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Il francobollo del disonore, dedicato a Berlusconi

Il ministero delle Imprese e del Made in Italy ha emesso un francobollo commemorativo in onore di Silvio Berlusconi, l’ex Presidente del Consiglio deceduto l’anno scorso. Questa decisione non è solo inopportuna, ma un vero e proprio affronto alla giustizia e allo stato di diritto.

Berlusconi non è stato uno statista. È stato un pregiudicato, condannato in via definitiva per frode fiscale a quattro anni di reclusione. Solo cavilli legali e prescrizioni lo hanno salvato da ulteriori condanne. Fino alla sua morte, è rimasto indagato dalla Procura di Firenze in relazione alle stragi mafiose del 1993.

Le sentenze hanno stabilito che Berlusconi pagava la mafia siciliana. Il suo stretto collaboratore Marcello Dell’Utri, cofondatore di Forza Italia, è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. La Cassazione ha stabilito che dal 1974 al 1992, Dell’Utri è stato il garante “decisivo” dell’accordo tra Berlusconi e Cosa Nostra, fornendo “un costante canale di significativo arricchimento” per la mafia e garantendo a Berlusconi la sua “sicurezza personale ed economica”.

Negli anni ’70 incontrò i boss mafiosi e assunse Vittorio Mangano, un noto mafioso, nella sua villa di Arcore. Era inoltre iscritto alla loggia massonica segreta P2, il cui “Piano di rinascita democratica” mirava a infiltrare e controllare le istituzioni politiche, giudiziarie e mediatiche italiane.

Emettendo questo francobollo, lo Stato italiano equipara Berlusconi a eroi nazionali come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Rosario Livatino, magistrati che hanno dato la vita lottando contro la mafia. È un insulto alla loro memoria e a tutti gli italiani che credono nella giustizia.

Questo francobollo non onora uno statista. Commemora un uomo che ha svilito la nostra politica e ridicolizzato l’Italia a livello internazionale. È un francobollo del disonore, che rivela la bancarotta morale di chi eleva un pregiudicato allo status di eroe nazionale.

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Estorsioni e naufragi, ecco il business sulla pelle dei migranti

Nella Giornata della Memoria delle vittime dell’immigrazione e dell’Accoglienza conviene fare un po’ di chiarezza. Altro che gli scafisti di cui parla Giorgia Meloni. Un’inchiesta di InfoMigrants getta nuova luce sulla complessa rete di attori coinvolti nel traffico di esseri umani attraverso il Mediterraneo centrale, rivelando un sistema economico che va ben oltre la banalizzazione del sistema offerto dalle destre. 

L’indagine, condotta tra febbraio e maggio 2024, si basa su decine di interviste a migranti che hanno attraversato il Mediterraneo e su un periodo di osservazione a bordo della nave di soccorso Geo Barents di Medici Senza Frontiere. Emerge il quadro di un’economia clandestina ramificata che coinvolge trafficanti, milizie, funzionari corrotti e persino personale di organizzazioni internazionali.

I migranti intervistati raccontano di aver pagato somme tra i 2.000 e i 5.000 dollari a persona per la traversata, ma spesso si ritrovano a dover sborsare molto di più a causa di ripetute intercettazioni e detenzioni. Molti descrivono un ciclo di estorsioni e abusi che può durare mesi o anni prima di riuscire effettivamente a raggiungere l’Europa.

Il prezzo della speranza: il business milionario del traffico di esseri umani

Un elemento centrale che emerge è il coinvolgimento di attori statali libici nel business del traffico. Secondo le testimonianze raccolte, membri della guardia costiera libica, finanziata dall’Unione Europea, sarebbero in contatto con i trafficanti e riceverebbero tangenti per non intercettare alcune imbarcazioni. Funzionari dei centri di detenzione parteciperebbero all’estorsione dei migranti, chiedendo somme tra i 1.000 e i 3.000 dollari per il rilascio.

I numeri confermano la portata di questo fenomeno. Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), nel 2023 sono stati registrati oltre 153.000 arrivi irregolari via mare in Europa, di cui circa 118.000 attraverso la rotta del Mediterraneo centrale. Nello stesso anno, l’OIM ha documentato oltre 3.000 morti e dispersi nel Mediterraneo. L’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (UNODC) stima che il traffico di migranti nel Mediterraneo generi un fatturato annuo di circa 300 milioni di dollari per le reti criminali coinvolte. Questi dati, tuttavia, rappresentano solo la punta dell’iceberg di un’economia sommersa il cui valore reale è difficile da quantificare con precisione.

