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Stefano Meloni su CagliariPost recensisce “i mangiafemmine”

(Stefano Meloni per CagliariPost recensisce – velocissimo – il mio romanzo #IMangiafemmine. Lo ringrazio e appoggio il suo pezzo qui)

Viaggio nei labirinti della mente e del cuore, tra inspiegabili e soprattutto ingiustificabili esplosioni di violenza contro le donne e sottili intrecci fra politica e società ne “I Mangiafemmine”, il nuovo romanzo di Giulio Cavalli, pubblicato da Fandango Edizioni (in libreria da martedì 14 novembre) che affronta in una chiave surreale e grottesca il tema scottante e attuale dei femminicidi: la parola all’autore, protagonista mercoledì 15 novembre alle 18 nel Foyer del Teatro Massimo di Cagliari insieme con il giornalista Michele Pipia, per un nuovo appuntamento sotto le insegne di Legger_ezza 2023 / Promozione della Lettura – V edizione a cura del CeDAC / Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo dal Vivo in Sardegna in collaborazione con la Libreria Edumondo.

Tra le voci più interessanti e originali della letteratura italiana contemporanea, l’eclettico attore e scrittore milanese (classe 1977), dal 2007 sotto scorta per il suo impegno nella lotta contro le mafie, disegna un affresco di varia umanità, schierandosi consapevolmente dalla parte delle vittime di abusi, imprigionate in un ruolo tradizionale di mogli e madri, miti e sottomesse, mettendo l’accento sulle varie forme di crudeltà fisica e psicologica, fino al delitto.

Una cronaca spietata resa con toni quasi fumettistici, nel mettere in risalto la metamorfosi di un individuo (quasi) perbene dietro la cui correttezza formale, con la consumata abilità di gestire situazioni complicate e cavarsi dagli impicci, rifugiandosi in una rassicurante mediocrità, si cela una bestia ripugnante, abbietta e volgare, capace delle peggiori nefandezze o anche la “banalità” di una casa degli orrori in cui un altro personaggio tormenta per anni la moglie, coprendola di insulti e botte, finché costei non trova la forza di reagire, per pagare la ritrovata consapevolezza e la necessità di riaffermare la propria dignità con la sua stessa vita.

Una amara fotografia del presente, una antologia di storie differenti ma con lo stesso terribile finale, in cui l’aspetto più drammatico è dato da una sorta di generale assuefazione davanti alla freddezza dei numeri, che non fanno (quasi) più notizia, come se le donne maltrattate, ferite e uccise non fossero persone, ma dati di una statistica, in un bilancio di morti (in)naturali.

Una strage silenziosa, uno stillicidio feroce che si diffonde come un’epidemia, quasi per contagio, una terribile escalation da cui riaffiora il retaggio di una arcaica civiltà patriarcale, dove le figure femminili – figlie, mogli, madri e sorelle – appaiono necessariamente in secondo piano, come sfocate, pallidi angeli del focolare, sante oppure prostitute in un’antitesi che ne stigmatizza morale e comportamenti.

Dopo secoli di oscurantismo, in cui è stata loro negata perfino l’anima, a sancire una presunta superiorità maschile, le donne anche quando, grazie alle battaglie per l’emancipazione femminile e all’evoluzione culturale e sociale, siano diventate brillanti e apprezzate professioniste, imprenditrici, scienziate, finiscono spesso per ritrovarsi, proprio dentro le mura di casa, sminuite e oltraggiate, costrette a combattere contro i pregiudizi e l’ingiustificata gelosia di padri e fratelli, mariti e amanti.

Ne “I Mangiafemmine”, Giulio Cavalli costruisce una sorta di montaggio incrociato tra le vicende di coppie più o meno (in)stabili, in cui le donne che semplicemente aspirino o tentino di infrangere o ribellarsi all’egemonia maschile, oppure improvvisamente si ritrovino a essere testimoni scomode del fallimento dei loro compagni, vengono massacrate da coloro che dovrebbero invece proteggerle, secondo il modello patriarcale, ma comunque amarle e soprattutto rispettarle e la situazione politica, dove l’approssimarsi del voto fa esplodere, inaspettatamente, la questione dei femminicidi come emergenza nazionale.

