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L’avvocato dell’assassino di Giulia Cecchettin con la passione per i maschicidi

Ma davvero esistono professionisti con il coraggio di urlare all’allarma “maschicidi” per svilire e depotenziare la portata dei femminicidi in Italia Esistono, eccome. Stanno nascosti anche nei banchi della maggioranza che in questi giorni sta cercando di appropriarsi del tema troppo popolare per lasciarselo sfuggire. 

Il 25 novembre di tre anni fa, era il 2020, Il Giornale – come quasi sempre quando si parla di femminicidi – pubblicava un articolo dal titolo esemplare: “Allarme maschicidi. Gli uomini vittime quando le donne ma nessuno ne parla”. Un titolo feroce ma soprattutto ignorante poiché anche in queste ore convulse appare evidente che moltissimi non sappiano che il “femminicidio” non si riferisce banalmente all’uccisione di una donna ma fa riferimento a qualsiasi forma di violenza esercitata in maniera sistematica sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione di genere e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico della donna in quanto tale, fino alla schiavitù o alla morte. 

Tre anni fa quell’articolo de Il Giornale nel giorno contro la violenza sulle donne veniva condiviso sul proprio profilo Facebook dall’avvocato Emanuele Compagno che negli ultimi giorni è entrato nelle nostre case – dai giornali, dalla radio e dalla televisione – perché è il difensore d’ufficio di Filippo Turetta, il femminicida di Giulia Cecchettin. «Nella giornata contro la violenza alle donne è giusto ricordare che le vittime sono da entrambe le parti. È giusto ricordare tutti di fronte alla violenza», scrisse in quell’occasione. A recuperare quell’orrendo post è stata la giornalista Charlotte Matteini che su X riporta anche una dichiarazione dell’avvocato nell’anno successivo: “Ho assistito ieri ad una scandalosa puntata di “Carta Bianca” con Bianca Berlinguer in tema di violenza alle donne. – scriveva l’avvocato Compagno il 5 maggio 2021 – La donna veniva trattata come una menomata, come un’incapace. Se ubriaca è scusata. L’alcol è una scusante per la donna, mentre non lo è per l’uomo. Una totale deresponsabilizzazione della donna, come fosse un oggetto incapace di auto-determinarsi. Il tutto coniato, poi, a Tg3 linea notte con la storia di Biancaneve. Queste esagerazioni servono solo a delegittimare la donna trasformando in farsa un problema serio. Portano all’assurdo un problema vero”. 

Per avere un’idea dell’impianto culturale si potrebbe ripescare ciò che scriveva ad esempio il 31 ottobre 2015 sulla notte di Halloween: “Non capisco cosa ci facciano delle ragazzine vestite da puttane in giro per il paese. E nemmeno perché i genitori accompagnino i figli a disturbare per le famiglie suonando campanelli. Vergognatevi”. Non male, eh?

Ma davvero esistono professionisti con il coraggio di urlare all’allarme “maschicidi” per svilire e depotenziare la portata dei femminicidi in Italia Esistono, eccome.

Buon giovedì. 

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Il folle attacco leghista contro il Premio Strega Cognetti

Quando racconteremo questo tempo tra qualche anno stenteranno a crederci. A finire sotto gli strali della Lega questa volta è lo scrittore già vincitore del Premio Strega Paolo Cognetti con il suo romanzo “Giù nella valle” pubblicato da Einaudi. Cognetti ospite a Radio Deejay ha descritto lo sfondo ambientale del suo ultimo romanzo, Valsesia, un luogo dove “piove sempre ed è soprannominata ‘il pisciatoio d’Italia’, ma io le voglio bene” spiegando che si tratta di “una valle più sporca, più rovinata, industrializzata, quasi una periferia urbana, dove Milano e Vercelli allungano i loro tentacoli. Ci sono il bowling, i cementifici, le cave…”.