Corruzione e complicità: quando le istituzioni tradiscono

L’inchiesta rivela anche presunti legami tra trafficanti e personale locale di agenzie ONU in Libia, nonché con l’ambasciata pakistana a Tripoli. Alcuni migranti pakistani hanno riferito di sospette collusioni tra funzionari dell’ambasciata e trafficanti per lucrare sui rimpatri. Le Nazioni Unite e l’ambasciata pakistana non hanno risposto alle richieste di commento di InfoMigrants su queste accuse.

Il sistema si regge su una rete transnazionale di intermediari e “assicuratori” che gestiscono i pagamenti. I migranti raccontano di aver dovuto ricorrere a prestiti bancari o familiari per finanziare il viaggio, alimentando un flusso di denaro che dall’Africa e dal Medio Oriente arriva in Europa attraverso canali informali come l’hawala.

Le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera dell’UE sembrano aver paradossalmente rafforzato questa economia criminale. Il sostegno alla guardia costiera libica ha creato un sistema in cui i migranti vengono ripetutamente intercettati e riportati in Libia, dove cadono vittime di nuovi cicli di estorsione. Come spiega Claire Healy dell’UNODC: “Il contrabbando non avviene senza corruzione. Vediamo la corruzione a tutti i livelli.”

Dall’Africa all’Europa: anatomia di un viaggio nell’inferno

L’inchiesta mette in luce anche le terribili condizioni nei centri di detenzione libici e nelle “connection houses” gestite dai trafficanti. I migranti descrivono abusi, privazioni e violenze sessuali. Alcuni raccontano di essere stati venduti tra diversi gruppi di trafficanti o costretti al lavoro forzato per ripagare i debiti.

Il viaggio via mare rappresenta solo l’ultima tappa di un percorso che può durare mesi o anni. I trafficanti promettono traversate rapide e sicure su “grandi navi”, ma la realtà sono imbarcazioni sovraffollate e fatiscenti. Murad, un giovane palestinese intervistato, racconta: “Mi avevano promesso che avrei finito un pacchetto di sigarette prima di arrivare in Italia. Sono passati sette mesi.”

L’indagine di InfoMigrants dipinge un quadro molto più complesso rispetto alla narrazione politica dominante in Italia, che tende a focalizzarsi sui soli scafisti come responsabili del traffico di esseri umani. Emerge invece un sistema economico transnazionale alimentato dalla domanda di migrazione irregolare e dalla mancanza di canali legali.

Come sottolinea Healy dell’UNODC: “Molto raramente c’è una situazione in cui il trafficante convince qualcuno a farsi trasportare. Le persone hanno motivazioni estremamente forti per andarsene e cercano attivamente un trafficante.” La crisi in Libia e le politiche di contenimento dei flussi migratori sembrano aver creato le condizioni ideali per il prosperare di questa economia sommersa.

Le testimonianze sollevano interrogativi sull’efficacia e le conseguenze delle attuali politiche migratorie europee. Il focus esclusivo sul contrasto agli scafisti rischia di non cogliere la complessità del fenomeno e di non affrontare le cause profonde che lo alimentano. Come conclude Healy: “Se vogliamo davvero fermare il traffico, la corruzione è uno dei fattori chiave da affrontare. L’altro è guidato dal mercato: c’è una domanda molto forte di contrabbando perché per alcune persone non c’è alcuna possibilità di viaggiare regolarmente.”

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I renziani danno i numeri, per attaccare Meloni scivolano sull’inflazione

Matteo Renzi scalcia per entrare nel centrosinistra. Il leader di Italia viva insiste nel rivendicare la sua natura addirittura “di sinistra” e spiega di essere l’argine al populismo. Forse è per questo che ieri Italia viva ha deciso di adottare la comunicazione della destra trumpiana e ha sbagliato completamente i numeri come i populisti. 

Il partito guidato da Renzi ieri ha lanciato sui social una grafica accattivante, accompagnata dalla domanda provocatoria: “Giorgia Meloni, quanto ci costi?”. L’intento era chiaro: dimostrare l’aumento dei prezzi dei beni alimentari sotto il governo Meloni. Peccato che sia tutto sbagliato, come documenta il Fact Checking di Pagella Politica. 

L’imitazione trumpiana: quando lo stile tradisce il messaggio

La grafica, a prima vista convincente, mostrava una serie di aumenti di prezzo per prodotti di uso quotidiano, dal pane alla carne, dall’olio al latte. Numeri che, se fossero stati corretti, avrebbero potuto assestare un bel colpo al governo. Ma c’era qualcosa che non quadrava e non è sfuggito all’occhio attento di Pagella Politica, che ha deciso di vederci chiaro.

