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Leghista, Kebab e la labirintite lombarda

Siamo in aula a discutere della legge ‘Harlem’ con cui la Lega (in pratica) vuole liberare la Lombardia da kebabbari e affini (trovate info qui). Anzi, in realtà in aula saremo si o no una decina per esempio sui banchi del PDL ci sono sedute 2 persone e sui banchi sella Lega si fa una gran caciara. Anche nei banchi della minoranza galleggia una certa desolazione. E sembra che non si riesca a cogliere la portata culturale che sta dietro alla proposta leghista: la discriminazione come unico ingrediente credibile per combattere la paura. E le discussioni in aula si perdono nei rivoli costituzionali. Mentre qui si chiacchiera come dei ragazzetti in gita fuori i lavoratori ALCATEL manifestano per i tagli che subiscono. Sarebbe un incubo kafkiano ma Kafka in Lombardia non potrebbe aprire una bancarella di incubi. La Lega non vorrebbe.

#salvaiciclisti: una proposta di legge

La scorsa settimana il Times di Londra ha lanciato una campagna a sostegno delle sicurezza dei ciclisti che sta riscuotendo un notevole successo (oltre 20 mila adesioni in soli cinque giorni).

In Gran Bretagna hanno deciso di correre ai ripari e di chiedere un impegno alla politica per far fronte agli oltre 1.275 ciclisti uccisi sulle strade britanniche negli ultimi 10 anni. In 10 anni in Italia sono state 2.556 le vittime su due ruote, più del doppio di quelle del Regno Unito.

Questa è una cifra vergognosa per un paese che più di ogni altro ha storicamente dato allo sviluppo della bicicletta e del ciclismo ed è per questo motivo che mi unisco all’appello dell’Associazione Ciclonauti per chiedere che anche in Italia vengano adottati gli 8 punti del manifesto del Times:

  1. Gli autoarticolati che entrano in un centro urbano devono, per legge, essere dotati di sensori, allarmi sonori che segnalino la svolta, specchi supplementari e barre di sicurezza che evitino ai ciclisti di finire sotto le ruote.
  2. 500 incroci più pericolosi del paese devono essere individuati, ripensati e dotati di semafori preferenziali per i ciclisti e di specchi che permettano ai camionisti di vedere eventuali ciclisti presenti sul lato.
  3. Dovrà essere condotta un’indagine nazionale per determinare quante persone vanno in bicicletta in Italia e quanti ciclisti vengono uccisi o feriti.
  4. Il 2% del budget dell’Anas dovrà essere destinato alla creazione di piste ciclabili di nuova generazione.
  5. La formazione di ciclisti e autisti deve essere migliorata e la sicurezza dei ciclisti deve diventare una parte fondamentale dei test di guida.
  6. 30 km/h deve essere il limite di velocità massima nelle aree residenziali sprovviste di piste ciclabili.
  7. I privati devono essere invitati a sponsorizzare la creazione di piste ciclabili e superstrade ciclabili prendendo ad esempio lo schema di noleggio bici londinese sponsorizzato dalla Barclays.
  8. Ogni città deve nominare un commissario alla ciclabilità per promuovere le riforme.

Il manifesto del Times è stato dettato dal buon senso e da una forte dose di senso civico. È proprio perché queste tematiche non hanno colore politico che chiediamo un contributo da tutti affinché anche in Italia il senso civico e il buon senso prendano finalmente il sopravvento.

Chiunque volesse contribuire al buon esito di questa campagna può condividere questa lettera attraverso Facebook, attraverso il proprio blog o sito e attraverso Twitter utilizzando l’hashtag #salvaiciclisti.

Ora bisogna trasformare i contributi in una seria proposta di legge. Chiunque abbia idee, suggerimenti e collaborazioni noi siamo qui. In bici.

Marta Vincenzi come Ipazia e l’eleganza del PD

Un lunghissimo sfogo, un’ora di messaggi su Twitter per raccontare la delusione e la rabbia di avere perso ieri le primarie del centrosinistra a Genova, vinte da Marco Doria. E Marta Vincenzi non è stata tenera con nessuno ed è arrivata a paragonarsi a Ipazia, la filosofa di Alessandria d’Egitto assassinata da fanatici cristiani nel V secolo d.C.. «Ora bisogna ricominciare», ha esordito il sindaco, «il rischio di una città che muore e non vuole riconoscerlo è lì. Nel voto a Doria come voto anticasta del tutti uguali. Viva i predicatori». Lo scrive La Stampa (ma potete toccare con mano su twitter). Per questo quando mi chiedono cosa penso del PD mi viene sempre più spesso da rispondere: quale? Perché questo nelle parole di Pippo Civati è una ricchezza ma le parole della Vincenzi sono quanto di più lontano. E il problema è che continuano a coesistere. Ed è un nostro problema.