A finire sotto gli strali della Lega questa volta è lo scrittore già vincitore del Premio Strega Paolo Cognetti con il suo romanzo “Giù nella valle”

Il presidente dell’Unione montana della Valsesia, Francesco Pietrasanta, sindaco di Quarona per la Lega, ha impugnato carta e penna per scrivere un comunicato dall’eloquente titolo “Delirio Cognetti” lamentando “le esigenze narrative” dello scrittore “senza alcun rispetto per la storia di questo territorio e dei suoi abitanti”. “Il suo lavoro è inventare storie, – tuona il leghista – ma non può farlo a danno dei luoghi che cita e delle persone che li popolano”. A Pietrasanta non vanno giù i personaggi che “fumano come se non ci fosse un domani e prima di tornare a casa passano dall’osteria a ubriacarsi. Le donne li attendono con pazienza, mandano avanti la casa, sopportano le brutalità e gli eccessi dei mariti”.

Nella foga dell’egemonia culturale ora la politica vorrebbe permettersi di giudicare la finzione letteraria, desiderando libri come opuscoli della pro loco. Arte e cultura finiscono nel calderone della politica con ill desiderio di instradare perfino la letteratura. Esattamente come il fascismo.

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Come rane bollite

L’altro ieri 43 persone sono state recuperate sugli scogli di Capo Ponente, dalle motovedette della Capitaneria di porto e due giovani dai due pescatori lampedusani sulla costa di Muro Vecchio. I telegiornali ormai melonizzati fino al midollo hanno dato la notizia centrando il focus sul “salvataggio” ma dimenticandosi di dare risalto agli otto dispersi rimasti in fondo al mare. Tra di loro ci sarebbero stati due – forse tre – bambini. Non hanno potuto esimersi dal raccontare della morte di una bambina di un anno e otto mesi perché è spirata durante il trasbordo, complicando i piani della comunicazione liscia e ardimentosa. 

Ieri un barchino è colato a picco a circa 28 miglia dalla costa durante la fase di trasbordo. Una donna di 26 anni, originaria della Costa d’Avorio, è morta. Quarantasei i migranti superstiti che sono stati recuperati dai militari della Guardia di finanza.

Spaventosa è la cura con cui ci si impegna a normalizzare l’orrore perché non attecchisca nella coscienza collettiva. Confidare nell’abitudine alla morte è da sempre il segreto della politica e dei poteri. Passano così in secondo piano le guerre (citofonare al presidente Zelensky che lo ripete da settimane), si depotenziano i decessi ciclici di poveri o di neri o di donne e ogni giorno la tolleranza al ribrezzo sposta l’etica qualche metro più in là. È uno scivolamento lento che ci rende ogni giorno peggiori senza averne consapevolezza, ingannati dalla sindrome della rana bollita. Finché non capita un ammazzamento o un naufragio sentito come troppo vicino per liberarsene in fretta. E poi si ricomincia di nuovo. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: frame del video del salvataggio a Capo Ponente

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Il maxi-processo Rinascita Scott snobbato dai media

C’era un tempo in cui in Italia qualsiasi processo per mafia, qualsiasi arresto, qualsiasi condanna erano ingredienti utili per cucinare le prime pagine dei giornali. Erano bei tempi, quando la mafia sembrava davvero una lotta trasversale e i cittadini erano incuriositi da ciò che accadeva. Ieri è stato il giorno dopo di una sentenza storica che ha delineato la peggiore delle mafie, la più forte in questo momento, la ‘Ndrangheta, e i giornali nostrani hanno riportato la notizia con una cronaca stanca. A parte rare eccezioni, a cominciare da questo giornale, che ha dedicato alla sentenza del processo Rinascita Scott l’apertura di prima pagina.