Il primo campanello d’allarme è suonato quando qualcuno ha notato una somiglianza quasi imbarazzante con le grafiche pubblicate pochi giorni prima da Donald Trump su Instagram. Sì, proprio quel Donald Trump che Renzi ha più volte criticato aspramente. Un caso di “ispiration” mal riposta Forse. Ma il vero problema non era tanto lo stile quanto la sostanza.

Scavando nei numeri Pagella Politica ha scoperto un vero e proprio vaso di Pandora. I dati presentati da Italia Viva, che dovevano rappresentare un confronto nazionale tra l’era Draghi e l’era Meloni, in realtà si riferivano solo alla provincia di Roma. Un dettaglio non da poco, considerando le differenze di prezzo che possono esistere da una regione all’altra del Paese.

Ma non è finita qui. Il confronto temporale scelto da Italia Viva lasciava perplessi: luglio 2022 vs luglio 2024. Peccato che Draghi abbia governato fino a ottobre 2022, rendendo il confronto quanto meno discutibile. E come se non bastasse, alcuni dei prezzi riportati erano semplicemente sbagliati. La passata di pomodoro, ad esempio, veniva indicata a 3,33 euro al chilo, quando il dato corretto era 1,88 euro.

L’ironia della situazione è che Italia Viva ha citato come fonte l’Osservatorio prezzi e tariffe del Ministero per le Imprese e il Made in Italy, lo stesso che sul proprio sito sconsiglia esplicitamente l’uso dei suoi dati per confronti tra diverse città e periodi. Un avvertimento che, evidentemente, è sfuggito ai creatori della grafica.

I numeri non mentono: la realtà dietro la retorica

Ma cosa dicono i dati ufficiali? Secondo l’Istat, la realtà è ben diversa da quella dipinta da Italia Viva. I prezzi dei beni alimentari sono effettivamente aumentati ma il picco si è verificato durante il governo Draghi, in concomitanza con un’impennata generale dell’inflazione. Sotto il governo Meloni, paradossalmente, la crescita dei prezzi ha rallentato.

Anzi, stando ai dati Ocse, a luglio 2024 l’Italia poteva vantare l’inflazione più bassa tra i Paesi del G7. E Eurostat conferma: siamo tra i “virtuosi” dell’Unione Europea in termini di contenimento dell’inflazione. A settembre 2024, l’aumento dei prezzi rispetto all’anno precedente si attestava a un modesto 0,8%.

Volendo essere “competenti” più che puntare sul sensazionalismo del prezzo del pane e del latte il partito di Renzi avrebbe potuto puntare sul potere d’acquisto degli italiani che cala sensibilmente a causa del lavoro povero che sta mettendo in difficoltà le famiglie. Ma quando si parla di diritti dei lavoratori l’autore del Jobs Act è in evidente difficoltà. Così alla fine hanno deciso di fare i populisti, ispirati dalla destra. 

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La favola dell’assoluzione di Salvini: quando la politica riscrive il diritto

Il leader della Lega Matteo Salvini, di fronte alla richiesta di condanna a sei anni di reclusione avanzata dalla Procura di Palermo nel processo Open Arms, ha deciso di ricorrere a una strategia difensiva quanto meno creativa. Con la disinvoltura che lo contraddistingue, Salvini sta diffondendo una narrazione che, se fosse un film, potremmo intitolare “L’assoluzione fantasma”. Solo che il fantasma è lui. 

In un’intervista rilasciata il 18 settembre a Non Stop News su Rtl 102.5, l’ex ministro dell’Interno ha affermato di essere già stato “mandato in giudizio in Tribunale a Catania” per lo stesso reato di cui è accusato nel caso Open Arms, sostenendo che il giudice avrebbe concluso il processo dicendo: “Salvini ha fatto il suo dovere, non capisco perché me l’abbiate mandato qua”. Salvini ha poi aggiunto: “Catania e Palermo non sono in due emisferi diversi: se ho fatto il mio dovere a Catania, non capisco perché dovrei essere un pericoloso sequestratore a Palermo”.

