è un luogo aperto al pubblico e so cosa può pensare la gente – risponde Fatima – Ma no, non sono razzista, l’ho anche scritto». Ma crede che basti averlo scritto? «Senta, sono marocchina, vivo qui da 12 anni e so che esistono le regole e io le rispetto. Non sono razzista ma le regole devono valere per tutti. Sennò non dite a me che tratto qualcuno in maniera diversa. Sa una cosa? I miei colleghi non mettono cartelli, ma mi dicono che non li fanno entrare. Cosa cambia?». Fatima Mechal, 20 anni, commessa di origini marocchine: da oggi i vicentini parleranno di lei.

È impossibile parlare del razzismo di oggi se non si ricorda il razzi­smo di ieri. (Gian Antonio Stella)

Noi faremo le nostre proposte sul dovere di arginare i rigurgiti alla prossima agorà di Milano il 3 marzo.

Accendiamo la luce su Rossella Urru

scritto per IL FATTO QUOTIDIANO

Rossella Urru lavorava con la ONG  ‘Comitato internazionale per lo Sviluppo dei Popoli’. Fino al 22 ottobre scorso. Quella notte è stata rapita insieme ai suoi colleghi spagnoli Enric Gonyalons e Ainhoa Fernandez che lavoravano con lei al campo profughi di Tindouf, dove da 36 anni il popolo saharawi vive in esilio. Secondo Khatri Addouh, presidente del parlamento saharawi, sarebbe detenuta in Mali al confine con il Niger in mano ad un’organizzazione terroristica. Il sequestro è stato rivendicato  dal Movimento Unito per la jiahad in Africa, un gruppo in ascesa che probabilmente con questo sequestro ha puntato ad avere visibilità internazionale nel frastagliato mondo di piccoli e grandi gruppi in guerra tra loro in una torbida miscela di povertà, fanatismo e criminalità.

Il 12 dicembre un giornalista dell’Afp vede un video grazie un mediatore che si sta adoperando per la liberazione degli ostaggi. Il filmato si apre con il nome dell’organizzazione (Tawhid Wal Jihad Fi Garbi Afriqqiya) e mostra i volti di un uomo e due donne: Rossella è viva, dunque. Nel video indossa una tunica di colore blu e un velo giallo come la sabbia,alle sue spalle uomini armati con il viso coperto da un turbante.

E’ l’ultima foto di Rossella che è rimbalzata per il mondo poi, passati i secondi veloci della sensazione, tra i media è calato un immorale silenzio. Ci sono sequestri che sono troppo complicati da spiegare e troppo ventosi e normali per rimanere notiziabili. Evidentemente bisogna avere anche la fortuna di essere sequestrati nel modo giusto per rimanere in pagina nei giornali. Da qualche tempo la voce d’indignazione e di vicinanza per Rossella è uscita dai confini sardi e ha cominciato ad urlare più forte: Geppi Cucciari dal palco di Sanremo ha alzato la voce, Il Tg3 ha dedicato a Rossella Urru uno spazio per chiederne la liberazioneil Comune di Milano ha acceso i riflettori a Palazzo Marinoil Popolo Viola ha rilanciato l’appello e molti altri si sono mobilitati.

Da qualche tempo è stato aperto anche un blog che si apre con questa parole: In molti abbiamo vacillato di impotenza. Ci siamo sentiti infinitamente soli di fronte a tanto assurdo, svuotati da tanta assenza improvvisa. Così ci siamo chiusi in un lungo silenzio. Ma quello che noi credevamo un silenzio si è rivelato essere in realtà un coro di voci giunte da ogni dove. Un coro di solidarietà e di affetto che, dalla notte tra il 22 e il 23 ottobre, diventa sempre più accorato, sempre più grande e sincero. Senza addentrarsi in considerazioni ed analisi di ordine politico o religioso, lasciando quindi che siano gli esperti ad occuparsene in altre sedi più appropriate, questo blog vorrebbe solamente essere il punto di incontro fra tutte queste voci. Raccogliendo e condividendo in un unico spazio libero e aperto a tutti le numerose testimonianze per l’immediata liberazione di Rossella Urru.

