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Mimun ritira la firma dal Tg5, è resa dei conti con Pier Silvio. La proprietà non vuole interferenze mentre Mediaset si conferma regina del trash

Acque agitate in casa Mediaset dove due giorni fa il Tg5 è andato in onda senza la firma del suo direttore. Clemente Mimun ha deciso di prendere posizione contro il suo editore, quel Pier Silvio Berlusconi che due settimana fa ha inaspettatamente promosso condirettrice la giornalista Cesara Buonamici. Mimun non l’ha presa benissimo.

E pensare che solo ad agosto elogiava la sua giornalista di punta in un’intervista a Chi, quando Berlusconi decise di spedirla nello studio del Grande Fratello con la speranza che funzionasse da argine al trash di Alfonso Signorini: “Come vedo Cesara Buonamici come opinionista del Gf Vip? Quando Pier Silvio mi ha chiesto cosa pensassi gli ho detto che era un’ottima idea. E poi c’è e ci sarà sintonia fra lei e Alfonso Signorini. Ogni volta che Signorini si collegava con lei al Tg5, prima della diretta del Gf Vip, le diceva: perché non vieni qui?’ Sono sicuro che questa scelta di Pier Silvio avrà successo“. Mimun non si sbagliava: quella scelta ha avuto un successo tale che ora con Buonamici gli tocca dividere la poltrona.

Rapporti tesi

Solo qualche mese fa Mimun aveva frustato la Rai in una lunga intervista al Corriere della Sera in occasione del suo settantesimo compleanno. “Alla Rai sono stato a lungo il panda non di centrosinistra, una specie di foglia di fico nelle nomine – ci spiegò Mimun – ci spiegò Mimun -. Ho visto cose, come diceva il protagonista di Blade Runner, che voi umani non potete nemmeno immaginare. Prepotenze e nepotismi. Una legge non scritta della Rai prevede che qualsiasi cosa faccia il centrosinistra è giusta ma se a spostare una fioriera è il centrodestra, allora è una barbarie. Francamente stucchevole”.

Buco nell’acqua

In quella stessa intervista Mimun santificò Silvio Berlusconi (“Mi salvò letteralmente, in quel momento era presidente del Consiglio”) e non mancò di lisciare anche il figlio Pier Silvio: “Pier Silvio Berlusconi è molto attento anche all’informazione – disse il direttore del Tg5 -. Vuole qualità e ascolti. Evidentemente è un vizio che si tramanda nelle generazioni. Sono certo che sarà accanto e valorizzerà sempre il Tg5 che considera uno dei suoi gioielli di famiglia”. Ma se la battaglia promessa da Pier Silvio Berlusconi era quella di eliminare il trash probabilmente a Cologno Monzese sono ancora in alto mare.

A oggi l’unica a essere stata immolata sembra Barbara D’Urso (sostituita da Myrta Merlino ben di sotto degli ascolti che la rete si aspettava). Mentre sulle reti del Biscione continuano a imperversare programmi trash molto più pericolosi di qualche bislacco personaggio o cantante neomelodico che infoltivano il salotto della D’Urso: da Mario Giordano ai suoi epigoni Mediaset insiste nel trasformare l’informazione in una rissa da bar in cui vince l’urlo più forte.

Bandiera… bianca

Non basta ospitare Bianca Berlinguer per ritenersi mondati. Solo negli ultimi giorni nei cosiddetti programmi di punta dell’informazione alla corte di Pier Silvio è accaduto che Giordano abbia lanciato lo scoop inesistente sull’ex ministro Speranza indagato “per le bugie sulla pandemia” mentre tutti già sapevano che siamo sul limite dell’archiviazione. Per irridere le donne che denunciano il patriarcato ha mandato in onda un servizio sulle aggressioni di stranieri alle donne (ovviamente virando il tutto sulla xenofobia) dimenticando di citare i dati del contesto generale.

