Il giorno del ricordo buttato dalla torre.
Giovedì 23 Novembre 2006
A guardarci fuori dalla torre, dentro con le mani in tasca ad annusare
il profumo e la didascalia dei profesòri, a starci dentro e fuori
è come stare nell’intestino della storia, e provare a guardartici da
dentro e salutarti con la manina e da fuori.
Linate è un viaggio da film in bianco e nero con la pellicola sfibrata
e i saluti quelli così infiorettati con il fazzoletto bianco fuori dal
finestrino. Come gocciolano i passeggeri sui vetri della torre di controllo
non si vede in giro da nessun’altra parte. Nessuna. Mai.
Ieri, mentre scendevo dalle scale della torre di controllo di Linate,
da quello stupro di acciaio infilato dentro la terra, mentre la ruggine
mi lasciava il rame sotto il palmo e sopra il passamano, mentre scendevo
pensavo, ed è stato un ago dentro il cervello, alle madri, i padri,
i figli, i fratelli; e ho avuto paura di non riuscire più a scenderci da
quella puttana di torre, da quel mausoleo e tutti fuori a cercare con
l’alcool da restauratori di farla venire fuori qualche vecchia macchia
di un’eco. Negli ambienti professionali alti, negli uffici con il tavolo
in noce e i grafici schizzati sui muri è vietato portarsi da casa
l’umanità, è tutto un parlare senza spiegazzare i polsini delle camicie
affusolati fuori dal maglione, è tutto un far quadrare conti, facce,
spiegazioni, voci, strette di mani: un campo aperto di prostituzione
perfettamente inquadrata. Forse l’omaggio ai centodiciotto si poteva
fare solo appoggiando il cuore sulla torre, a salutarli appiattiti contro
quel toboga che dall’alto ha i colori dei calzini di un clown. E mentre
alienato dalla visita-gita salutavo dall’alto anche il mio stomaco si è
tolto il cappello. Come gocciolano i passeggeri sui vetri della torre di
controllo non si vede in giro da nessun altra parte. Nessuna. Mai.
Scendendo con le gambe molli e il pensiero appiccicato sugli impossibilitati
a scendere mi sono messo in tasca una fetta di torre, almeno
per il dovere di portarmeli in tournée, se non a Copenaghen.
Il giorno del ricordo buttato dalla torre.
———————————-
Linate l’8 Ottobre 2001 non è un incidente: gli incidenti sono roba da cabala e giro di roulette degli dei, dove c’entrano le colpe degli uomini allora è un omicidio. Centodiciotto morti sono una strage. Quando Fabrizio Tummolillo ha appoggiato sulla mia scrivania la documentazione e le storie di quel giorno così buio sono rimasto per una fetta di notte a guardarlo quel cumulo di fogli di “quello che si sarebbe dovuto fare”: sono le macerie di uno Stato che premia chi accumula potere scansando proporzionalmente le proprie responsabilità. Allora mi sono interrogato a lungo, prima di iniziare la messinscena, su quale poteva essere il mio ruolo di narratore teatrale e sul perché dovesse nascere uno spettacolo su quel cumulo. Noi teatranti godiamo di un privilegio che molti ci invidiano: la fisicità e il tempo del nostro pubblico; quindi sono partito da qui perché avevo il tempo di raccontarlo per filo e per segno tutto quel cumulo. Spesso mi ritrovo a dire che più dell’ignoranza, oggi, mi spaventa questa “convinzione di sapere” che è tutta appoggiata sull’informazione confezionata a mo’ di spot pubblicitari per cui in quindici minuti di TG in fase digestiva paghiamo il nostro pegno di coscienza con i fatti del mondo. Se ascoltate la “gente” sull’incidente di Linate vi parleranno di nebbia, di un radar che non c’era e vi vomiteranno un po’ di sana e gratuita indignazione. Oggi si è acquisito il diritto di indignarsi a priori anche senza sapere. La risposta al mio dovere mi è caduta così: il teatro oggi è una buona occasione per informare senza fretta, senza doversi inserire in una linea editoriale di “accattivante confezionamento”, senza fare leva sul qualunquismo facile, senza dover opzionare pubblico per forza con i morti nei titoli di testa. Per Linate le colpe sono tutte agli atti: un radar da installare che aspettava la giusta congiunzione (forse economica?) per essere attivato, una leggerezza di fondo nel gestire un ambiente complesso come un aeroporto, una segnaletica peggiore dell’adiacente viale Forlanini, una scellerata progettazione nel posizionare il deposito bagagli a fondo pista e, fondamentalmente, scelte di gestione al risparmio. Oltre a tutto questo fin dall’inizio mi sono imbattuto nel dramma, quella lista lunga di nomi, e confesso che nei momenti più ostici della preparazione li scorrevo, appoggiati sulla scrivania, in disparte da tutti quei fogli di simboli e numeri; e me li sono portati in teatro, con quel loro scorrere leggero e con la convinzione che, anche senza aggiungerci niente, siano un graffio alla nostra coscienza. Raccontare la favola triste dell’8 Ottobre è roba da teatro dell’assurdo, abitare in una Bengodi senza doveri, in un luna-park leggero e mortale. I giullari cinquecenteschi rovesciavano il reale per raccontarlo con dietro un digrignare di denti. Linate quel giorno è un posto già storto di suo. Chi darebbe credito a quel paese nella prima mezz’ora di spettacolo fatto di vigili, postini e Culidigomma che martellano “avioporti” come se fossero orti squinternati? Quanti in tournée hanno sorriso di quel collaudo giù a Bengodi tutto svolazzante di professori, timbri e carte bollate senza senso? A stare sul palco c’è un momento che tutte le volte mi accende un brivido: sentire quel sorriso che si spegne lì dove diventa un alone, un dubbio, che non possa essere Linate così tanto Bengodi, che non possa Bengodi assomigliare a Linate man mano che ci si avvicina. E il sorriso diventa strozzato, la sala diventa silenzio. Su quel bordo dello spettacolo si srotola tutto il nostro lavoro. “Linate 8 Ottobre 2001: la strage” non è uno spettacolo per fare giustizia, per quella ci sarebbero già giudici e tribunali, né è uno spettacolo per onorare le vittime, quelle sono gelosamente nei cuori delle loro famiglie. “Linate 8 Ottobre 2001: la strage” è appoggiare una storia, seminare delle domande, coltivare le virtù del dubbio: raccontare di uno Stato in cui nessuno è responsabile della sicurezza dei propri cittadini, in cui diventa un rebus capire chi controlla cosa, in cui si individuano sempre le cause e pochissimo le responsabilità. “Dove non ci sono colpevoli allora i colpevoli sono i morti?” si chiedono giù a Bengodi. (dalla prefazione del libro LINATE 8 OTTOBRE 2001: LA STRAGE di Giulio Cavalli e Fabrizio Tummolillo)
Le vittime