La favola dell’assoluzione: Salvini e il caso Gregoretti

Questa narrazione, ripetuta anche nella versione aggiornata del suo libro Controvento, presenta Salvini come un uomo già assolto per un caso analogo a quello della Open Arms, riferendosi specificamente al caso della nave Gregoretti. Il leader leghista parla di un “Non luogo a procedere” per aver rallentato lo sbarco di alcuni immigrati, affermando che per il Giudice per l’udienza preliminare (Gup) “il fatto non sussiste”.

Ma come riporta un’analisi dettagliata di Vitalba Azzollini per Pagella Politica, la realtà giuridica è ben diversa dalla favola raccontata da Salvini. L’ex ministro dell’Interno sta infatti mescolando abilmente le carte, confondendo – forse volutamente – concetti giuridici distinti e presentando come identiche due situazioni che in realtà presentano differenze significative.

La realtà giuridica: due casi, due percorsi diversi

Innanzitutto, i casi Gregoretti e Open Arms, seppur avvenuti entrambi nell’estate del 2019, presentano diversità sostanziali. Nel caso Open Arms, la permanenza dei migranti sulla nave è stata più lunga, c’è stata una sentenza del Tar che ha sospeso un provvedimento del governo, e si è verificato un disaccordo esplicito tra esponenti dello stesso esecutivo sul trattenimento delle persone a bordo.

Ma la differenza più rilevante, che Salvini omette convenientemente di menzionare, riguarda l’iter giudiziario. Nel caso Gregoretti, contrariamente a quanto affermato dal leader leghista, non c’è mai stato un vero e proprio processo. La vicenda si è conclusa con una sentenza di non luogo a procedere emessa dal Gup durante l’udienza preliminare. Quest’ultima, come spiega Azzollini, non è un processo vero e proprio, ma una fase procedurale il cui scopo è valutare se ci sono elementi sufficienti per procedere a un dibattimento.

Il Gup di Catania, dopo un’udienza preliminare insolitamente lunga e articolata, ha ritenuto che gli elementi a carico di Salvini fossero insufficienti per sostenere l’accusa in giudizio. Tuttavia, e questo è un punto cruciale, il Gup non si è pronunciato sull’innocenza o sulla colpevolezza di Salvini. La sua decisione, come chiaramente stabilito dalla Corte di Cassazione, non riguarda il merito delle accuse ma solo la loro sostenibilità processuale.

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Da Tzitzikostas a Kadis: un’altra grana per la Commissione von der Leyen

La Commissione von der Leyen non trova pace. Dopo la recente polemica su Tzitzikostas alla carica di commissario ai trasporti, un altro nome della sua squadra finisce sotto i riflettori. Questa volta è il turno di Costas Kadis, designato come futuro commissario europeo per gli oceani e la pesca.

Il passato di Kadis come ministro dell’ambiente a Cipro torna a perseguitarlo proprio mentre si prepara a trasferirsi a Bruxelles. Al centro della controversia c’è un progetto di trattamento dei rifiuti nella regione di Limassol, finanziato dall’Ue con ben 46 milioni di euro nel 2015. L’impianto di Pentakomo doveva essere un fiore all’occhiello della gestione sostenibile dei rifiuti ma si è trasformato in un vero e proprio incubo ecologico.

Il disastro di Pentakomo: 46 milioni di euro in fumo

Un rapporto interno, arrivato sulla scrivania di Kadis poco prima di lasciare il ministero nel febbraio 2023, dipinge un quadro a tinte fosche: anni di smaltimento illegale di rifiuti, violazioni delle normative europee e un fallimento su tutta la linea nel raggiungere gli obiettivi del progetto. Il combustibile derivato dai rifiuti, che doveva essere il prodotto principale dell’impianto, non è mai stato venduto come previsto, finendo invece sepolto illegalmente.

Ma la storia inizia molto prima dell’arrivo di Kadis al ministero. Già nel 2015, quando l’Ue concesse i fondi, il governo cipriota sapeva che i rifiuti locali non erano adatti per produrre il tipo di combustibile richiesto. Nonostante ciò, firmò l’accordo con Bruxelles, dando il via a un progetto nato sotto una cattiva stella.

Le conseguenze non hanno tardato a farsi sentire. Gli abitanti di Pentakomo e dei dintorni hanno dovuto sopportare l’insopportabile: odori nauseabondi provenienti da cumuli di rifiuti lasciati a marcire sotto il sole cocente dell’estate cipriota. Non solo i rifiuti domestici ma anche medici e industriali, potenzialmente pericolosi, sono finiti in discarica senza alcun trattamento.