A Diritto e rovescio, la trasmissione condotta da Paolo Del Debbio, va in onda la guerra ai “maranza” (li chiamano giornalisticamente così) in cui il conduttore duella con qualche ragazzino sbruffone che viene preso come paradigma della sbruffonaggine degli immigrati in Italia. Il livello è questo. Sarà per questo che a ottobre la grande battaglia contro il trash di Pier Silvio Berlusconi sembra essersi smussata. “Insomma – disse l’editore in un’intervista al Corriere della Sera – mi sembra che quello che con snobismo viene chiamato ‘trash televisivo’ si riferisca unicamente a singoli momenti infelici, tv fatta bene o fatta male. Ma se, come è giusto, si lascia libertà a chi ha il compito di creare contenuti sempre caldi e sempre vivi, può capitare di andare oltre. E noi dobbiamo fare tutto il possibile per evitare eccessi.

Eccessi che fortunatamente rappresentano una quota minima rispetto a una televisione di grande qualità e ricchezza come quella che va in onda ventiquattr’ore al giorno su decine e decine di canali italiani, pubblici e privati”. Eccessi che – questo lo aggiungiamo noi – hanno provocato un mezzo terremoto a Palazzo Chigi con i video del compagno della presidente del Consiglio, Andrea Giambruno, che è finito sule copertina dei giornali di tutto il mondo. Giambruno che è stato promosso (vale la pena ricordarlo) da Pier Silvio Berlusconi. Lo stesso che chiama gli eccessi “quota minima” e ora ha un direttore di Tg che non firma le edizioni che vanno in onda.

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In piazza per Giulia tra montagne di ipocrisia

Oggi accanto alla piazza, provando a soffiarci sopra, va in onda l’ipocrisia. Certa politica colta in contropiede dalle rifrazioni della morte di Giulia Cecchettin indossa la tonaca del lutto sperando di riuscire a dare qualche colpo di gomito. Fingeranno di non sapere che il governo Meloni ha tagliato il 70% delle risorse per la prevenzione della violenza contro le donne. Dai 17 milioni del 2022 stanziati dal governo Draghi si è passati ai 5 milioni del 2023.

Denari concentrati per lo più sulla parte di repressione, a reato ormai compiuto, quando le donne sono già state ammazzate. In più, come sottolinea il report di ActionAid, il governo Meloni è stato anche molto poco attivo nella sua iniziativa legislativa diretta al contrasto della violenza di genere. Dalla sua entrata in carica, i partiti della coalizione di destra hanno presentato solo 53 proposte normative o atti non legislativi per combattere la violenza contro le donne.

Mentre i partiti di opposizione ne hanno presentati complessivamente ben 306, di cui 189 proposte normative, Fingeranno di non sapere che quest’anno ogni quattro giorni è stata uccisa una donna, e circa tre su dieci sono state vittime di una forma di violenza fisica o sessuale durante la loro vita.

Inoltre, in base a un’indagine conoscitiva, almeno sette donne su dieci hanno subìto violenze o abusi non denunciati. Le organizzatrici della marcia hanno chiesto che non ci siano bandiere di partito, volendo dire che anche i partiti ora dovrebbero provare ad ascoltare. Oggi invece sarà un profluvio di retorica politica. Chissà quanti parlamentari sanno quante sono le donne morte dopo Giulia Checchettin.

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Ma che vi siete fumati? Spot farsa del Governo sulla cannabis

Il governo ha sfornato uno spot contro la droga ed è riuscito a sbagliare anche quello. La nuova campagna contro le sostanze stupefacenti dei dipartimenti per le Politiche antidroga e di quello dell’Informazione e dell’editoria della Presidenza del Consiglio ha un claim tutto sbagliato: “è un attimo che passi ad altre droghe”, si legge.

Il Governo ha sfornato uno spot contro la droga ed è riuscito a sbagliare anche quello

Nel video c’è un ragazzino giovanissimo che fa la paternale a un suo amico più grande che sta rollando una canna. Il piccolo avvisa il grande che si passa “in un attimo ad altre sostanze stupefacenti. Tutte le droghe fanno male”. Voce fuori campo: “Migliaia di persone ogni anno vanno al pronto soccorso per patologie legate alle sostanze stupefacenti, un decimo di loro è minorenne”.