Il poliedrico artista, che spazia fra teatro e letteratura, spinge il suo sguardo nell’intimità domestica, fin dentro la testa dei suoi personaggi, per rivelarne pensieri e impulsi inconfessabili, e fornisce una inedita chiave di lettura per un fenomeno che in Italia – ma nel libro tutto si svolge a DF, e ogni altro accostamento dipende del lettore – sta assumendo dimensioni sempre più ampie e trasversali, in parte come effetto collaterale del lockdown e della pandemia, con convivenze forzate e prolungate da cui sono emersi anche conflitti latenti, amplificate dalla crisi economica e dal disagio sociale.

Uno stile brillante e vivace, che offre molteplici spunti all’immaginazione, caratterizza una narrazione che si dipana tra studi televisivi e luoghi più appartati, nell’alternarsi dei dibattiti tra esponenti della politica, della società e della cultura e delle riunioni al vertice in cui si analizzano e decidono le strategie di comunicazione, accanto agli spietati ritratti di famiglia in un inferno, dove emergono, intramontabili, i più “classici” luoghi comuni sui rispettivi ruoli, specialmente laddove le mogli abbiano rinunciato a lavorare per occuparsi delle faccende domestiche e dei figli, oltre che di accudire il consorte.

Il marito resta quello che fatica per portare a casa il pane, l’eroe da accogliere con ogni riguardo al termine di una giornata densa di responsabilità e ostacoli, ma trovano posto anche la vergogna e l’imbarazzo all’idea di far sapere a vicini, parenti e conoscenti che oltre la soglia si consumano violenze e abusi, la riluttanza ad ammettere di avere sposato un uomo sbagliato, di aver amato (e sopportato) un mostro.

Giulio Cavalli descrive con sottile humour nero il dilemma del candidato, indeciso se dare ascolto alle richieste delle associazioni in difesa delle vittime o minimizzare il problema, se cercare delle soluzioni sicuramente complesse per porre fine a quella strage annunciata o rifugiarsi dietro la considerazione che in fondo i femminicidi sono una sorta di tradizione, le donne che sono morte e continuano a morire per mano degli uomini sono le “altre”, le più ribelli e trasgressive, quelle che non sanno stare al loro posto, mentre «le donne per bene, normali, le madri di famiglia, le fidanzate discrete non corrono rischi».

Quali saranno le conseguenze del massacro sulle scelte di Valerio Corti, nome di punta del partito dei conservatori, come sullo scenario politico, si potrà scoprirlo solo leggendo il romanzo: “I Mangiafemmine” è un libro avvincente, che offre attraverso una chiave di lettura paradossale molteplici spunti di riflessione sulla realtà. Giulio Cavalli – si legge nella presentazione – «firma la sua opera più radicale e provocatoria, con lo stile riconoscibile di un narratore raffinato che non ha paura di raccontare un mondo che già c’è. DF è ora più che mai lo specchio oscuro di una società in cui non vorremmo mai guardarci»

Un caso Indi pure in Italia: Ettore morto di Sma per una firma che manca

Ettore era un bambino di 35 giorni che è morto perché è nato nella regione sbagliata. In un’altra regione avrebbero diagnosticato e curato la sua malattia, la Sma, l’atrofia muscolare spinale dalla perdita dei motoneuroni, ovvero quei neuroni che trasportano i segnali dal sistema nervoso centrale ai muscoli, controllandone il movimento. Per quella malattia esiste una terapia che permette uno sviluppo motorio uguale agli altri bambini, basta diagnosticarla precocemente con un semplice esame che consiste nel prelievo di qualche goccia di sangue dal tallone del neonato. Oggi grazie a ben tre diverse terapie, tutte efficaci, si possono diagnosticare e curare bambini che vivono una vita normale.

La storia di Ettore e i diritti negati

Nei progetti pilota della Regione Lazio e della regione Toscana i 18 bambini affetti da Sma oggi stanno bene. Ettore era nato lo scorso 3 ottobre all’ospedale di Santorso, in provincia di Vicenza, poi è stato trasferito a Padova e qui è morto lo scorso 6 novembre. “Ci sentiamo affranti, addolorati, sconfitti, traditi dal nostro Stato, ma anche molto molto arrabbiati”, scrive Anita Pallara presidente di FamiglieSMA associazione di genitori e persone affette da SMA che da oltre 10 anni è in prima linea per migliorare la qualità della vita e garantire le migliori cure possibili alle persone affette da questa malattia: “Nessuno può dire che non sapeva, questa situazione viene denunciata da anni, sui giornali, nei convegni, in incontri di persona con sottosegretari e tecnici del Ministero della Salute, e c’è anche una fila lunghissima di interrogazioni parlamentari alle quali il Ministero ha più volte risposto che ‘è questione di tempo’, una cantilena di morte che va avanti da più di due anni, perché di fronte alla SMA perdere tempo significa perdere vita”.