Kadis, entrato in scena come ministro dell’ambiente nel 2018, si è trovato a gestire il problema per cinque lunghi anni. Critici come Efi Xanthou, del movimento ecologista cipriota, puntano il dito: “Come può qualcuno fidarsi di lui come commissario, dopo che non è riuscito a risolvere il problema in tutto questo tempo?”.

Il ministero, sotto la guida di Kadis, ha cercato di scaricare la colpa sull’azienda appaltatrice, Medcon & DB Technologies. I documenti però raccontano una storia diversa: l’azienda aveva ripetutamente avvertito il governo dei problemi tecnici insormontabili. L’umidità dei rifiuti era troppo alta, rendendo impossibile la produzione del combustibile secondo le specifiche richieste.

Da ministro a commissario Ue: il paradosso Kadis

Ora, mentre Kadis si prepara ad affrontare l’esame del Parlamento europeo per la sua nomina, lo spettro di Pentakomo lo segue a Bruxelles. Le domande si moltiplicano: cosa sapeva realmente della situazione? Perché non è intervenuto in modo decisivo? E soprattutto, è la persona giusta per guidare le politiche europee su oceani e pesca, dopo questo fallimento ambientale?

Per Ursula von der Leyen, questa nuova grana arriva in un momento già delicato. La sua Commissione, che doveva incarnare un nuovo corso per l’Europa, si trova a dover giustificare le scelte di commissari ancor prima di entrare pienamente in carica. Il caso Kadis potrebbe diventare un test cruciale per la credibilità dell’esecutivo europeo in materia di ambiente e trasparenza.

Mentre a Pentakomo i rifiuti continuano ad accumularsi illegalmente il futuro politico di Kadis è appeso a un filo. Il Parlamento europeo avrà l’ultima parola sulla sua nomina, ma una cosa è certa: lo scandalo cipriota dei rifiuti ha già lasciato una macchia indelebile sulla sua candidatura e sull’immagine della nuova Commissione europea.

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La favola nera del sovranismo: Meloni corteggia il lupo di Wall Street

Ieri a Palazzo Chigi lo statunitense Larry Fink è stato ricevuto con tutti gli onori. Di fronte aveva la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, una vita politica spesa a ventilare immaginifiche battaglie contro orrendi poteri forti.

Solo che Fink è presidente e amministratore delegato del colosso statunitense della finanza BlackRock, un potere forte forte davvero. In pancia ha dieci mila miliardi di dollari (il Pil di Giappone e Germania, sommati) e siede nei consigli di amministrazione delle più importanti aziende occidentali. Amano molto le armi, quelli di BlackRock, e mica per niente sono azionisti delle più importanti industrie belliche come Lockheed Martin a Raytheon Technologies e Northrop Grumman e ovviamente l’italiana Leonardo di cui detiene il 3%.

Ci si aspetterebbe che Meloni avesse voluto incontrare il “cattivo” per rivendicare il proprio sovranismo e per chiederli di tenere giù quelle manacce dai beni della patria e invece è accaduto esattamente il contrario. Come una piazzista ha aperto il campionario dei gioielli italiani e ha offerto ai poteri forti Autostrade e qualche altra occasione dell’Italia in saldo.

Fink avrà osservato con attenzione. Blackrock è azionista di Snam (poco meno del 5% cumulativo), di Terna (5%), di Saipem (0,6%), di Prysmian (5%), di Stm (0,6%), di Tenaris (1,8%), di Italgas (3,7%) ed è primo azioni sta di Unicredit con il 7%. 

Scene da bancarelle dentro il palazzo del governo. Il sovranismo è così, una postura che si può comodamente smentire. 

Buon mercoledì. 

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“Violazioni reiterate del diritto d’asilo”, partito l’esposto all’Ue contro l’Italia

Il governo Meloni finisce sotto la lente della Commissione europea. L’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) ha presentato una dettagliata denuncia alla Commissione Europea accusando l’Italia di gravi e sistematiche violazioni del diritto d’asilo.

Al centro dell’esposto ci sono le prassi, ritenute illegittime dall’Asgi, adottate dalle Questure italiane che di fatto impediscono o ritardano enormemente l’accesso alla procedura di protezione internazionale. Secondo i dati raccolti dall’Asgi in 55 delle 107 province italiane i richiedenti asilo sono costretti a recarsi in Questura per settimane o addirittura mesi prima di riuscire a manifestare la volontà di chiedere protezione.

La normativa europea prevede tempistiche molto stringenti: la domanda di asilo deve essere registrata entro 3 giorni lavorativi dalla manifestazione di volontà, prorogabili a 10 in caso di afflusso massiccio. Termini sistematicamente disattesi in Italia, dove i ritardi medi si attestano tra i 3 e i 6 mesi, con punte di oltre un anno in alcune province.