Passare alle droghe pesanti è un attimo: ultima Fake news. La campagna smentita dalla scienza. Non c’è correlazione tra cannabis e altre sostanze

Non sia mai che vengano dati numeri precisi, lo spot è la versione televisiva delle chiacchiere da bar. Peccato che la tesi non stia in piedi. Il fatto che una persona faccia uso di cannabis non implica di per sé che prima o poi passi all’uso di altre sostanze stupefacenti. A smentire questa affermazione è da tempo la scienza in diversi studi e la realtà. Gi studi dimostrano che l’usare frequentemente cannabis in realtà è inversamente correlato all’uso di altre sostanze, mentre pochissimi dei 20 milioni di italiani che hanno usato cannabis nella vita sono poi passati ad altro.

Inoltre numerosi studi dimostrano che la cannabis sia utile come sostanza di uscita dalle dipendenze da sostanze più pesanti come eroina e cocaina, che è una alternativa medica ai farmaci oppioidi e il suo uso terapeutico diminuisce le morti per overdose da oppiacei.

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Mezza… Verità su Speranza. Sul ministro indagato già chiesta l’archiviazione

In sofferenza per mancanza di pandemia La Verità di Maurizio Belpietro ieri ha sfornato una prima pagina e una conseguente brutta figura. Andiamo con ordine. Nelle edicole d’Italia ieri il quotidiano titolava: “Speranza indagato per omicidio”. Per il quotidiano ci sarebbero “clamorosi sviluppi” della loro inchiesta. “All’ex ministro contestati anche somministrazione di medicinali guasti e falso”, scrivono i giornalisti. Imperdibili poi gli editoriali in appoggio. “Siamo arrivati alla resa dei conti – scrive Marianna Canè -. Le gigantesche bugie, le intollerabili omissioni, i dati falsati, tutte le mancanze nella gestione della campagna vaccinale…”. E così via.

In sofferenza per mancanza di pandemia La Verità di Belpietro ieri ha sfornato una prima pagina su Speranza e una conseguente brutta figura

Lo sfortunato lettore ieri avrà pensato che sarebbe venuto giù tutto, che davvero il grande complotto universale fosse stato mascherato. Ormai a cercare improbabili complotti in epoca di pandemia sono rimasti solo i giornalisti de La Verità per non dovere chiedere scusa e Matteo Renzi per cercare la sua solita vendetta politica. Invece cosa è accaduto? In mattinata una nota di agenzia spegne gli entusiasmi. “In merito a notizie di stampa relative all’iscrizione dell’ex ministro della Salute, Roberto Speranza, al registro degli indagati presso la Procura di Roma, a seguito di alcune denunce in materia di vaccini, si precisa che gli atti sono stati inoltrati al competente Tribunale dei ministri con contestuale richiesta di archiviazione”, scrive il legale dell’ex ministro, Danilo Leva.

Ma la giornata è nera su tutti i fronti perché ore dopo arriva anche la notizia dell’archiviazione sul piano pandemico durante la pandemia. La procura di Roma ha chiesto al gip di “archiviare la posizione di nove persone indagate nell’inchiesta sul piano pandemico”. L’indagine – che doveva essere uno scoop – era partita da Bergamo e Brescia ed era poi arrivata nella Capitale per competenza territoriale. Tra gli indagati nei confronti dei quali è stata sollecitata, dai magistrati, l’archiviazione ci sono l’ex presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, per il quale era stata ipotizzata la truffa in riferimento a erogazioni pubbliche e l’ex numero due dell’Organizzazione mondiale della Sanità Oms) Ranieri Guerra. Tutti grandi nemici del quotidiano di Belpietro.