Non facciamoci sequestrare anche la voce: la solitudine ha bisogno del buio e del silenzio per bruciare impunemente. Accendiamo la luce su Rossella Urru.

(Foto: www.rossellaurru.it)

La mamma (RAI) dei cretini è sempre incinta

Sull’interpretazione di quel punto non ci sono dubbi: se una donna rimane incinta la Rai potrà valutare l’incidenza della gravidanza sulla produttività  della lavoratrice e, se questa ne risultasse compromessa, si riserva sostanzialmente di risolvere il contratto.  In Rai, quindi, l’azienda editoriale che lei dirige, non solo i giornalisti sono “consulenti”, pagati a cottimo e costretti a versare Inps o Enpals al posto dell’Inpgi. Ma hanno anche l’umiliazione di sapere che scegliere un figlio potrebbe implicare la rinuncia coatta al lavoro. Luca ne parla sul suo blog con foto annessa.

Dov’è l’Africa

Sarà che c’è Africa in ogni parte del mondo e in quasi tutte le propagande ma oggi mi è venuta la voglia di non scrivere ma rileggere Saramago. Perché le ultime righe sono un manifesto intellettuale.

AFRICA di José Saramago (l’articolo originale qui http://caderno.josesaramago.org/2009/08/12/um-rei-assim/)

In Africa, si dice, i morti sono neri e le armi bianche. Sarebbe difficile trovare una sintesi più adeguata della successione di disastri che è stata e continua a essere, da secoli, l’esistenza nel continente africano. Il luogo del mondo in cui si dice sia nata l’umanità non era certamente il paradiso terrestre quando i primi “esploratori” europei vi ci sono sbarcati (al contrario di quello che dice il mito biblico. Adamo non è stato espulso dall’eden, semplicemente non c’è mai entrato), ma, con l’arrivo dell’uomo bianco si sono spalancate, per i neri, le porte dell’inferno. Queste porte continuano a essere implacabilmente aperte, generazioni su generazioni di africani sono state sacrificate dinanzi alla mal celata indifferenza o all’impudente complicità dell’opinione pubblica mondiale. Un milione di neri morti per la guerra, per la fame o per malattie che sarebbero potute essere curate, peserà sempre meno sul bilancio di qualsiasi paese dominatore e occuperà meno spazio nei notiziari rispetto alle quindici vittime di un serial killer. Sappiamo che l’orrore, in tutte le sue forme, le più crudeli, le più atroci e infami, incombe e rabbuia tutti i giorni, come una maledizione, il nostro disgraziato pianeta, ma l’Africa sembra essere diventata la sua zona preferita, il suo laboratorio sperimentale, il luogo in cui l’orrore si sente più a suo agio nel commettere nefandezze che giudicheremmo inconcepibili, come se i popoli africani fossero stati segnati alla nascita da un destino di cavie, su cui, per definizione, ogni genere di violenza è permessa, tutte le torture giustificate, tutti i crimini assolti. Al contrario di quello che molti si ostinano a credere non ci sarà un tribunale di Dio o della Storia a giudicare le atrocità commesse dagli uomini sugli uomini. Il futuro, sempre così disponibile nel decretare questa tipologia di amnistia generale che è l’oblio mascherato da perdono, è anche bravo nell’approvare, tacitamente o esplicitamente, a seconda della convenienza dei piani economici, militari e politici, l’immunità a vita per gli autori diretti e indiretti dei più mostruosi gesti contro la carne e lo spirito. È un errore consegnare al futuro l’incarico di giudicare i responsabili della sofferenza delle vittime di oggi, perchè questo futuro non smetterà di avere le sue vittime e allo stesso modo non saprà resistere alla tentazione di rimandare a un altro futuro ancora più lontano il meraviglioso momento della giustizia universale a cui molti di noi fingono di credere come la maniera più facile, e anche più ipocrita, di eludere responsabilità che spettano solo noi, e a questo presente che siamo. Si può capire qualcuno che si scusi dicendo: “Non sapevo”, ma è inaccettabile che si dica: “Preferisco non sapere”. Il funzionamento del mondo ha smesso di essere il mistero che era, le leve del male sono sotto gli occhi di tutti, per le mani che le governano ormai non ci sono più guanti a sufficienza per nascondere le macchie di sangue. Dovrebbe essere quindi facile per chiunque scegliere tra il lato della verità e quello della menzogna, tra il rispetto umano e il disprezzo per l’altro, tra quelli che sono a favore della vita e quelli contro. Tristemente le cose non vanno sempre così. L’egoismo personale, la pigrizia, la mancanza di generosità, le piccole vigliaccherie quotidiane, tutto questo ha contribuito a questa pericolosa forma di cecità mentale che consiste nello stare al mondo senza vederlo, o vederne solo quello che, in quel momento, è più utile ai nostri interessi. In questi casi non possiamo desiderare altro che la coscienza venga a strattonarci con violenza per un braccio chiedendoci a bruciapelo: “Dove vai? Cosa fai? Chi credi di essere?”. Un’insurrezione di coscienze libere è quello di cui avremmo bisogno. Sarà ancora possibile?