Le barriere invisibili: un sistema che nega l’accesso

Il report ASGI evidenzia come nel 60% delle province monitorate i richiedenti asilo non riescano ad accedere agli uffici delle questure per presentare domanda. Nel 21% dei casi, anche dopo la manifestazione di volontà, viene sistematicamente impedita la formalizzazione della domanda tramite il modulo C3.

In almeno 40 province viene illegittimamente richiesta una dichiarazione di ospitalità per poter presentare domanda. In 6 province le questure fissano arbitrariamente un tetto massimo di 5-15 domande al giorno, rimandando gli altri richiedenti a data da destinarsi.

I tempi di attesa tra la presentazione della domanda e la sua formalizzazione superano i 6 mesi in 18 province e l’anno in 3 province. Durante questo periodo, ai richiedenti viene negato sia il rilascio del permesso di soggiorno che l’accesso alle misure di accoglienza.

Conseguenze drammatiche: vite sospese nel limbo giuridico

Le conseguenze sono gravissime: migliaia di persone restano per mesi in un limbo giuridico, prive di qualsiasi forma di accoglienza e impossibilitate ad accedere ai servizi essenziali. Esposte al rischio concreto di finire in strada o essere fermate come irregolari.

La denuncia ASGI rileva come queste prassi costituiscano una sistematica violazione dell’art. 6 della Direttiva 2013/32/UE e dell’art. 18 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE. Di fatto, il diritto d’asilo viene svuotato di contenuto e reso inefficace. L’esposto cita numerosi rapporti e comunicati pubblicati nel 2024 da ASGI, IRC e cliniche legali universitarie. Viene inoltre riportata la copiosa giurisprudenza relativa alle azioni individuali intraprese dagli avvocati ASGI, che tuttavia non sono state risolutive del problema strutturale.

Particolarmente critiche risultano le situazioni di Roma, Milano, Firenze, Bari e Torino. In queste città le code davanti alle questure iniziano dalla sera prima, con centinaia di persone costrette a dormire per strada nella speranza di essere tra i pochi ammessi il giorno successivo.

Il report evidenzia anche come le prassi varino notevolmente tra le diverse questure, creando disparità di trattamento sul territorio nazionale. In alcune province l’accesso è possibile solo tramite intermediazione di avvocati o associazioni, in altre vengono accettate solo domande di determinate nazionalità.

La palla passa ora alla Commissione europea, che nei prossimi mesi dovrà decidere se avviare una procedura di infrazione contro l’Italia. Le violazioni contestate, sempre secondo Asgi, appaiono gravi e reiterate, tali da configurare un inadempimento sistematico degli obblighi comunitari in materia di asilo.

La denuncia mette il dito nella piaga di un sistema al collasso, ulteriormente aggravato dall’approccio restrittivo del governo Meloni. Servirebbero interventi strutturali per potenziare e uniformare le procedure di accesso all’asilo, nel rispetto degli standard europei e dei diritti fondamentali dei richiedenti protezione.

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“A Gaza la più grande strage degli ultimi decenni”, la denuncia di Oxfam

A un anno dall’inizio del conflitto a Gaza, Oxfam diffonde dati che gelano il sangue. Il numero di donne e bambini uccisi negli ultimi 12 mesi nella Striscia supera qualsiasi altro conflitto degli ultimi due decenni. Oltre 6.000 donne e 11.000 bambini hanno perso la vita sotto i bombardamenti israeliani, numeri che eclissano persino i bilanci più cruenti delle guerre in Iraq e Siria.

Ma questi numeri, per quanto scioccanti, potrebbero essere solo la punta dell’iceberg. Sotto le macerie giacciono ancora circa 20.000 corpi non identificati o dispersi. E secondo uno studio pubblicato su Lancet, le vittime indirette del conflitto – quelle causate da fame, malattie e mancanza di cure mediche – potrebbero superare le 180.000.

L’escalation del conflitto, già esteso in Libano e in Cisgiordania, non fa che peggiorare una situazione già catastrofica. Paolo Pezzati, portavoce di Oxfam Italia per le crisi umanitarie, non usa mezzi termini: “In nessun altro conflitto era mai stato ucciso un numero così alto di minori. Nell’ultimo anno a Gaza, questo numero indicibile è stato di cinque volte superiore a quello registrato tra il 2005 e il 2022.”