Proprio ieri la Procura di Roma ha archiviato numerose inchieste sul Covid cavalcate dal giornale diretto da Belpietro

Le accuse contestate, a vario titolo e a seconda delle posizioni, erano di rifiuto e omissioni in atti d’ufficio, falso e truffa. Lo scorso giugno le posizioni dei tre ex ministri della Salute, Speranza, Giulia Grillo e Beatrice Lorenzin, sono già state definite con un decreto di archiviazione dal tribunale dei ministri di Roma. Ora, dopo l’attività istruttoria svolta dai pm, è stata chiesta al gip l’archiviazione anche delle altre posizioni. Tra questi, oltre a Brusaferro e Guerra, cinque dirigenti del ministero della Salute, Claudio D’Amario, Francesco Maraglino, Loredana Vellucci, Mauro Dionisio e Maria Grazia Pompa, l’allora direttore generale della Prevenzione del Ministero della salute Giuseppe Ruocco e l’ex capo della Protezione Civile Angelo Borrelli.

Una richiesta di archiviazione che, a quanto si apprende, si fonda sull’assenza di responsabilità penale in relazione alla mancata revisione del piano pandemico, il cui obbligo di aggiornamento era legato al cambiamento della situazione epidemiologica. Un piano che, secondo quanto emerso, era già in fase di aggiornamento. La Verità ieri è uscita in versione ridotta – mezza… Verità – scordandosi che le notizie si dovrebbero dare per intere e non solo sulla base della accuse. Chissà come ci rimarranno male i suoi lettori appena scopriranno la verità tutta intera.

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Le donne, le violenze e quei telefoni che squillano a vuoto

Non sono ancora del tutto esplorati gli agghiaccianti particolari della morte di Giulia Cecchettin, ennesimo femminicidio che ha scosso l’opinione pubblica costringendo un Paese intero a occuparsi dei femminicidi che solitamente scivolano scritti (male) negli angoli delle pagine di cronaca nera. C’è altro, oltre alle descrizioni minuziose dei luoghi e dei colpi, addirittura fatte a fumetto in attesa che arrivi magari il solito plastico. Nell’assassinio di Giulia per mano del suo ex fidanzato Filippo Turetta i magistrati vogliono vederci chiaro sulla telefonata di un testimone che alle 23.18 chiamò il 112 raccontando di avere assistito alla prima aggressione di Filippo nei confronti di Giulia. Quella chiamata non convinse i carabinieri di Vigonovo che ritennero non urgente l’intervento. Ma secondo un’indiscrezione dell’agenzia Lapresse la procura di Venezia starebbe verificando l’esistenza di una seconda chiamata al 112 rimasta senza seguito. Ad effettuarla, un’ora dopo quella del testimone, sarebbe stato un addetto alla vigilanza dello stabilimento di Fossà davanti al quale è iniziata l’aggressione. Non urgente.

Forse sarebbe il caso che anche le forze dell’ordine aprano un’ampia riflessione sulla sensibilità con cui approcciano e hanno approcciato i casi di donne a rischio in questo Paese. A certificarlo, solo in questi ultimi giorni,  c’è quell’orrendo verbale proprio dei carabinieri di Vigonovo che ipotizzava nella prima denuncia un “allontanamento volontario”di Giulia e ci sono le centinaia di testimonianze di donne che hanno commentato un post su Instagram della Polizia di Stato elencando le innumerevoli volte in cui non sono state ascoltate. I commenti erano stati cancellati e disabilitati. Sono stati ripristinati e riaperti dopo le proteste di molti. Appunto.

Così tanto per cominciare, per metterci in discussione tutti, proprio tutti.

Buon venerdì. 

Nella foto: Giulia Cecchettin, frame di un video di un programma Rai

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L’anti-italiano olandese. Festeggiato da Salvini. Matteo loda Wilders che voleva toglierci il Pnrr

Con leader accomunati dalle singolari capigliature la destra sovranista e oscurantista ha assestato un colpo anche in Olanda con la vittoria alle elezioni di Geert Wilders, sessantenne tinto biondo ariano, che ha portato il suo partito (Partito per la libertà, Pvv) a essere il primo nel Paese.