Verdetto storico su mafia e politica. Ma il processo Rinascita Scott sul Corriere finisce a pagina 21. Sul Giornale duemila anni di carcere raccontati come un regalo alla Procura

Il Corriere della Sera riporta la notizia a pagina 21, mettendo in evidenza i 34 mesi trascorsi dal giorno della prima udienza alla sentenza dell’altro ieri. Sempre nella ventunesima pagina c’è la notizia anche sul quotidiano La Stampa. La mafia in Italia ormai è diventata una semplice cronaca nera, solamente un po’ già spessa e forse sistemica. Notevole Il Messaggero: nel suo articolo dedicato al processo Rinascita Scott sottolinea fin dal titolo che la notizia consisterebbe nel fatto che sia stato “assolto un imputato su tre”. I 200 condannati sono un particolare disturbante che va raccontato come assolutamente secondario. Non scherza, come al solito, pure Il Giornale: “Gli 11 anni a Pittelli (FI) ultimo regalo a Gratteri”, titola. La condanna di un uomo di spicco della politica berlusconiana poi passato alla corte di Giorgia Meloni è semplicemente la leva per attaccare un procuratore che alla luce della sentenza ha fatto più che bene il proprio lavoro.

In un Paese normale – democraticamente e giornalisticamente credibile – il titolo de Il Giornale sarebbe (com’è) un’accusa ai giudici che dovrebbe fare saltare sulla sedia tutto il sistema politico, ministro della Giustizia Carlo Nordio in primis. Tant’è che risulta quasi rivoluzionario il quotidiano cottolico Avvenire che nel titolo sottolinea come tra i condannati ci sia anche “un ex deputato”. Badate bene: l’avvocato Giancarlo Pittelli non è un deputato qualsiasi, si tratta di uno degli uomini più forti del berlusconismo quando era all’apice. Ma la notizia non sembra essere una notizia.

Sulla stessa linea è l’Unità: “Mezza vittoria per Gratteri, ottiene lo scalpo di Pittelli”, è il titolo. L’articolo di Paolo Comi non è da meno: “Nicola Gratteri ha vinto a metà. La maxi condanna ad 11 anni di prigione per l’ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli ‘puntella’ una inchiesta che correva il serio rischio di finire in un flop clamoroso”, si legge. Ampio spazio poi ai legali di Pittelli (l’avvocato Gian Domenico Caiazza insieme ai colleghi Salvatore Stoiano e Guido Contestabile) che dichiarano: “Pittelli viene condannato per quello stesso reato rispetto al quale solo pochi mesi fa la Cassazione prima, ed il Tribunale per il Riesame subito dopo, avevano escluso la sussistenza anche solo di indizi gravi di colpevolezza”, “Tanto basta a far comprendere, a tutti coloro che abbiano la onestà intellettuale di volerlo fare, quanto questa condanna fosse ad ogni costo indispensabile per salvare la credibilità della intera operazione investigativa Rinascita Scott. Sono dinamiche che abbiamo drammaticamente imparato a conoscere in altri clamorosi casi giudiziari, a cominciare da quello di Enzo Tortora”, ha aggiunto Caiazza, ricordando anche che da quei casi giudiziari “abbiamo imparato che, alla fine, l’innocenza dell’imputato verrà riconosciuta, seppure con imperdonabile ritardo, e dopo aver causato danni incommensurabili”.

Pittelli è “il nuovo Tortora” e Gratteri fallisce anche quando gli imputati vengono condannati

Insomma, Pittelli è “il nuovo Tortora” e Gratteri fallisce anche quando gli imputati vengono condannati. La mafia scompare, quando c’è è irrilevante o frutto di decisioni sbagliate. Quindi come si può pensare di provare a sconfiggerla

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Bufera sul consulente Amadori e le sue controverse tesi

Si scopre quindi che il famoso piano educativo per le scuole che starebbe preparando il ministro dell’Istruzione e il Merito, Giuseppe Valditara, vede tra gli altri come collaboratore tal Alessandro Amadori, teorico del maschicidio in un Paese dilaniato dai femminicidi.

Il governo lancia un piano per Educare alle relazioni. Bufera sul consulente Alessandro Amadori e le sue controverse tesi

Amadori è un personaggio paradigmatico. Si è messo a scrivere un libro e l’ha autopubblicato – alla stregua del generale Roberto Vannacci – in cui negava la violenza maschile e sosteneva tesi cospirazioniste sul tentativo delle donne di dominare i maschi. Come postilla c’è il solito “non si può dire niente”, che di questi tempi va per la maggiore da parte di coloro che scrivono le peggiori boiate. Docente a contratto di psicologia all’università Cattolica di Milano, fa parte dello stesso think tank del ministro Valditara, Lettera 150, e con lui ha anche pubblicato un libro nel 2022, per Piemme, dal titolo È l’Italia che vogliamo. Il manifesto della Lega per governare il Paese, prefazione del leader del Carroccio Matteo Salvini.