Tesserati senza tessere

Vi racconto una piccola atroce storia per capire quale possa essere talvolta la posizione del potere politico dentro una vicenda mafiosa, una storia vecchia di alcuni anni fa e che oggi non avrebbe senso e che tuttavia in un certo modo interpreta tutt’oggi il senso politico della mafia. Nel paese di Camporeale, provincia di Palermo, nel cuore della Sicilia, assediato da tutta la mafia della provincia palermitana, c’era un sindaco democristiano, un democristiano onesto, di nome Pasquale Almerico, il quale essendo anche segretario comunale della DC, rifiutò la tessera di iscrizione al partito ad un patriarca mafioso, chiamato Vanni Sacco ed a tutti i suoi amici, clienti, alleati e complici. Quattrocento persone. Quattrocento tessere. Sarebbe stato un trionfo politico del partito, in una zona fino allora feudo di liberali e monarchici, ma il sindaco Almerico sapeva che quei quattrocento nuovi tesserati si sarebbero impadroniti della maggioranza ed avrebbero saccheggiato il Comune. Con un gesto di temeraria dignità, rifiutò le tessere.
Respinti dal sindaco, i mafiosi ripresentarono allora la domanda alla segreteria provinciale della DC, retta in quel tempo dall’ancora giovane Giovanni Gioia, il quale impose al sindaco Almerico di accogliere quelle quattrocento richieste di iscrizione, ma il sindaco Almerico, che era medico di paese, un galantuomo che credeva nella DC come ideale di governo politico, ed era infine anche un uomo con i coglioni, rispose ancora di no. Allora i postulanti gli fecero semplicemente sapere che, se non avesse ceduto, lo avrebbero ucciso, e il sindaco Almerico, medico galantuomo, sempre convinto che la Dc fosse soprattutto un ideale, rifiutò ancora. La segreteria provinciale s’incazzò, sospese dal partito il sindaco Almerico e concesse quelle quattrocento tessere. Il sindaco Pasquale Almerico cominciò a vivere in attesa della morte. Scrisse un memoriale indirizzato alla segreteria provinciale e nazionale del partito denunciando quello che accadeva e indicando persino i nomi dei suoi probabili assassini. E continuò a vivere nell’attesa della morte. Solo, abbandonato da tutti. Nessuno gli dette retta, lo ritennero un pazzo visionario che voleva continuare a comandare da solo la città emarginando forze politiche nuove e moderne.
Talvolta lo accompagnavano per strada alcuni amici armati per proteggerlo. Poi anche gli amici scomparvero. Una sera di ottobre mentre Pasquale Almerico usciva dal municipio, si spensero tutte le luci di Camporeale e da tre punti opposti della piazza si cominciò a sparare contro quella povera ombra solitaria. Cinquantadue proiettili di mitra, due scariche di lupara. Il sindaco Pasquale Almerico venne divelto, sfigurato, ucciso e i mafiosi divennero i padroni di Camporeale. Pasquale Almerico, per anni, anche negli ambienti ufficiali del partito venne considerato un pazzo alla memoria. (Pippo Fava da I Siciliani, gennaio 1983)

Questione di stile

Ora festeggiamo, in maniera poco rumorosa, consapevoli delle tante questioni che da domani dovremo affrontare. Lo scrive Marco Doria, il candidato indipendente (appoggiato da SEL come unico partito) che ha vinto a Genova. Ora aspetto senza stile che qualche giovane e meno giovane democratico salga sul carro del vincitore. 1,2,3…