Bisogna avere il coraggio di raccontare perché Ettore è morto: per un Decreto di aggiornamento della Legge 167/2016 che – dice Pallara – “lo Stato da oltre due anni tiene fermo nei cassetti del Ministero della Salute”. La Sma infatti sulla carta dovrebbe già essere oggetto di screening in tutta Italia come si legge nell’emendamento Volpi del 2018 alla Legge 167/2016 (detta “Legge Taverna”), estendendo lo screening anche alle malattie neuromuscolari.

Il 13 febbraio del 2020 l’emendamento della deputata Lisa Noja, di Italia Viva, aveva stabilito un termine certo per l’aggiornamento degli screening neonatali, un passo indispensabile per includere nel panel anche malattie neuromuscolari, immunodeficienze congenite severe e malattie da accumulo lisosomiale. Il tavolo tecnico si è insediato a fine 2020 e a maggio 2021 ha concluso i suoi lavori.

C’è tutto quello che serve, manca solo la firma, che ancora non arriva. Come racconta il settimanale Vita, specialista nel Terzo settore, sono 9 le regioni in cui ad oggi lo screening per la Sma viene proposto e la Puglia è la sola regione in cui è obbligatorio per tutti i neonati: alcune Asl, anche nelle regioni che non hanno lo screening, hanno avviato dei progetti pilota ma solo l’approvazione del decreto a livello nazionale può eliminare le disuguaglianze nell’accesso a questa opportunità che davvero può fare la differenza tra la vita e le morte di un bambino.

Colpevole ritardo

“Noi non possiamo più attendere una firma che non arriva per mancanza di volontà, – dice l’associazione FamiglieSMA – e questioni che nulla hanno a che fare con la sacralità della vita e il diritto costituzionale alla salute dei cittadini. È ora che le istituzioni si prendano le loro responsabilità e agiscano. Ci hanno dimostrato che i decreti possono uscire in una manciata di giorni, ora vogliamo vedere la stessa cosa: pretendiamo che il decreto venga firmato immediatamente e diventi legge dello Stato con applicazione immediata”. Intanto Ettore è morto.

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L’Unione Sarda su “i mangiafemmine”

CULTURA
mercoledì 15 novembre


«Se l’ assassino ha le chiavi di casa»


Dopo “Carnaio”, finalista al premio Campiello 2019, sul tema dei migranti, e “Nuovissimo testamento” (2021), sulla soppressione delle emozioni che possono “indebolire” le persone, come l’empatia, tutti editi da Fandango, è appena giunto in libreria “I mangiafemmine”, sul tragico problema dei femminicidi riletto in chiave paradossale, terzo volume di un’ideale trilogia distopica ambientata nell’immaginario paese di DF, anche se l’autore, Giulio Cavalli (Milano, classe 1977), preferirebbe non chiamarla così «dato che molte situazioni e dichiarazioni rispecchiano completamente la vita reale». Cavalli, giornalista, scrittore e autore teatrale, che dal 2007 vive sotto scorta per il suo impegno nella lotta contro le mafie, collabora con varie testate giornalistiche e ha pubblicato diversi libri d’inchiesta, tra i quali “Nomi, cognomi e infami” (2010), e sarà ospite oggi alle 18 nel Foyer del Teatro Massimo di Cagliari per un nuovo appuntamento con Legger_ezza 2023 quinta edizione a cura del Cedac ardegna in collaborazione con la Libreria Edumondo. Dialoga con l’autore il giornalista Michele Pipia.

Perché affidarsi alla letteratura per parlare di femminicidi?

«È una forma espressiva che ti dà la libertà di far convivere quel che è irreale, possibile, probabile e reale; credo la letteratura resti lo strumento più “bello” che abbiamo per raccontare le brutture di questo mondo».

Cosa l’ha spinta a scrivere “I mangiafemmine”?

«Anch’io mi sono trovato a essere investito dalle dimensioni di questo sterminio di donne quotidiano, e anche se lascerei il versante di analisi femminista a chi se ne occupa meglio di me, mi ha sempre incuriosito e spaventato il fenomeno della “normalizzazione” che segue l’esposizione mediatica continuativa di un fenomeno: mi terrorizza questo nostro istinto di sopravvivenza».

Che storia affronta il libro?

