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Formigoni e l’articolo 18: ecco il testo

Voleva fare il Presidente del Consiglio da grande, il Celeste Roberto Fromigoni ventennale Governatore di Regione Lombardia. Ma nonostante le camicie adolescenziali la sua strada si è fermata ai troppi arresti dei suoi amici più cari, al San Raffaele affondato nei bilanci e nella credibilità morale, alla pazienza troppe volte persa negli ultimi tempi. Ora, visto che non potrà fare il grande salto, si accontenta di provare ad imitare gli spigoli peggiori del Governo Nazionale: la sua ultima PROPOSTA DI PROGETTO DI LEGGE “MISURE PER LA CRESCITA, LO SVILUPPO E L’OCCUPAZIONE” è il manifesto del sistema lombardo. Quello che privatizza chiamandola liberalità. E siccome ne sentirete parlare spesso nei prossimi giorni (già se ne parla qui o qui) e poiché tutti esprimeranno opinioni secondo le proprie convinzioni ma conoscere per deliberare è indispensabile, ecco il testo scaricabile della proposta in questione. Discutiamone insieme.

ASSOSEMPIONE recensisce il libro NOMI COGNOMI E INFAMI


Milano – “A Milano la mafia non c’è” Affermava negli anni ’80, al colmo nella Milano da bere (forse aveva bevuto troppo) il sindaco Paolo Pillitteri. Con giuliva cadenza sino a pochi mesi fa anche Letizia Moratti (la mamma del Batman meneghino) scandiva che la mafia “Non appartiene a questa città”, probabilmente non consapevole del fatto che era la città ad appartenere alla mafia.
Nel frattempo con bavosa tracotanza il leghista Maroni dopo avere saturato tutti i mezzi di informazione possibili, imponeva a Saviano, reo di avere detto che esiste la mafia in Lombardia e fa di tutto per “relazionarsi” con chi governa, un suo elenco di “cose fatte”.
“Che la ‘Ndrangheta stesse colonizzando Milano, lo dicevo negli anni ’80. L’ho confermato due anni fa e i fatti mi hanno dato ragione. Ora c’è l’Expo e non so più come dirlo”. Parole di Enzo Macrì, sostituo procuratore nazionale antimafia. Giulio Cavalli di questo e molto altro scrive nel libro, con prefazione di Carlo Caselli, “Nomi , cognomi e infami” (Edizioni Ambiente, pagg. 244, € 16). Giulio Cavalli, con i suoi spettacoli teatrali, documenta da anni con tagliente ironia, la presenza della mafia nella città della Borsa; per questo da oltre due anni vive sotto scorta.
Due distinti capitoli spiegano come nei suoi confronti si sia manifestata una sincera e cosciente solidarietà nelle regioni del sud, al contrario inesistente in Lombardia, sua regione d’origine.
Per non dimenticare l’autore fa riemergere dalla memoria il ricordo di uomini uccisi dalle mafie, come Don Diana, bruno Caccia, Giuseppe Fava e molti altri.
Gli spazi lasciati all’immaginazione sono minimi e quando ci sono sfiorano la poesia, altresì Giulio Cavalli documenta tutto: nomi, luoghi, testimonianze, fatti, come l’elezione del boss Pino Neri a Paderno Dugnano sancita in un centro intitolato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
E’ scrittura palpitante quella di Giulio Cavalli, di rabbia e speranza, di ironia e sentimento, di umanità e perseveranza, sino a fargli affermare che “ridere di mafia è una ribellione incontrollabile”.
Mauro Bianchini
L’articolo qui.

“La mafia in Lombardia è figlia dell’indifferenza”


Giulio Cavalli ha parlato della criminalità organizzata al nord in una serata organizzata da Anpi, Arci, Legambiente e Libera (da VARESENEWS)

«In Lombardia la mafia veste l’abito del salotto buono. Non lascia i morti ammazzati sui marciapiedi ma si dirama attraverso la corruzione e il riciclaggio. E questi, credetemi, non sono reati minori». Per Giulio Cavalli conoscenza e consapevolezza sono la prima arma contro la criminalità organizzata. Un’arma non da poco, «che le mafie temono perché hanno paura delle persone che studiano, della cultura della conoscenza». L’attore e politico è stato ospite ieri sera del comune di Cantello, per un incontro promosso da Anpi, Arci, Legambiente e Libera. Intervistato dal vicedirettore di VareseNews, Michele Mancino, ha raccontato come è cambiato il volto delle mafie nel nostro paese, come è in realtà poco cinematografico quello dei boss e cosa negli anni ha permesso alla malavita di arrivare a stendere le mani anche sulla nostra regione.