Open data: una casa di vetro per lo Stato

Per darvi una idea: un sistema informativo di un grande Comune – spiega Davide Lipodio, direttore consulenza per la Pa di Engineering – oggi può arrivare a superare le 200 applicazioni e, poiché le competenze sono sostanzialmente le medesime, anche nei Comuni di medie dimensioni si può arrivare a superare con facilità le 100 applicazioni». Su Bologna, per esempio, sono state analizzati 179 programmi. «In queste settimane è in corso l’analisi dei risultati che permetterà di decidere a quali dati dare priorità e quali interventi effettuare per la generazione degli open data. Le prime indicazioni sono confortanti – sottolinea -. Le applicazioni che non gestiscono dati di una qualche utilità per cittadini, imprese e istituzioni si sono rivelate una minoranza». L’esperienza di Engineering con il Comune di Bologna ma anche quelle di soggetti come Spaghetti OpenData stanno dimostrando come estrarre un metallo prezioso ma instabile. «Le pubbliche amministrazioni – osserva Lipodio – rappresentano immensi giacimenti e le applicazioni informatiche che raccolgono, elaborano e trattano i dati pubblici possono essere considerate alla stregua di vere e proprie miniere». La tecnologia c’è, servono solo i minatori. Se ne parla oggi su Il Sole 24 Ore. Servono i minatori e noi (l’avevamo già scritto qui in tempi non sospetti) stiamo provando ad accendere la miccia.

Poveri i diritti

È vero che l’attenzione per i problemi della povertà non era mai scomparsa, anche nella discussione giuridica. Ma si era concentrata piuttosto sulle povertà post-materiali, sulla post-povertà senza aggettivi (quanti sbrigativi “post” hanno distorto l’analisi di fenomeni nuovi!), sulla sottolineatura o sulla critica della poverty law scholarship. Se era giusto mettere in evidenza che le povertà non sono riducibili solo a carenze materiali, i tempi mutati inducevano a scrivere, ad esempio, che «le nuove povertà post-materiali (anziani soli, handicappati, tossicodipendenti, depressi psichici) sono in crescita mentre calano quelle materiali» (R. Spiazzi,Enciclopedia del pensiero sociale cristiano, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1992, p. 602), e quell’elenco si allungava con riferimenti alla solitudine, alla mancanza di relazioni sociali, alla perdita di senso, ai malati di Aids, alle diverse forme di esclusione. Ma oggi quella conclusione non è proponibile, perché sono proprio le povertà materiali ad essere tornate alla ribalta.  I nostri, infatti, sono pure i tempi della vita precaria, della sopravvivenza difficile, del lavoro introvabile, delle rinnovate forme di esclusione legate alla condizione d’immigrato, all’etnia. Sono tornati i “poveri”, un mondo che sembrava scomparso grazie alla diffusione del benessere materiale, o che almeno era confinato in aree sociali ristrettissime. E con essi è tornato, drammatico e ineludibile, il problema di come assicurare la tutela dei loro diritti primari – il lavoro, la salute, la casa, l’istruzione. Con buone ragioni Marco Revelli ha potuto dare a un suo bel libro il titolo Poveri noi (Einaudi, Torino, 2010). Davvero poveri tutti: ovviamente quelli che vivono concretamente la condizione della povertà, ma anche quelli che avvertono non solo il disagio personale, ma l’inaccettabilità sociale di un mondo nel quale, attraverso la povertà, vengono negate la dignità e l’umanità stessa delle persone. E proprio attraverso questo dato di realtà possiamo comprendere meglio il significato profondo delle parole che aprono la nostra Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Quando il lavoro non c’è, quando viene negato o sfigurato, è lo stesso fondamento democratico di una società ad essere messo in pericolo. Stefano Rodotà su povertà dei diritti oltre che dei poveri.