«Ci troviamo ancora nello stato immaginario di DF, e alla vigilia delle elezioni la parte politica conservatrice è sicura di vincere mentre si assiste a un’escalation di violenze sulle donne. Il candidato premier, Valerio Corti, inciampa in un comunicato stampa nel quale minimizza ciò che sta accadendo in quanto «sempre avvenuto»; viene dunque sostituito da una candidata donna e ripescato come ministro, dato che il pronostico iniziale non verrà ribaltato».

Quali provvedimenti verranno presi?

«Ad esempio sarà parificato il femminicidio all’attività venatoria e dunque legalizzato, questo sia perché a DF ci sono molte più donne che uomini, sia per dimostrare che non si tratta di un vero allarme».

Cosa la colpisce di più in questo tipo di crimini?

«Il fatto che l’assassino, nei femminicidi, abbia quasi sempre le chiavi di casa, perché vive ancora con la sua vittima o lo ha fatto: spesso sentiamo dire che servirebbero più forze dell’ordine o si sposta l’attenzione sui non residenti. Bisogna invece riconoscere che si tratta di un problema innanzitutto indigeno».

Come contrastarlo?

«Mi sembra evidente che si tratti di una criticità culturale, retaggio del patriarcato che ci portiamo dietro da secoli e che è ancora forte nella popolazione maschile della mia età, perché da piccoli siamo stati inevitabilmente esposti a una cultura maschilista».

Cosa le dànno la letteratura, il giornalismo e il teatro?

«La letteratura mi permette di creare qualsiasi mondo spendendo pochissimo per la carta; il giornalismo mi dà la piacevole sensazione di stare dentro il mio presente; il teatro mi consente di avere un pubblico che durante lo spettacolo ascolta quello che ho da dire».

Luca Mirarchi

Dagli allo sciopero che forse ti meriti un posticino in giuria a Miss Italia

Come volevasi dimostrare: il fastidio nei giorni scorsi del ministro Salvini verso gli scioperaturi sindacati Cgil e Uil era solo l’assaggio per decidere di affondare il colpo. Ha tastato con mano che il suo elettorato è infastidito molto più dal ritardo di un treno regionale che dal fatto di vivere nell’unica nazione europea in cui i salari negli ultimi decenni si abbassano invece di alzarsi e ha potuto attaccare le facce di Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri sulla bacheca dei nemici (veri, presunti e immaginari) che tiene nella sua cameretta. 

Qualche buon amico deve avergli consigliato di convocarli al ministero prima di lanciarsi nella precettazione ma i due segretari di Cgil e Uil hanno notato del ministro il digrignar di denti e hanno deciso di starsene a casa. 

Le fazioni qui in basso sono già schierate. Ci sono quelli che “lo sciopero che atto inelegante signora mia!”, quelli che “va bene lo sciopero ma solo di mercoledì dalle 10 alle 10.25 che intanto sono in fila alla posta”, quelli che “per legge bisognerebbe concedere lo sciopero solo nei treni in cui non sale nessuno”, quelli che “Landini mi è antipatico per il taglio di capelli” e quelli che “io non ho mai scioperato” come se fosse una skill da aggiungere al curriculum. 

Quando c’è da fare la guerra agli schiavi questo Paese eccelle sempre senza sapere che a furia di gareggiare con gli schiavi si diventa schiavi. Così ci godiamo la guerra agli oppressi, sperando di diventare cari agli oppressori, ingaggiata da quelli che confidano di essere nella prossima giuria di Miss Italia. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: frame del video sull’incontro al Mit, 14 novembre 2023

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Decreti legge a novanta giorni. Oltraggio alla Costituzione

La giurista Vitalba Azzollini sul quotidiano Domani racconta del disegno di legge costituzionale presentato da Adriano Paroli (FI) che si sta discutendo in Commissione al Senato. Si vorrebbe modificare l’articolo 77 della Costituzione estendendo da 60 a 90 giorni il termine per convertire in Parlamento i decreti legge.

La destra vorrebbe modificare l’articolo 77 della Costituzione estendendo da 60 a 90 giorni il termine per convertire in Parlamento i decreti legge

Lo strumento pensato dai padri costituenti per intervenire solo in casi “straordinari di necessità e urgenza” è diventato nel corso degli anni la normalità con sui si delega al governo anche l’attività legislativa oltre che esecutiva. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, più e meglio dei suoi predecessori, ha usato i decreti per 25 leggi sulle 43 totali finora approvate superando tutti i governi precedenti.