«Se dovessimo descrivere oggi la Lombardia a uno straniero dovremmo parlare anche dei suoi “problemini”: partiamo dagli arresti dei politici regionali. Formigoni ha preso la distanze dai consiglieri Nicoli Cristiani e Ponzoni parlando di “responsabilità personale” ma la verità è che abbiamo assistito all’ennesima tipica vicenda lombarda. Quello che è accaduto è tipico perché sono state candidate persone inopportune nonostante si sapesse che erano in contatto da anni con esponenti della criminalità. In questo comportamento si nota tutta la carenza della politica regionale e di quella nazionale che considerano inopportuno solo chi è dichiarato colpevole al terzo grado di giudizio. Forse qualche domanda avrebbero dovuto farsela prima… Poi abbiamo la vicenda dei rifiuti nascosti sotto il manto della Brebemi, perché ci sono, i nuovi processi contro le cosche insediate nei comuni strategici di provincia o ancora i dati che ci dicono che 9 appalti su 10 non rispondono ai requisiti della normativa antimafia. Insomma il quadro è preoccupante».

Chi ha amministrato la nostra regione fino adesso, sostiene Cavalli, si è “dimenticato” di mettere in guardia i cittadini sui pericoli del cambiamento in corso: «Siamo passati dal dire “Al Nord non esiste la mafia” a “Siamo in una situazione di emergenza”, senza passare dalla fase in cui forse si poteva fare qualcosa. La Lombardia su questo tema è passata da regione indifferente a regione ignorante. Un’ignoranza figlia di quell’indifferenza e di mancanza di sensibilità. Dobbiamo chiederci come persone che non rivestono nemmeno cariche politiche siano in grado di influenzare se non addirittura prendere le decisioni degli assessori. Più la mafia si rafforza ed entra in contatto con la politica più la democrazia ne esce sconfitta». Cosa possono fare allora i cittadini? «Prima di tutto restare aggiornati, leggere, informarsi. E poi chiedere conto. In regione le persone si possono ancora scegliere, chiediamo i risultati a chi abbiamo votato».

9/02/2012
m.c.c.mariacarla.cebrelli@varesenews.it

Il pizzo nel DNA

La relazione della Direzione Investigativa Antimafia parla chiaro: “Il ricorso all’usura, unitamente alle pratiche estorsive, è da ritenersi un vero e proprio sistema tipico ed irrinunciabile, utilizzato da tutti i sodalizi per il controllo delittuoso del territorio e strumentale all’applicazione del potere mafioso dell’intimidazione. […] L’imposizione del cosiddetto “pizzo” rimane, dunque, una pratica diffusa, anche per via di una subcultura che valuta, in modo assolutamente acquiescente, la “convenienza a pagare”, rispetto alla minaccia paventata. Di conseguenza, il racket trova quasi quotidianamente nuova linfa, imponendosi come manifestazione radicata nel territorio e costituendo, per le organizzazioni mafiose, una pratica assolutamente remunerativa per l’ingente accumulazione finanziaria connessa”. L’analisi della Rete Antimafia della Provincia di Brescia (sempre attenta e precisa) non lascia dubbi. Come si evince da queste parole il pizzo resta ad oggi una pratica molto diffusa nel mondo criminale, assolutamente pericolosa in quanto in grado non solo di incrementare notevolmente il patrimonio economico dei malavitosi, ma anche di permettere un capillare controllo del territorio. Il fenomeno del racket è da sempre visto come una piaga lontana, un elemento tipico del sud, dove la mafia spadroneggia senza troppo disturbo. I dati dicono:anche in Lombardia.