La devastazione sistematica: un’infrastruttura civile colpita ogni tre ore

La guerra non si limita a mietere vite umane. Distrugge sistematicamente il tessuto stesso della società civile. Secondo i dati forniti da Action on Armed Violence, l’esercito israeliano bombarda in media un’infrastruttura civile ogni tre ore. Scuole, ospedali, punti di distribuzione degli aiuti: nulla è risparmiato. Una o più abitazioni vengono colpite ogni 4 ore, mentre tende e rifugi temporanei sono bersagliati ogni 17 ore. Scuole e ospedali vengono attaccati ogni 4 giorni, e i punti di distribuzione degli aiuti ogni 15.

Il risultato è una devastazione totale. Il 68% dei terreni coltivati e delle strade di Gaza sono stati completamente distrutti o danneggiati. Solo 17 dei 36 ospedali della Striscia sono parzialmente funzionanti, e tutti soffrono per la mancanza di carburante, forniture mediche e acqua potabile.

Pezzati non esita a definire queste azioni come possibili crimini contro l’umanità: “Le violazioni del diritto internazionale umanitario compiute da Israele nell’ultimo anno sono di una gravità tale da poter essere considerate come crimini contro l’umanità. Il livello di devastazione causata a Gaza è indicativo di un uso del tutto sproporzionato della forza in relazione agli obiettivi militari, e della sistematica assenza di discriminazione tra obiettivi militari e popolazione civile.”

L’impatto invisibile: oltre 180.000 vittime indirette stimate

La dottoressa Umaiyeh Khammash, direttrice di Juzoor, associazione partner di Oxfam, descrive l’impatto devastante sulle donne e sui bambini: “Molte donne si sono ritrovate da sole a prendersi cura dei figli in mezzo alle macerie. Le madri incinte o in allattamento in particolare hanno affrontato difficoltà immense a causa del crollo dei servizi sanitari.” Per i bambini, il trauma è profondo e duraturo: oltre 25.000 hanno perso un genitore o sono diventati orfani, e innumerevoli altri hanno subito gravi lesioni fisiche, inclusa la perdita di arti.

La situazione non è migliore in Cisgiordania, dove si è verificata un’escalation senza precedenti. Dall’ottobre scorso, l’esercito israeliano ha demolito oltre 2.000 case palestinesi e si sono registrati più di 680 palestinesi uccisi da coloni israeliani o durante operazioni militari. I coloni hanno condotto oltre mille attacchi contro la popolazione palestinese, distruggendo coltivazioni, sistemi di irrigazione e serre.

Di fronte a questa catastrofe umanitaria, Oxfam lancia un appello urgente per un cessate il fuoco immediato e permanente. Chiede il rilascio di tutti gli ostaggi e dei palestinesi detenuti illegalmente, lo stop alla vendita di armi a Israele e l’ingresso senza restrizioni degli aiuti umanitari a Gaza. E chissà quelli che parlano di “operazione chirurgica” definendo quella del premier israeliano Netanyahu una “legittima difesa” che ne pensano, di fronte ai numeri. 

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Vietato parlare di guerra, war washing su Israele

“Invasione limitata in Libano”, ha scritto il Corriere della sera spiegandoci che “il governo di Israele ha votato sì alle incursioni”. Gli oltre 11 mila bambini uccisi a Gaza e le oltre 6 mila donne vittime delle bombe e dei proiettili israeliani avrebbero da ridire sull’uso della parola incursione, probabilmente, se potessero ancora parlare.

Anche Repubblica ha titolato con “incursioni in Libano” con un sottotitolo notevole: “Washington: le operazioni saranno limitate. Biden chiede una tregua”. Il lettore potrà comprendere che gli Usa hanno chiesto una tregua con la mano destra e hanno assicurato che la guerra sarà “limitata” con la sinistra. Quindi Biden dovrebbe chiedere una tregua a se stesso, sostanzialmente.

Il Maessaggero titola “Israele entra in Libano”, immaginando un distinto signore che ha suonato al campanello del Libano chiedendo di poter salire un secondo per lasciare sul tavolo un paio di cose. Erano bombe. Nell’occhiello si legge che i militari italiani sono “in allarme”: si vede che non leggono i giornali italiani.

Il Giornale, quotidiano che in questi anni ci ha abituato a prime pagine fragorose e spesso iperboliche, ieri deve avere ingerito una dose di bromuro: “Blitz degli israeliani in Libano”. Sembra la cronaca di un abigeato.