In Olanda Geert Wilders, sessantenne tinto biondo ariano, ha portato il suo partito (Partito per la libertà, Pvv) a essere il primo nel Paese

Il programma è sempre il solito: un anti-islamismo, la guerra contro la stampa definita “feccia”, xenofobia contro quello “lo tsunami degli immigrati”. Per avere un’idea del personaggio bastano alcune sue affermazioni. Ad esempio: “L’Islam non è una religione, è un’ideologia, l’ideologia di una cultura retrogada. Ho un problema con la tradizione, la cultura e l’ideologia islamica. Non con i musulmani”. E poi, sull’Unione europea: “Esiste un’ottima alternativa all’Unione Europea: si chiama Associazione Europea di Libero Scambio, fondata nel 1960. Ne fanno parte Svizzera, Norvegia, Islanda e Liechtenstein. E.F.T.A. è sinonimo di amicizia e cooperazione attraverso il libero scambio”.

E poi: “Dovremmo svegliarci e dire a noi stessi: non sei uno xenofobo, non sei un razzista, non sei un pazzo se dici: la mia cultura è migliore della tua”. Sull’Italia invece ha detto: “I miei alleati non sono Le Pen o Haider. Non ci uniremo mai ai fascisti e ai Mussolini d’Italia. Ho molta paura di essere collegato ai gruppi fascisti di destra sbagliati”. Sempre sull’Italia è rimasta celebre anche l’immagine in cui teneva un cartello che chiedeva a Bruxelles di non dare “neanche un centesimo all’Italia!”. Per lui la soluzione era tassare di più i cittadini italiani. Chi si è congratulato con Wilders? Matteo Salvini, ovviamente, con la sua invidiabile capacità di essere sempre dalla parte sbagliata.

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L’intervento su La Stampa: Cavalli, noi uomini lupi. Dicono: “Non generalizzare”. Ma essere maschi da anni significa “sapersi imporre”

Ma chi è il lupo? Dicono, non generalizzare. Io sicuramente sono un lupo. Spieghiamoci. Sono nato nel tempo in cui la mascolinità si pesava nella capacità di imporre le proprie decisioni. Non è governare, è comandare. Genitori compiaciuti perché «il mio figliolo decide se il giro di amicizie esce questa sera, decide dove andare». Cose minime, sembravano. «Ha carattere», dicevano i professori. Nascere maschi a cavallo degli anni Ottanta in Italia è qualcosa che ha a che fare con la capacità di imporsi. Nessun sinonimo: imporre agli altri il proprio volere, per i quarantenni di oggi, è sinonimo di autorità, di pene lungo e abilità nell’ orientare le scelte.

L’autorità può essere scalfita solo da una variabile. Se un maschio mette in discussione la tua decisione è semplicemente un confronto, magari anche acceso. Se una femmina non accetta la tua decisione è un affronto. Le donne al fianco degli uomini servono per confermare e cristallizzare l’autorità, perfino l‘autorevolezza, in certi ambiti. Il nostro mondo è pieno di donne invidiabili per la capacità di stare al proprio posto, solo che il posto delle donne è uno spazio senza fisica: le donne che stanno al loro posto sono le donne che coincidono con l’ombra dell’uomo che accompagnano come scelta di vita. È il famoso passo indietro dove l’indietro è il perimetro dell’ombra.

Io sicuramente sono un lupo perché sono cresciuto nell’epoca in cui non fare apprezzamenti sulla prosperità delle forme di una donna era considerata una vigliaccheria al confine con l’omosessualità. Sia chiaro, non ho vissuto in mezzo a un’orda barbara di omofobi sessisti. Semplicemente l’apprezzamento verso l’altro sesso ha avuto sempre a che fare con la dichiarata volontà di possedere, che era un passo obbligatorio. Si tratta di una conformazione a cui non dai peso, che molti del gruppo considerano semplicemente un topos maschile, quasi atavico, che vede la dominazione come una declinazione del possesso. Nessuno di noi, quando ero adolescente, avrebbe mai pensato possibile ribellarsi a quella modalità. Non era questione di accettazione immorale, direi – ora – che fosse qualcosa che c’entrava con la fatica di scrivere un altro vocabolario della mascolinità.