Insomma, un intellettuale organico alla Lega e, come scriveva Domani il 21 aprile scorso, consulente del ministero per 80mila euro lordi l’anno. Le teorie di Amadori si possono cogliere da qualche passaggio del suo libro. Ad esempio: “Ma allora, parlando di male e di cattiveria, dovremmo concentrarci solamente sugli uomini? Che dire delle donne? Sono anch’esse cattive? La nostra risposta è “sì”, cioè che anche le donne sanno essere cattive, più di quanto pensiamo”, scrive il professore riprendendo la tesi di tal Adriano Pirillo su Soverato Web, che Amadori tratta come se fosse uno studio certificato dalla maggioranza della comunità scientifica.

La tesi di Pirillo è: le donne sono cattive, lo sono sempre state, dalle figure bibliche a Lucrezia Borgia alle donne di oggi. Per questo conia un termine preciso (le “ginarche”) per descrivere coloro che “agiscono come delle amazzoni giustiziere che vendicano l’intero genere femminile attraverso una totale svalutazione del maschile e a tendere la sua riduzione in schiavitù (con tanto d’imposizione di strumenti di contenimento sessuale e di castità forzata, uno dei cardini della rieducazione maschile nella prospettiva ginarchica, insieme con il rovesciamento dei ruoli nel rapporto sessuale (torna qui prepotentemente in gioco il già menzionato strap on)”.

Inevitabile che si sollevasse l’opposizione. La vicepresidente dem dell’Europarlamento, Pina Picierno, componente della direzione del Pd, ha twittato: “Non conosciamo i meriti accademici o sociali di Amadori, sappiamo solo che è un leghista amico di Valditara. Sul corpo delle donne non si scherza. Basta improvvisare e proporci personaggi improbabili, guardiani di un’ideologia violenta e patriarcale che è parte del problema”. Il Movimento 5 stelle ha chiesto che il ministro dell’Istruzione riferisca in aula a Montecitorio: “Valditara ha il dovere di fornire tutte le dovute spiegazioni sulla nomina di Alessandro Amadori a coordinatore del progetto Educare alle relazioni. Abbiamo chiesto una informativa in aula, e ci aspettiamo che il ministro risponda celermente”, recita una nota degli esponenti pentastellati in Commissione Cultura alla Camera dei deputati.

Le opposizioni chiedono le dimissioni del tecnico che condivide col ministro Valditara lo stesso think tank

“In un momento storico come quello che stiamo vivendo, con il fenomeno dei femminicidi che assume ogni giorno di più i contorni di una vera e propria strage – aggiungono – chiunque si accosti a questo argomento non può portare con sé le ombre di teorie bislacche e pericolose”. Soprattutto se con i soldi dello Stato. La senatrice di Italia Viva, Daniela Sbrollini, capogruppo nella Commissione bicamerale sul femminicidio, ha espresso forti perplessità sulla scelta del collaboratore ministeriale: “Serve equilibrio nella scelta delle consulenze da parte del ministero dell’Istruzione, soprattutto su un tema delicato come il progetto di educazione affettiva e sentimentale nelle scuole. La presenza di Alessandro Amadori nel gruppo di lavoro lascia quanto meno perplessi”, ha scritto in una nota. “È importante che le linee guida sull’educazione alla affettività siano scritte in modo equilibrato e senza colpevolizzare le donne, mentre il professore – ricorda ancora Sbrollini – in alcune sue pubblicazioni ha parlato di ‘donne cattive’…”.