Umbrèlliade

Ad Umbrèllia la vita scorre, meglio rotola, serenamente, tra aperture e chiusure, gioie e dolori, ma con l’unico grande tormento che è rappresentato dalle mani e le braccia di uomini e donne che ogni tanto appaiono all’orizzonte per accaparrarsi qualche malcapitato e portarselo appresso, aprendolo e chiudendolo a proprio piacimento, senza mai chiedere loro se ne abbiano voglia o bisogno. Ma si sa, noi umani siamo prepotenti per definizione. E così a volte, d’inverno maggiormente, si sentono i lamenti disperati degli ombrelli orfani che piangono i propri rapiti. La condanna per queste vittime innocenti ed inconsapevoli è quella di vivere il resto dei loro giorni sotto la stretta ferrea di una mano, d’uomo o donna non fa differenza se sei vittima, Un giogo perenne che li costringe ad aperture improvvise o chiusure repentine. Se gli va bene, giorni e giorni d’abbandono, chiusi dentro umidi, sporchi e tristi portaombrelli casalinghi o d’ufficio. Uno squallore! Peggio che quei poveri cani al guinzaglio, per loro almeno c’è qualche metro di autonomia. Per un ombrello in cattività nulla, millimetro zero. Ma. Una bella favola di Manlio Epifania (e un bel ‘ma’). Tra l’altro la città degli ombrelli esiste sul serio: Gignese, provincia Verbano Cusio Ossola (VCO).

Il gusto dolce dell’umanità e delle prigioni

«Spero che qualcuno tornando a casa dopo aver visto Cesare deve morire pensi che anche un detenuto, su cui sovrasta una terribile pena, è e resta e un uomo. E questo grazie alle parole sublimi di Shakespeare». Sono le parole con cui Vittorio Taviani ha ritirato l’orso d’oro del 62 Festival del cinema di Berlino riferendosi alla situazione delle carceri italiane. Ha ringraziato: «Voglio fare alcuni dei loro nomi: a loro infatti va il nostro pensiero, mentre noi siamo qui tra le luci sono nella solitudine delle loro celle. E quindi dico grazie a Cosimo, Salvatore, Giovanni, Antonio, Francesco e Fabione». E come tutte le frasi profondamente umane mi hanno illuminato il lunedì e acceso il sorriso. Perché restare umani sarà l’inizio della rivoluzione di questo Paese.

F-35, promesse e stellette

Via 30 mila militari, 41 cacciabombardieri F-35 in meno e tagli qua e là. Il titolo dato dal ministro Giampaolo Di Paola a questo film è accattivante: “meno generali ed ammiragli, più operatività e tecnologia”. Peccato che sia un film già visto e che il finale non ci piaccia per niente. Il Presidente Monti ha detto che: «il nostro Governo, così impegnato nelle riforme strutturali, considera quella del modello di difesa proposta dal Ministro Di Paola un’importantissima riforma strutturale dal punto di vista economico». Peccato però che questa riforma, non porterà un solo euro nelle casse dello Stato, ma ridistribuirà al suo interno le risorse che oggi la Difesa gestisce in proprio. Trovate tutto qui.