Liberisti sinistrati e smemorati

Ci sarà un motivo se la difesa dei principi costituzionali che sono sulla graticola in questo momento (penso all’articolo 18, all’equità e in generale a questa mania delle liberalizzazione che appaiono l’unica soluzione possibile) è demandata a tutti i comparti sociali, politica esclusa. Capita di ascoltare Don Gallo sull’articolo 18 e ti accorgi che una tesi così fortemente di cuore e cervello erano giornoiche la stavi aspettando, ascolti Oliviero sulla torre del Binario 21 e cogli come (più della laurea) conti il dolore e la perseveranza per resistere interpretando senza remore la Costituzione. Forse sarà un problema di narrazione (se ne parla spesso, figuratevi poi dalle nostre parti) ma la lacuna che punge di più è la latitanza della memoria storica della parte che rappresentiamo. Una sorta di liberismo necessario che sembra avere contagiato anche gli innovatori politici che su questo tema arrossiscono e balbettano qualche “ma anche”. A furia di restare schiacciati nella timidezza di un anacronistico “esproprio finanziario” abbiamo finito per regalarlo e subirlo senza nemmeno un cenno di difesa o, almeno, di comprensione del momento. Perché la politica cambia con un cambiamento culturale, certo, ma la rivoluzione culturale si accende senza timidezze. Ho sempre creduto che gli anni 80 siano la chiave di volta di questo impoverimento che ha lasciato la porta aperta agli imbarbarimenti (vincenti) degli altri e oggi ho incrociato questo articolo. Che, come ogni tanto succede, è uno di quei pezzi che avresti voluto scrivere tu:

Perché la sinistra ha smarrito la lezione della Costituzione

Le debolezze e gli errori che hanno condotto la sinistra, negli anni 80, a cambiare ideologia. L’Unità, 12 febbraio 2012

In Italia la subalternità all’egemonia liberale si è tradotta
in posizioni liberiste in economia e in una cultura istituzionale tutta incentrata su governabilità e legittimazione diretta

I lunghi anni Ottanta, racchiusi tra l’offensiva craxiana per la rottura dei consolidati equilibri partitici del Paese e lo choc del crollo del Muro di Berlino, hanno segnato un punto di svolta per le strategie politiche e per la cultura delle forze che, oggi, compongono il centrosinistra (aprendo una vicenda che ha esibito tratti peculiari, in parte diversi da quelli che hanno caratterizzato altre esperienze europee dei medesimi anni).

È comprensibile che la discussione si sia concentrata soprattutto sulla questione delle strategie, che aveva un’urgenza irresistibile e reclamava decisioni immediate e operative, ma gli effetti più profondi e di più lungo periodo si sono prodotti sul terreno della cultura – o, se si preferisce, della cultura politica – delle forze che furono sottoposte al duplice stress del protagonismo craxiano e della dissoluzione degli equilibri postbellici.

Già il solidarismo cattolico-sociale sembrava cominciare a conoscere, a partire da quegli anni, una fase di ripensamento e pareva subire la spinta ad accreditare più i punti di contatto che quelli di differenziazione rispetto al liberalismo e allo stesso liberismo. Ma era soprattutto nella cultura politica comunista, che pure poteva contare su un grande patrimonio, che giacevano elementi critici che rendevano difficoltoso raccogliere la sfida delle novità: almeno a un livello intermedio, la grande tradizione culturale liberale non sempre era conosciuta appieno e chi la conosceva non sempre vi si confrontava a viso aperto, senza pregiudiziali ideologiche e senza ricorrere all’argumentum ex auctoritate (che voleva che certe tesi fossero sbagliate solo perché non avevano trovato accoglienza in qualche vulgata di facile successo).

Era fatale che questi elementi di debolezza, uniti a un’ingiustificabile spinta all’abbandono del patrimonio posseduto, a torto stimato quasi interamente “vecchio” e inutile per la comprensione del “nuovo” avanzante, generassero una grave subalternità culturale, che per un verso si traduceva nell’acritica accettazione di tutto quanto si era ignorato o avversato, e per l’altro incideva sulle stesse strategie politiche, che, prive di un robusto basamento di convincimenti teorici, subivano oscillazioni, tanto più pericolose quanto più spregiudicata si faceva l’iniziativa politica di molte forze politiche avversarie.

I segni di questa subalternità culturale sono stati e in qualche caso sono ancora evidenti, e basta ricordarne alcuni. Sul piano della cultura istituzionale, ad esempio, si è a lungo dimenticata la complessità strutturale e funzionale delle democrazie rappresentative, concentrando l’attenzione sulla sola questione della governabilità e della legittimazione (pretesamente) diretta degli esecutivi, trascurando la lezione impartita dalla stessa Costituzione, nella quale era stato disegnato un complesso meccanismo di produzione della decisione pubblica, che doveva muovere dai cittadini (titolari di diritti qualificabili come frammenti di vera sovranità), passare attraverso i partiti (intesi come strumenti di partecipazione e di emancipazione democratica), delinearsi nelle assemblee rappresentative (come luogo del confronto, non solo dello scontro), definirsi compiutamente in sede di governo.