Ilaria Cucchi, di Alleanza Verdi-Sinistra, ha annunciato che il tema sarà affrontato in commissione Giustizia a Palazzo Madama: “Anche se non capisco bene cosa ci sia da discutere, penso che se il governo ha scelto lui per questo ruolo, le possibilità sono due. O è stato un errore colossale, perché la destra e il ministro dell’Istruzione Valditara non conoscono bene di chi stiamo parlando. O è stato un errore colossale, perché la destra e il ministro dell’Istruzione Valditara conoscono bene di chi stiamo parlando, e pensano che abbia ragione. Colleghe, colleghi: ripensateci e fate marcia indietro”.

“Il progetto Educare alle relazioni è stato scritto dal dipartimento del ministero dell’Istruzione e del merito”

Il ministro Valditara ieri mattina ha scritto una nota provando a dirottare il fuoco di fila delle opposizioni dal bersaglio Amadori: “Il progetto Educare alle relazioni è stato scritto – dice il ministro – dal dipartimento del ministero dell’Istruzione e del merito dopo aver sentito il parere delle associazioni dei genitori, degli studenti, dei docenti, dei sindacati, dell’ordine degli psicologi e di diversi esperti fra cui anche giuristi e pedagogisti”. Il documento “è stato letto, condiviso e sottoscritto da me. È questo il documento che domani presenteremo ed è questo documento che va giudicato”. Valditara dice che “per un confronto proficuo su un tema importante, che riguarda i nostri giovani e tutta la società, sarebbe utile evitare polemiche pretestuose”. Anche stavolta, tanto per cambiare, innescate, a bene vedere, dalle improvvide scelte della maggioranza.

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Universo letterario recensisce #IMangiafemmine

Giulio Cavalli (Milano, 1977) è un noto scrittore di romanzi e pièce teatrali, attivista per i diritti civili e, dal 2007, vive sotto scorta per la sua continua lotta contro le mafie. Giornalista d’inchiesta e autore di diversi libri dello stesso genere, ha pubblicato numerosi romanzi editi da Fandango fra cui Carnaio (2018), Disperanza (2020) e Nuovissimo Testamento (2021). È con Carnaioche, nel 2019, Cavalli vincerà il Premio Selezione Campiello – Giuria dei Letterati.

Le sue opere sono spesso delle critiche dissacranti della nostra società, polarizzando delle opinioni che l’autore vede, in embrione, ben presenti nel nostro mondo. Con I Mangiafemmine, pubblicato da Fandango libri, Cavalli torna nel fittizio paese di DF, specchio di una società in cui nessuno ha la volontà di specchiarsi, ma i cui semi sono ben presenti fra di noi.

La trama

Nel periodo delle elezioni nella fittizia città di DF, la vittoria dei Conservatoriguidata da Valerio Conti non sembra essere più una certezza: la città è in preda ad un delirio di violenza, una vera e propria epidemia di donne assassinate per strada, a casa dai mariti e dai compagni.

Il candidato premier non si interessa della questione: sostiene che, alla fine, le donne sono sempre morte. L’onere è al genere femminile: le brave donne non muoiono, non corrono rischi.

L’opinione pubblica è scissa: la classe politica non è in grado di affrontare il problema, e si rifiuta di ritenerlo tale. Le poche attiviste di DF gridano al massacro, e vengono ridotte al silenzio. Cavalli narra di un mondo i cui tentacoli si stanno lentamente insinuando nel nostro: cosa succede quanto un’intera classe politica volta le spalle al problema?

Il governo di DF propone una legge per “regolamentare l’attività venatoria”: legalizzare il femminicidio. Ed è così, che Cavalli dipinge l’orrore.

Un problema sociale: la storia di Frida

L’intera opera di Cavalli ha un obiettivo molto preciso: mostrare come, nella città di DF, la violenza di genere sia un problema radicato nella cultura che li rappresenta. Il romanzo parte immediatamente narrando la lenta discesa nella violenza maschilista di un uomo qualunque, Tullio Ravasi. Egli si «trasforma lentamente in un ratto», come sottolinea l’autore, e questa metamorfosi ha luogo in un momento preciso: nell’istante in cui osa violenza su una tirocinante sul posto di lavoro, costringendola ad un rapporto sessuale con la promessa di una futura assunzione.