L’iniziativa (di cui è relatore il senatore Alberto Balboni, uno che conta in Fratelli d’Italia) è scollegata dalla cosiddetta “riforma del premierato” che vorrebbe Meloni. Si tratterebbe quindi di un tassello ulteriore alla “donna sola al comando” a cui aspira la presidente del Consiglio. Diventeremmo quindi l’unico Paese in cui un capo di governo viene eletto senza ballottaggio, se ne può tranquillamente star seduto a infischiarsene del Presidente della Repubblica utile solo nel momento del buffet e con a disposizione un Parlamento che non deve fare altro che ratificare le decisioni del capo prendendosela anche comoda.

Non serve nessuna riforma. Come dice il Quirinale servirebbe “un’adeguata capacità di programmazione legislativa da parte dei governi” e “una corrispondente attitudine del Parlamento a consentire l’approvazione in tempi ragionevoli dei disegni di legge ordinaria”. Ma per fare quello bisognerebbe saper governare, mica desiderare di comandare.

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Meloni & C. piangono Indi, ma per i bambini di Gaza non c’è spazio per la pietà

Indi Gregory è morta nella notte fra domenica e lunedì. A comunicarlo è stato il padre della bambina di 8 mesi affetta da una grave patologia mitocondriale, a cui il 6 novembre il governo Meloni ha concesso la cittadinanza per consentirle di essere trasferita al Bambin Gesù di Roma. Dopo una lunga battaglia legale intrapresa dai genitori venerdì le Corti del Regno Unito avevano disposto lo stop ai trattamenti vitali e il trasferimento in un hospice. Il dolore della vicenda non ha scalfito la strumentalizzazione della politica.

Il calvario di Indi Gregory

Indi soffriva della sindrome da deplezione del Dna mitocondriale, una malattia genetica che causa una significativa diminuzione del Dna mitocondriale all’interno delle cellule. Già durante la gravidanza, le ecografie avevano rivelato gravi difetti di sviluppo e i medici avevano consigliato ai genitori di abortire, ma loro si erano rifiutati di farlo. Alla nascita i medici hanno constatato che la forma di malattia di Indi rientrava tra le più gravi, quella che colpisce contemporaneamente le cellule dell’intestino e i neuroni del cervello. A oggi non esiste una cura. I genitori erano convinti che la figlia rispondesse agli stimoli, ma i medici britannici concordano sul fatto che si trattasse semplicemente di movimenti automatici.

Per la medicina una persona affetta da quella patologia non ha attività cerebrale, non è cosciente e non prova nemmeno il dolore. “Mia figlia è morta, la mia vita è finita all’1.45”, ha detto a Lapresse, Dean Gregory, il padre. “Io e mia moglie Clare siamo arrabbiati, affranti e pieni di vergogna”, ha aggiunto. “Il servizio sanitario nazionale e i tribunali non solo le hanno tolto la possibilità di vivere, ma le hanno tolto anche la dignità di morire nella sua casa. Sono riusciti a prendere il corpo e la dignità di Indi, ma non potranno mai prendere la sua anima”.

Lunedì scorso Il Consiglio dei ministri si era riunito in sessione straordinaria per concedere la cittadinanza alla bambina, dopo che l’ospedale romano Bambin Gesù si era offerto per ospitarla e ricevere cure sperimentali. Da lì è iniziata una fitta battaglia legale sull’asse Roma-Londra con le corti del Regno Unito che venerdì avevano disposto lo stop ai trattamenti che la tenevano in vita. Per i dottori del Queen’s Medical Centre di Nottingham dove era ricoverata, la malattia era terminale. “Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, tutto il possibile. Purtroppo non è bastato. Buon viaggio piccola Indi”, ha scritto sui social Giorgia Meloni ma sulla morte di Indi si è innestata una battaglia politica.

Sul caso Indi una propaganda indegna

Strumentalizzare la vicenda della famiglia inglese per colpire il diritto di scegliere in Italia è il sottotesto delle dichiarazioni che provengono dalla maggioranza. Il leader della Lega Matteo Salvini agita come una clava le parole del padre: “Il servizio sanitario nazionale e i tribunali non solo le hanno tolto la possibilità di vivere, ma le hanno tolto anche la dignità di morire nella sua casa. Sono riusciti a prendere il corpo e la dignità di Indi, ma non potranno mai prendere la sua anima”. “La vita per noi è sacra. La decisione dei giudici inglesi è per noi incomprensibile e mortifica fica il valore straordinario della nostra esistenza”, scrive il senatore Antonio De Poli.