Il distorto bipolarismo italiano non è frutto soltanto del caso o delle scelte del centrodestra, ma anche di un’ideologia maggioritaria che della tradizione politica liberale sembra conoscere Schumpeter, ma non Locke o Tocqueville.

Né le cose vanno diversamente sul piano della cultura economica. Anche qui sembra che si sia abbracciato Hayek senza passare per Smith o Ricardo o, men che meno, Keynes. Anche qui la lezione della Costituzione appare dimenticata. Il suo articolo 41 garantisce, certo, la libertà dell’iniziativa economica privata, ma allo stesso tempo ne subordina l’esercizio al rispetto dell’utilità sociale, della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Quali sono, nelle posizioni dell’attuale centrosinistra, i segni che si ritiene prioritario impegnarsi per definire cosa sia oggi, in questo momento storico, l’utilità sociale? Quali i segni che non ci si accontenta di farla coincidere con il risultato della competizione retta dai meccanismi della libera concorrenza? Eppure già i classici dell’economia politica sapevano che l’interesse generale non è la sommatoria di quelli individuali e nemmeno il risultato automatico del loro libero confronto. L’utilità sociale dovrebbe essere definita politicamente, ma chi ne è ancora consapevole?

Le parole hanno spesso una grande forza evocativa e quando si parla di concorrenza “libera” o di “liberalizzazioni” si ha l’impressione che un giogo sia stato rimosso, che l’arroganza del potere sia stata battuta. Ma non è sempre così.

Certe scelte economiche e normative implicano significative conseguenze sociali, che andrebbero considerate. Acquistare una maglietta a qualsiasi ora del giorno e della notte, certo, è una bella comodità. Ed è anche un bel vantaggio pagarla meno del solito, se si può comprarla in un grande esercizio commerciale che ha forti economie di scala. Ma tutto questo ha un costo. In termini di alterazione degli stili di vita, di deterioramento dei processi di socializzazione, di lacerazione della trama del tessuto produttivo, di riduzione delle reali opportunità di scelta, di incisione nelle garanzie effettive e concrete (quelle che contano davvero) dei lavoratori.

La retorica della sovranità dei consumatori è penetrata a fondo nella cultura del centrosinistra e ha fatto grandi guasti. Quella del consumatore è per definizione una figura apolitica o tutt’al più prepolitica. È al cittadino, al soggetto politico, che spetta la sovranità.

Anche questo è un insegnamento della Costituzione. E le forze politiche che, giustamente, continuano a difenderla hanno un dovere di coerenza, perché la Costituzione non è solo una bandiera da agitare per evitare il peggio o per evocare le ragioni unificanti della comunità politica, ma è anche e soprattutto un grande progetto di trasformazione sociale, di emancipazione della persona umana, di conciliazione delle ragioni della libertà con quelle dell’eguaglianza.

Credo che di questo si debba tornare a discutere.

L’ingrediente per lo sviluppo economico: l’umanità

Massimo Gramellini nel suo editoriale di oggi lo dice senza mezzi termini e, finalmente, alza la discussione. Perché in mezzo alle battute dei ministri, ai sorrisi compiaciuti di qualche berluscones non ancora estinto e di alcuni democratici con un’irrefrenabile strabismo liberista ci siamo dimenticati delle fragilità e delle solitudini. E mentre si gioca (come scrive bene Alessandro Gilioli) a fare i liberisti con il culo degli altri vogliono farci credere che la solidarietà è una debolezza e i deboli un costo non sostenibile e fastidioso. Adesso vuoi vedere che il “restiamo umani” di Vittorio Arrigoni non è solo questione di razze e territorio ma un grido d’allarme più alto e vasto? Perché il gioco dei duri che ce l’hanno duro l’abbiamo inventato noi in Lombardia qualche decennio fa riuscendo a costruire classi sempre più distanti, incazzate tra loro e difficilmente dialoganti, e la strategia del “divide et impera” conviene sempre a chi impera. Gli altri rimangono lacerati, più che divisi.

Desiderava fare qualcosa che non lasciasse possibilità di ritorno. Desiderava distruggere brutalmente tutto il passato dei suoi ultimi sette anni. Era la vertigine. L’ottenebrante, irresistibile desiderio di cadere. La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso. (Milan Kundera)