Da qui, le prime pagine sono una spirale lenta e dolorosa con un unico epilogo possibile: Tullio ucciderà sua moglie Frida, casalinga che lui stesso aveva isolato dal mondo circostante. Ed è qui che iniziano le prime riflessioni: la storia di Tullio e Frida è una storia plausibile, che sembra tratta da uno dei nostri quotidiani.

Frida aveva un lavoro, una vita fuori da essa e una sua indipendenza economica ed emotiva. Tutto questo le è stato strappato da un marito-padrone che, attraverso una sottile manipolazione emotiva, l’ha spinta a lasciare tutto ciò che era suo e che la spingeva fuori, relegandola al ruolo di casalinga e moglie. Frida è una delle prime vittime di cui DF ci narra.

La cosa più spaventosa della storia di questa donna, che altri non è che un archetipo, è che non è stato solo il marito a spingerla: le violenze che Frida inizia a subire immediatamente dopo il matrimonio, dal controllo emotivo ed economico fino alle vessazioni psicologiche, vengono continuamente giustificate da tutte le persone attorno a Frida. Sua madre e le sue amiche le diranno che Tullio la ama, è così perché è stanco. Quando le suggerisce di lasciare il lavoro, non lo fa per una cultura del possesso, che a DF, specchio del nostro mondo, trionfa dolorosamente normalizzata: lo fa perché non vuole che si stanchi, perché tiene a lei.

Il problema fondamentale è che nessuno attorno a Frida la aiuta, bensì tutti sono portati a giudicare i comportamenti di possesso e controllo di Tullio come una forma di attenzione e di amore. Le dicono che dovrebbe essere grata. Talmente grata che Frida, dopo poche pagine, morirà uccisa non solo da suo marito, ma da una società patriarcale e maschilista attorno a lei, che ha ignorato i sintomi di quella che è una malattia pervasiva: la cultura del possesso.

Questo è il punto centrale della prima storia a cui assistiamo: Frida aveva provato a chiedere aiuto ai suoi genitori, alle sue amiche, ma era stata rimandata indietro dal suo aguzzino con il suggerimento di essere meno pesante. Ed è questo che continueranno a ripetere di lei, dopo il suo brutale omicidio: aveva esasperato suo marito, lui tornava a casa e vedeva una moglie «dal muso buio, eternamente insoddisfatta e ingrata».

Ciò che fa veramente spavento, come sottolinea implicitamente Cavalli, è che DF non è altri che quello specchio malato in cui la nostra società non vuole guardarsi.

Tullio è descritto fin dall’inizio come un uomo perfettamente normale, quasi banale. Ma nella storia umana abbiamo spesso assistito alla banalità del male, ed è proprio questo il punto della storia di Tullio: l’uomo femminicida non è un mostro, qualcosa di altro dall’uomo in quanto specie. Egli è fin troppo umano:è il prodotto di una società patriarcale e maschilista, che ha validato la cultura del possesso secondo cui l’uomo possiede la donna come se fosse un oggetto. Ella non ha una sua libertà, non ha una sua autonomia ed una sua voce.

Si tratta di una cultura radicata nella società di DF, come nella nostra, e che passa attraverso i gesti di cui si è discusso in precedenza: Tullio voleva controllare Frida in tutti i suoi aspetti, relegandola solamente ad una casalinga pronta a obbedire ad ogni suo ordine. Quando ella è fuggita dal suo controllo, Tullio ha reagito seguendo il pattern che lo ha contraddistinto: le ha tolto la vita, non potendo accettare di non possederla più.

Mangiafemmine: una legge per legalizzare il femminicidio

La proposta dei Conservatori di Conti è chiara: equiparare l’attività venatoria con il femminicidioLegalizzarlo al fine di controllare il fenomeno, di regolarizzarlo attraverso dei criteri igienico-sanitari e delle liste di donne che possono essere cacciate. Perché, come è stato sottolineato in precedenza, le brave donne non muoiono: quelle che, secondo la legge, possono essere “abbattute” sono quelle che non rispondono ai dettami della brava moglie e casalinga. Le attiviste, le ribelli e tutte coloro che si rifiutano di essere equiparate ad un mero possesso.