Le chat, ad esempio. Le chat che escono ciclicamente sui giornali per denunciare i casi di “Me Too” sono molto simili alle chat in cui sono iscritto. Ho frequentato gli spogliatoi e conosco benissimo la grana animale che impedisce a un calciatore di dichiararsi qualsiasi altra cosa rispetto al maschio rovente. Anche in questo caso non si tratta di un’accolita di assassini pronti ad ammazzare o a stuprare ma si tratta di conversazioni private che se diventassero pubbliche distruggerebbero la credibilità degli iscritti. Loro – anzi, non mi condono – noi diremmo che si stava scherzando fingendo di non sapere che scherzando si partoriscono parole che generano realtà. Ho prevaricato una donna utilizzando il mio essere maschio, per di più privilegiato per mestiere e per posizione? Sì, certo. Qualche volta me ne sono accorto e molto più spesso mi sarà sfuggito. Ho scambiato il controllo come cura? Ovvio che sì. Troppo comodo per rinunciarci. Sono un lupo che è stato in grado di porsi dei limiti ma che potrebbe descrivere – come descrivo per mestiere – qualsiasi abuso perché ne conosco i meccanismi nativi da oppressore. Perfino scrivere delle vittime dallo scranno del potenziale carnefice è un privilegio.

Qui si arriva alla fatidica domanda: quindi vuoi dire che tutti gli uomini sono colpevoli per i femminicidi che accadono? Non cado nella trappola della generalizzazione utile allo scontro politico. Rispondo per me: io sì, io sono colpevole. Sono colpevole per la mala educazione che ho ricevuto, sono colpevole per l’istruzione che mi ha raccontato i maschi come artefici del proprio destino e solo di rimbalzo delle donne. Sono colpevole del concime che rende Filippo Turetta un bravo ragazzo dove la bravura sta solo nel mitigare i propri istinti più osceni. Anch’io per una vita ho trascinato fuori scena i comportamenti (miei e degli altri) al di là del dibattito sociale come se esistesse un “osceno” riservato ai maschi in cui nascondere il loro residuo tossico. Non arrivo ad ammazzare, per carità. Ma il germe è lo stesso.

Qualcuno dirà: «Si autodenuncia per giustificarsi». E anche questo è vero. Se dovessi scegliere un ruolo mi piacerebbe essere un testimone di giustizia di quest’epoca che le donne le uccide ma anche – e soprattutto – le logora. Quindi aspettiamo la grande rivoluzione culturale? Non so, non mi convince. Io – parlo di me, solo di me per non trasformare un pensiero in un paradigma – vedo i miei tre figli maschi enormemente migliori di me su questo punto. Ritengono inimmaginabili le lordure che a noi tocca nascondere. Ma soprattutto ci sono le donne. Lasciare spazio forse è già una prima soluzione.

https://www.lastampa.it/cronaca/2023/11/23/news/cavalli_noi_uomini_lupi_dicono_non_generalizzare_ma_essere_maschi_da_anni_significa_sapersi_imporre-13881243/

Fratelli d’Italia vuole processare pure la Gruber

Controllare tutto, tutto. L’ossessione della maggioranza si abbatte questa volta su Lilli Gruber e la rete televisiva La7 e vede come protagonista Federico Mollicone (nella foto), presidente della Commissione Editoria e responsabile nazionale cultura e innovazione di Fratelli d’Italia. Due giorni fa Mollicone ha deciso di immolarsi contro l’opinione che Gruber aveva espresso durante la sua trasmissione Otto e mezzo dicendo a Francesco Specchia di Libero, riferendosi a un titolo apparso proprio sul suo giornale, che “non si può negare che in Italia ci sia una forte cultura patriarcale e che questa destra-destra al potere non la stia contrastando tanto”.

L’ossessione della maggioranza si abbatte questa volta su Lilli Gruber e La7 e vede come protagonista Federico Mollicone

In prima battuta era stata proprio la presidente del Consiglio Giorgia Meloni a rispondere molto risentita. Meloni ha pubblicato sui social una foto che la ritrae con la figlia piccola, Ginevra, la mamma e la nonna accusando la giornalista di La7 di “strumentalizzare anche le tragedie più orribili (nella trasmissione condotta da Gruber si parlava dell’omicidio di Giulia Cecchettin, ndr). “Ora la nuova bizzarra tesi sostenuta da Lilli Gruber nella sua trasmissione di ieri sera è che io sarei espressione di una cultura patriarcale”, ha detto Meloni.