Milano 70 allora

E’ lo spettacolo che il collega (e amico) Walter Leonardi porta domani sera al nostro piccolo Teatro Nebiolo. Ed è uno spettacolo importante per capire che le generazioni insegnano e raccontano più di quanto si possa credere per avere almeno le chiavi di lettura. Per leggere Milano oggi. E per non perdere il filo rosso. Io sono lì. Fateci un salto. NFO: tel 0371 761268, cel. 331 92 87 538 / e-m@il. info@teatronebiolo.org / sito www.teatronebiolo.org

A Milano negli anni 70 c’era molto più inverno di ora. 
A Milano negli anni 70 c’era molta più nebbia di adesso. 
A Milano negli anni 70 c’era Jannacci che lui è un dottore, si è laureato, chissà che ridere in reparto i suoi pazienti e allora io mi immaginavo lui con il camice in corsia che cantava tutto il giorno «el portava i scarp del tennis» e i pazienti che morivano. 
A Milano negli anni 70 c’erano il catechismo il mercoledì che era brutto, l’elastico il cemento, il mondo e lo scheitbord che era bello. 
A Milano negli anni 70 c’era in piazza del Duomo una signora fatta di luci che batteva a macchina. Quello per me era il lavoro. Tutti negli anni 70 lavoravano così. 
A Milano negli anni 70 c’era piazza del Duomo con le macchine che ci passavano e che poi non potevano più perché se no il Duomo veniva giù e siccome non lo avevano ancora finito di fare era un peccato. 

No. Non mi fermo

In queste ultime settimane mi sono arrivati ‘segnali’ crescenti non propriamente amichevoli, curiosamente collegabili con alcune notizie, gare d’appalto e una strana attenzione su miei interventi circa personaggi poco raccomandabili uniti da comunione d’interessi, appartenenza e tutti quasi concittadini tra loro. Non mi è mai piaciuto e non mi piace alimentare questa banale litanìa di minacce e scortati ma questa volta (tanto ormai ci abbiamo fatto il callo) non posso non notare come l’impunità di alcuni personaggi in Lombardia (riferibili in modi e gradi diversi a storiche famiglie mafiose) stia non solo nell’infilarsi tra le pieghe della politica e dell’imprenditoria, delle istituzioni e, perché no, di pezzi della società civile ma soprattutto nell’arrogante sfrontatezza con cui esprimono il proprio dissenso (diciamo così, va). E allora l’allarme sta nella terribile sensazione che loro confidino in una protezione “sociale” molto più vasta di quella garantita da questo o quel rappresentante istituzionale. Un virus che si nutre soprattutto della pavidità dei territori e che forse troppo spesso abbiamo voluto comodamente relegare a questo o quel boss, questo o quel politico, questo o quel settore imprenditoriale, dimenticando come l’indifferenza del cittadino sia l’inconsapevole alleato migliore. Ho sempre preso tutto con il sorriso (che, vi avviso, non si è per niente spento) ma con un’affezionata serietà; e qualsiasi sia il senso di questi ultimi giorni (e noi qualche idea sul senso ce l’abbiamo) continuo sereno il mio lavoro (e continuano i miei collaboratori) con la lampadina accesa forse per una buona strada.

Pochi anni fa sarebbe stato impensabile vedere una Lombardia così ricca di fremiti, comitati e energie sul tema delle mafie (prima erano inesistenti, poi infiltrate e ora convergenti, finalmente) e non credano (loro) che la paura sia un’arma ancora vincente. Siamo tanti, troppi per essere identificabili come portatori unici di un’inarrestabile voglia di presidiare con stampo antimafioso. E la tutela è tutta in questa moltitudine.

No. Non mi fermo. Non mi interessano i consigli (chiamiamoli così, va) e le ‘timidezze’ (chiamiamole così, va) di qualcuno. Abbiamo troppe cose da fare, progetti da realizzare, curiosità da soddisfare e storie da raccontare per perdere un secondo di più di quelli che servono per scrivere questo post.