Si tratta di un’ipotesi agghiacciante alle nostre orecchie, eppure a DF nessuno si oppone: solo Clementina Merlin, giornalista e attivista per i diritti femminili, reagisce sconvolta a questa proposta.

Quando ella cerca un dialogo con le persone accanto a lei, questi sembrano non considerare in alcun modo la gravità di quanto accaduto: una signora incinta in fila dal medico dichiara di non essere interessata alla questione poiché incinta, e le donne gravide sono escluse dalla possibilità di essere bersagliate, e per di più ella aspetta un maschio.

I partiti politici stessi minimizzano la questione, ed è proprio l’opposizione ad appoggiare questa proposta, giustificata su basi genetiche ed ormonali: in fondo, l’uomo uccide poiché geneticamente portato a farlo. A DF, l’uomo stupra perché è naturalmente portato alla prosecuzione della specie, non perché cresciuto da una società che non gli ha insegnato il consenso, facendogli credere di poter prendere da una donna ciò che più gli aggrada senza preoccuparsi dell’altra persona.

Egli la possiede come un oggetto, in tutti i suoi aspetti. E la legge sul femminicidio presentata a DF non è altri che l’atto estremo di una malattia che si è insinuata nella nostra società, di cui vediamo tutti i sintomi.

Il romanzo di Cavalli è una critica dissacrante alla nostra società e a quei retaggi culturali che la permeano. Egli ha estremizzato le conseguenze di qualcosa che, con dolore, bisogna ammettere che è già qui. Lo stile dell’autore è volutamente diretto: la violenza di DF arriva al lettore con rapidità e forza, impedendogli di non pensare alle terribili analogie che il mondo immaginario di Cavalli possiede con il nostro.

Si tratta di un libro che chiunque dovrebbe leggere: le parole di Cavalli sono evocative, e il lettore non può che porsi degli interrogativi su questo nostro mondo. Come sintetizza l’autore stesso:

Il problema non sono solo gli uomini che uccidono o che stuprano, il problema sono anche gli uomini che non uccidono e non stuprano, ma hanno il terrore di avere prima o poi bisogno di farlo.

Gip del caso Delmastro. Può scordarsi la protezione

Non c’è niente di peggio del dubitare che a qualcuno in pericolo venga tolta la protezione per ritorsione. Emanuela Attura è una magistrata che dal marzo 2020 era protetta da una tutela di quarto livello. “Questa giudice me la porterò con me nella tomba”, aveva detto di lei Raffaele Casamonica, componente dell’omonimo clan, a un familiare durante un colloquio in carcere.

Da oggi la gip Emanuela Attura non sarà più tutelata per decisione dell’Ufficio centrale interforze per la Sicurezza personale

Da mercoledì 22 novembre la gip non sarà più tutelata per decisione dell’Ufficio centrale interforze per la Sicurezza personale del dipartimento della Pubblica sicurezza (Ucis). Casamonica, esponente del gruppo criminale definito mafioso in diverse sentenze, è ricoverato e le sue condizioni sono considerate gravi. C’è un particolare però di questa storia che va raccontato. La magistrata è la stessa che lo scorso 6 luglio aveva disposto l’imputazione coatta per il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro (nella foto), accusato di aver passato informazioni sensibili sul caso dell’anarchico Cospito al collega di partito (Fratelli d’Italia) Giovanni Donzelli.

L’udienza preliminare di quella brutta storia – già dimenticata – è fissata per il prossimo 29 novembre. Il caso era esploso quando “fonti di Palazzo Chigi” avevano accusato parte della magistratura “di svolgere un ruolo attivo di opposizione“. “In un processo di parti non è consueto che la parte pubblica chieda l’archiviazione e il giudice per le indagini preliminari imponga che si avvii il giudizio”, si leggeva nella nota in cui si parlava di magistratura che “inaugurava anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee“. Non c’è niente di peggio del dubitare che a qualcuno in pericolo venga tolta la protezione per ritorsione.

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