Un bel pezzo della stampa italiana è campionessa di war washing, professionista dell’imbellettamento della guerra come legittima difesa o esportazione di democrazia o difesa dei valori occidentali o democratica incursione o chirurgica operazione o azione contro il terrorismo o riequilibrio internazionale o invasione obbligata o difesa dei confini. L’importante è non chiamarla guerra e riuscire ad avere lo stomaco per non vedere le vittime.

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La Politica agricola (verde) europea è una barzelletta: la Corte dei conti Ue smonta le ambizioni climatiche

La nuova Politica Agricola Comune dell’Unione europea (Pac), quella che doveva essere “più verde”, è in realtà poco più di un’operazione di facciata. A dirlo non sono gli ambientalisti o i soliti guastafeste ma la Corte dei conti europea in una relazione che fa a pezzi i piani nazionali della Pac 2023-2027.

Il rapporto è impietoso: nonostante le roboanti dichiarazioni di intenti, i piani degli Stati membri “non sono all’altezza delle ambizioni dell’Ue in materia di clima e ambiente”. In altre parole, la montagna ha partorito il topolino.

La Corte non usa mezzi termini nel bocciare l’approccio degli Stati: “Nel complesso, i piani approvati sono più ecologici, ma non in modo significativo”. Una frase che suona come una sentenza di condanna per chi aveva promesso una svolta verde nella politica agricola europea.

Scappatoie e bluff: la Pac verde si sgretola

Ma vediamo nel dettaglio cosa non ha funzionato. Innanzitutto, gli Stati hanno fatto ampio uso delle scappatoie concesse dal regolamento. La Corte rileva che “tutti gli Stati membri si sono avvalsi delle disposizioni del regolamento sui piani strategici della Pac per ridurre l’applicabilità di alcuni obblighi o per ritardarne l’applicazione”. Un esempio? Ben 16 paesi hanno rinviato al 2024 o 2025 l’obbligo di proteggere le torbiere e le zone umide, fondamentali per l’assorbimento di CO2.

Non solo. I famosi “regimi ecologici”, il fiore all’occhiello della nuova PAC, si sono rivelati in molti casi un bluff. In Irlanda e Francia, nota la Corte, “i regimi ecologici costituivano per lo più un proseguimento di pratiche agricole verdi esistenti”. Tradotto: soldi pubblici per continuare a fare quello che si faceva già.

Ma il problema più grave è un altro: l’assenza di obiettivi chiari e misurabili. La Corte è lapidaria: “La Commissione non ha potuto misurare la portata del contributo dei piani al conseguimento degli obiettivi del Green Deal”. In pratica, non sappiamo se e quanto questi piani contribuiranno davvero agli obiettivi climatici dell’Ue.

E non finisce qui. La relazione sottolinea che “il conseguimento dei valori-obiettivo del Green Deal dipende in larga misura da azioni esterne alla Pac”. Come dire: la politica agricola, da sola, non basta nemmeno lontanamente a centrare gli obiettivi ambientali. Persino l’unico target quantificabile, quello sull’agricoltura biologica, sembra irraggiungibile. La Corte osserva che “l’obiettivo del Green Deal di destinare il 25% dei terreni all’agricoltura biologica entro il 2030 sembra piuttosto difficile da conseguire”.

Politica agricola Ue, un monitoraggio inefficace e requisiti annacquati

Il colpo di grazia arriva quando si parla di monitoraggio e valutazione. Il nuovo sistema, secondo la Corte, “è privo di elementi chiave per valutare la performance verde della PAC”. Gli indicatori sono vaghi e spesso misurano solo le “realizzazioni” (quanti ettari, quanti animali) e non i risultati effettivi in termini ambientali.

Come se non bastasse, in risposta alle proteste degli agricoltori, l’Ue ha ulteriormente annacquato i già blandi requisiti ambientali. La Corte nota che “se da un lato tali modifiche rendono più facile per gli agricoltori soddisfare i requisiti di condizionalità, dall’altro generano minori benefici ambientali e climatici”.

Insomma, un fallimento su tutta la linea. La tanto sbandierata Pac verde si rivela poco più di un’operazione di greenwashing, con obiettivi vaghi, controlli insufficienti e troppe scappatoie per gli Stati membri. La Corte chiude con alcune raccomandazioni, tra cui “promuovere gli scambi di buone pratiche verdi nei piani” e “rafforzare il futuro quadro di monitoraggio della Pac per il clima e l’ambiente”. Ma suona quasi come un’utopia, visto il quadro desolante emerso dall’analisi.

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