Consumo di suolo e urbanistica liberista

Non avrà la cultura urbanistica ufficiale legittimato, consapevolmente o meno, il modello del neoliberismo? A mio parere sì, in particolare con l’appoggio, o addirittura l’invenzione, di pratiche e di parole d’ordine che hanno legittimato le ideologie da cui ha tratto alimento. Accenno ad alcune espressioni che di queste ideologie sono il risultato operativo: l’”urbanistica contrattata” (o concertata) come strumento per sottrarre il rapporto tra il pubblico (l’ente territoriale elettivo) e il privato (immobiliarista e/o proprietario) alla trasparenza e alla subordinazione del secondo al primo; la perequazione e la compensazione come riconoscimento, premio e incentivo alla formazione di plusvalori fondiari; i “programmi speciali” e gli “accordi di programma” in deroga alla pianificazione ordinaria; e infine i “diritti edificatori”, mera invenzione degli urbanisti (PRG di Roma) e causa del riconoscimento pratico dell’impossibilità di ridurre previsioni eccessive di edificabilità dei piani urbanistici. E vorrei aggiungere anche l’errore culturale e pratico commesso con l’introduzione dell’interesse degli investitori come componente legittimamente riconoscibile nella decisione della quantità dell’espansione urbana, fino a farne una componente del fabbisogno edilizio. La mia ferma opinione è che non sia sufficiente combattere l’espansione edilizia, ma occorra al tempo stesso difendere il territorio rurale dall’urbanizzazione non strettamente necessaria. Ciò significa collegare le mille vertenze aperte per combattere il consumo di suolo urbano con quelle, aperte in tutto il mondo, per la difesa delle utilizzazioni agro-silvo-pastorali d’interesse delle popolazioni insediate, per contrastare sia l’irragionevole espansione della “repellente crosta di cemento e asfalto” sia il land grabbing e la sostituzione di colture basate sul valore di scambio sul mercato internazionale anziché sul valore d’uso dell’alimentazione sana e risparmiatrice di energia. (Edoardo Salzano su Il Giornale dell’Architettura, marzo 2012)

Un incendio chiamato Europa

La prima questione è quella democratica. Chi comanda in Europa?  La seconda questione riguarda l’efficacia delle scelte fin qui adottate. La terza questione riguarda l’atteggiamento delle forze politiche e dell’opinione pubblica di casa nostra. Su queste tre questioni si gioca la foto di Vasto e soprattutto il copione dei prossimi anni. E anche se le risposte sono complesse e cariche di responsabilità le domande sono chiare e esigibili. Perché come scrive Gennaro Migliore tranne alcuni esempi, in pochi si sono posti il problema di solidarizzare con i greci e criticare le scelte della Troika (Bce, Commissione e Fmi). Quasi nessuno, poi, ha collegato quelle scelte a ciò che sta già accadendo in Italia ed in altri paesi in crisi. Di questa laconicità, di questa insopportabile afasia italiana, soffre l’intero campo delle forze democratiche europee, che a partire da alcune forze legate al Pse e ai Verdi europei (Hollande in Francia, la Spd e i Grunen in Germania), aprono un fronte di contestazione e, soprattutto, una concreta prospettiva di cambiamento. Lo voglio dire in particolare al Pd ma ancor con più forza all’Idv, vista la sua posizione di opposizione parlamentare: non si faccia l’errore di considerare la Grecia lontana, di votare il pareggio di bilancio in Costituzione e poi immaginare che a casa nostra quelle immagini di disperazione non si vedranno. Oggi, l’alternativa in Italia ed in Europa si potrà costruire solo con un’operazione di verità, togliendo il velo del nuovo stile alle vecchie e tragiche politiche di austerità liberiste. Il modo in cui ci affacciamo alla Grecia è il filo rosso che decide con chi stare chi e cosa fare cosa.