Avrebbe potuto finire lì, con la solita distonia tra la capa del potere esecutivo di uno Stato che risponde a una giornalista additandola ai suoi seguaci ma al prode Mollicone evidentemente non bastava e per questo ha deciso di vergare un comunicato stampa in cui denunciava che “ogni giorno di più, la trasmissione Otto e mezzo dimostra l’assoluta mancanza di deontologia e pluralismo” e preannunciava di voler audire Lilli Gruber e Urbano Cairo (editore di La7) “essendo la Commissione editoria competente sui contenuti editoriali”.

Mollicone evidentemente deve essere un po’ confuso se pensa che spetti a una Commissione parlamentare sindacare sui contenuti editoriali di una trasmissioni e sulle libere opinioni di una giornalista. Roba da Minculpop di altri tempi. Così il giorno successivo Lilli Gruber è tornata sull’argomento con l’ex direttore de La Stampa Massimo Giannini che ha sottolineato come Mollicone sia lo stesso che in passato si era lamentato per i contenuti scomodi del cartone animato Peppa Pig: “Sono soddisfatto di Mollicone, passare da guardare Peppa Pig a guardare programmi di informazione importanti come questo è un segnale di emancipazione culturale”, ha detto il giornalista. Gruber in studio ha anche chiesto al giornalista Mario Sechi se gli sia mai capitato di essere convocato in Commissione editoria per i suoi titoli su Libero. Grasse risate di Sechi.

La7 finisce nel mirino per il programma serale sulla cultura del patriarcato difesa dalla destra

Mollicone ieri non c’è stato e ha deciso di contrattaccare: “Il solito giornalismo a tesi… mi attaccano ancora una volta in contumacia senza diritto di replica. Una sorta di ‘fucilazione’ mediatica senza ultima sigaretta. – ha scritto su X il deputato di Fratelli d’Italia -. La solita storia di Peppa Pig… e della ideologia gender a bambini di 4 anni che pensate un po’ non era una mia idea, ma il codice etico e parental control che prevede il codice Rai per la tutela dei minori. Vi aspetto in audizione in Parlamento. Io dialogo, nonostante gli insulti e il vostro razzismo culturale. #pluralismo #libertà”.

A questo punto ormai lo scontro assume contorni comici: c’è un deputato che vorrebbe utilizzare una commissione parlamentare di cui è presidente per processare le libere opinioni di giornalisti che operano in una rete televisiva privata. Si tratta di un’intimidazione di Stato bella e buona ma Mollicone decide di usare gli hashtag #pluralismo #libertà” cianciando di “razzismo culturale”. Dalla distopia di questa destra per oggi è tutto.

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Federico Colombo su “I mangiafemmine” per Gay.it

“Nel nuovo romanzo di Giulio Cavalli, le donne muoiono incessantemente, muoiono una dopo l’altra, tutte per mano dei propri compagni. È un’epidemia inarrestabile, una di quelle di fronte alle quali tutti voltano la testa dall’altra parte. La politica, soprattutto. Sono soprattutto i politici – rappresentati dal presidente Valerio Corti, un conservatore – a non curarsi del problema, a lasciare inascoltate le urla delle sopravvissute che chiedono venga loro assicurata almeno l’illusione di una prospettiva di vita. Qui, alla sua prova più difficile e più amara, Cavalli mira il cuore del problema: cosa possiamo noi, tuttə noi, di fronte a un eccidio di questo tipo, quando lo Stato rimane con le mani in mano e anzi perpetra schemi misogini e patriarcali?”