Morire per non riuscire a pentirsi

“Se le pagine del processo che saranno a breve esaminate non fotografassero una realtà brutale e soffocante, si potrebbe credere di leggere l’appassionante scenografia di un film, nella quale una giovane donna di soli 31 anni, madre di tre figli e costretta a vivere una vita che non le appartiene, decide in un anonimo pomeriggio di fine estate di togliersi la vita, ingerendo acido muriatico, nella disperata illusione di poter riacquistare la tanta sognata libertà”. Lo scrive il GIP di Palmi sulla vicenda terribilmente vera di Maria Concetta Cacciola che si è uccisa bevendo acido muriatico dopo essere stata costretta a ritrattare le proprie accuse con cui coraggiosamente aveva puntato il dito contro i propri famigliari (mafiosi). Voleva riuscire a scappare e non ci è riuscita. E ogni volta che non si riesce ad abbracciare, confortare e proteggere una coraggiosa testimone di giustizia questo Paese retrocede di chilometri nel campo della credibilità.

Occupiamoci di Denise Cosco

“Per un serio percorso, non solo legislativo, ma di sensibilizzazione e alfabetizzazione sulle convergenze mafiose in Lombardia è necessario dimostrare il proprio impegno, la propria attenzione e la propria vicinanza ai buchi neri aperti dalla presenza della ‘ndrangheta. E in primis sono chiamate a farlo le istituzioni.

Il 24 novembre 2009 Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia, è stata rapita a Milano, torturata e sciolta nell’acido dai complici del marito ‘ndranghetista Carlo Cosco. Una vicenda terrificante che non ha risvolti solo giudiziari, ma anche profondamente umani.

Oggi sua figlia, Denise Cosco, combatte – e lo fa da mesi con grande dignità e inesauribile forza – il dolore per la perdita della madre e il peso delle deposizioni in Aula. Perché si è costituita parte civile al processo contro il padre, insieme alla nonna materna, alla sorella di Lea e al Comune di Milano. Lontanissima dai canoni dell’antimafia tutta telecamere e lustrini, come molti altri sconosciuti in Italia, porta avanti la sua battaglia sotto il programma di protezione per i testimoni di giustizia, con il bisogno di sparire per salvarsi.

Pensiamo che Regione Lombardia abbia il dovere e l’obbligo morale di esprimerle il proprio sostegno, con atti concreti. In tal senso, abbiamo presentato una mozione che impegna Formigoni e la Giunta a supportarla nel suo percorso di studi, anche attraverso la costituzione di un apposito fondo. Ora ci aspettiamo che venga al più presto discussa e votata all’unanimità.

I nostri figli ci chiederanno perché siamo stati così troppo poco vivi per permettere un omicidio tanto efferato. E ci chiederanno cosa abbiamo fatto per Denise, almeno per lei. Questo può essere un primo piccolo passo”.

Laurea straccia?

Una giusta riflessione di Pietro BevilacquaQuello che gli abolizionisti e in generale i “riformatori neoliberisti”, ispiratori spesso di queste amenità, non considerano è che le Università italiane non sono state create semplicemente per consentire ai cittadini di accedere ai concorsi, ma incarnano un percorso di formazione. Sono un patrimonio pubblico, che si è consolidato nel tempo, che è fatto della storia delle varie discipline scientifiche, delle diverse scuole accademiche, dei saperi, delle norme e dottrine destinate a formare le classi dirigenti del paese. Le università, da noi più che altrove, sono la sede storica delle diverse comunità scientifiche. In questo grande collettivo di studi si sono formati e si vanno formando non solo dei professionisti, ma il corpo intellettuale della nazione, con la sua identità e i suoi valori condivisi. Qui risiede la legalità, nel senso più alto, dei saperi che il nostro paese produce con la sua straordinaria e creativa operosità. Che senso ha, dunque, smembrare questo patrimonio in cui una parte estesa degli italiani riconosce le sue conquiste più alte? Che senso ha svalutare un lascito straordinario del nostro passato, ingiustamente vilipeso negli ultimi tempi per episodi certamente gravi di corruzione, ma che solo il moralismo indiscriminato e il neoliberismo interessato hanno potuto trasformare in una generale svilimento del nostro sistema formativo?