Federico Colombo su “I mangiafemmine” per Gay.it

Il patriarcato è di casa nella cultura delle destre

Ma questo governo è maschilista Si potrebbe, ad esempio, ripercorrere alcuni episodi solo di questi ultimi giorni per provare a farsi un’idea partendo dalle parole e dalle azioni dei membri di una maggioranza che sostiene un governo presieduto da una presidente del Consiglio che pretende di essere chiamata “il” presidente del Consiglio. Prima c’è stato il consigliere regionale veneto tesserato nella Lega di Salvini, Stefano Valdegamberi, che invitava i magistrati a indagare la sorella di Giulia Cecchettin, la giovane ragazza uccisa dal suo ex fidanzato, sostenendo che che le dichiarazioni di Elena e la sua lettera in cui accusa la cultura patriarcale “hanno sollevato dubbi e sospetti che spero i magistrati valutino attentamente.

In principio fu il bunga bunga. Ma sul femminicidio di Giulia i sovranisti danno sfoggio della propria natura

Mi sembra un messaggio ideologico, costruito ad hoc, pronto per la recita”. Poi c’è stata la deputata leghista Simonetta Matone che ospite in una trasmissione televisiva ha raccontato di non avere mai incontrato durante la sua carriera in magistratura “soggetti gravemente maltrattati e gravemente disturbati che avessero però delle mamme normali”. Insomma, gli uomini uccidono le donne per colpa delle donne. Un capolavoro. Poi abbiamo scoperto che il ministro all’Istruzione Giuseppe Valditara si avvale della collaborazione di Alessandro Amadori, teorico del maschicidio in un Paese dilaniato dai femminicidi.

Amadori ha scritto un libro in cui negava la violenza maschile e sosteneva tesi cospirazioniste sul tentativo delle donne di dominare i maschi. Ieri abbiamo scoperto che Amadori già nel 2018 per la casa editrice Licosia, aveva dato alle stampe un piccolo saggio di una novantina di pagina dal titolo inequivocabile: Il diavolo è (anche) donna. A oggi non si è ancora dimesso affidandosi ala protezione del ministro. L’altro ieri è stato il turno di Roberto Feola, consigliere comunale di Fratelli d’Italia a Fiumicino che ha spiegato il suo punto di vista sulla parità di genere durante una seduta ufficiale del consiglio comunale avvenuta ieri in occasione del delitto di Giulia Cecchettin uccisa dal suo fidanzato e delle polemiche seguite alle frasi di Massimiliano Catini, anche lui consigliere di centrodestra a Fiumicino, che aveva intimato a una collega dell’opposizione di stare “a cuccia e di tacere”.

“Io ho due figlie femmine ma non ho insegnato loro che il patriarcato è una malattia perché non è una malattia”, ha detto Feola di fronte ai suoi colleghi. È di ieri anche la notizia della condanna al risarcimento di 25mila alla modella Ambra Battilana della storica “voce” di Forza Italia Emilio Fede. Secondo il tribunale di Milano Battilana va risarcita perché vittima “sia pure con più subdole modalità, di violenza contro le donne”. I fatti risalgono al 2010 quando Fede, ai tempi direttore del Tg4, offrì a delle ragazze 3mila euro alla settimana per il ruolo di “meteorine” all’interno del suo telegiornale.

Il giorno dopo arriva subito l’invito a una cena ad Arcore per il famoso bunga bunga dove altre ragazze si fanno toccare e toccano, una si ritrova nuda perché le si apre il vestito nella lap-dance, a tavola viene passata una statuetta con un pene enorme. Battilana rifiuta di concedersi e viene rimproverata da Fede che la rispedisce a casa. Nel 2019 Emilio Fede venne condannato per induzione alla prostituzione. Ieri è stato condannato anche in sede civile dove il giudice ha riconosciuto “il turbamento emotivo subìto” da Battilana per “la consapevolezza di essere stata “adescata” per un presunto casting presso Mediaset”, e “la forte delusione nel prendere atto che la sua bellezza e l’aspirazione di successo come modella fossero state sfruttate da persone amorali per turpi finalità, che l’avrebbero deprivata della propria personalità e ridotta a donna-oggetto: un ulteriore meschino episodio, sia pure con più subdole modalità, di violenza contro le donne”. È quasi pleonastico ricordare le tesi del generale Roberto Vannacci (corteggiato dai partiti di governo) sulle donne. E questi sono solo i casi delle ultime ore.

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