La vicecapogruppo di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli utilizza il lutto per appuntare una medaglia alla presidente del Consiglio: “Siamo orgogliosi del Governo Meloni e della generosità del Bambin Gesù”. A ruota arriva Maurizio Lupi, leader di Noi moderati: “Se la vita di Indi non aveva senso, non lo ha neanche la nostra”. E non poteva mancare la voce dei Pro Vita & Famiglia onlus che grida alla “vergogna” con il leghista Simone Pillon che parla di “condanna a morte” e propone di portare “la salma in Italia”. Il Moige addirittura dice di “temere per i nostri figli in Italia”.

Lo scambio di accuse

Tra le file dell’opposizione Riccardo Magi di +Europa sottolinea come “concedere la cittadinanza alla piccola Indi Gregory non è stato un atto umanitario ma un atto politico del governo che non avrebbe garantito nulla in più rispetto alle cure che la bambina ha già ricevuto in Inghilterra, in uno dei migliori ospedali pediatrici al mondo. Non c’era nessun consulto medico – sottolinea Magi – che fosse diverso da quello espresso dai medici inglesi, anche il Bambin Gesù di Roma avrebbe assicurato cure palliative per questa bambina”.

Di “farsa interpretata in prima persona da Giorgia Meloni, strumentalizzando il dolore della famiglia”, parla Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera. Così mentre il Professor Claudio Giorlandino, presidente della Sidip, Società Italiana di Diagnosi Prenatale e Medicina Materno Fetale, ricorda che quella patologia sarebbe stata “diagnosticatale già in utero” sul corpo di una neonata si gioca la propaganda: “Il Governo Meloni è un faro di umanità”, scrive in una nota il capodelegazione di Fratelli d’Italia-Ecr al Parlamento europeo Carlo.

La dura verità

Chissà dov’era l’umanità quando non c’era da buttare in mezzo a una strada i genitori dei bambini italiani che hanno perso i sussidi minimi per vivere dignitosamente. Chissà dov’era “il faro dell’umanità” quando c’era da salvare e poi almeno onorare i bambini annegati a Steccato di Cutro o quelli rinchiusi in Libia o in Tunisia. Nel tardo pomeriggio di ieri il capogruppo alla Camera M5S Francesco Silvestri scrive: “La differenza tra noi e Giorgia Meloni però, è che noi sentiamo il bisogno di parlare anche delle sofferenze che proviamo per i quasi 5 mila bambini deceduti a Gaza in queste settimane. Molti di loro sono morti dentro un’incubatrice perché senza corrente; perché non sono riusciti ad arrivare in un presidio sanitario per la scarsità di benzina; perché colpiti dalle bombe mentre erano già in un letto di ospedale”. E un’altra giornata di speculazione e di distrazione di massa è passata.

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Il balletto sullo sciopero non fa ridere

Qualche settimana fa incautamente sono rimasto coinvolto in una discussione sugli scioperi. Ero all’interno di un bar, di mattina, quando gli avventori sono particolarmente inclini a vergare ognuno il proprio editoriale verbale sui fatti del giorno. Tra i presenti, manco a dirlo, andava molto forte l teoria che «questi scioperano sempre il venerdì così hanno il week end lungo». La strampalata teoria (cresciuta con cura del fu ministro Brunetta) è talmente stupida che non poteva non diventare immediatamente popolare. 

Ho spiegato, per quel poco che so per il lavoro che faccio, che la scelta del venerdì come giorno di sciopero è funzionale alla sua partecipazione. «Ma crea disagi», dice uno di loro. Lo sciopero che non crea disagio è un altro mito di questa epoca che in nome della “normalizzazione” vuole eliminare il diritto al conflitto. Lo sciopero omeopatico senza disagi è l’invenzione di chi vorrebbe i lavoratori buoni, i sindacati a cuccia, il popolo silente e concentrato a non piangere perché le sue lacrime fanno male al Re. 

Sullo sciopero da qualche tempo il ministro Matteo Salvini ha deciso di allenarsi a fare l’uomo forte, parte che lo rende spesso ridicolo e fuori dalle regole. Così mentre aspetta di posare la prima pietra del Ponte che vorrebbe come suo mausoleo ha deciso di intestarsi la guerra agli scioperi e ai sindacati. Anzi, lui indica loro due come obiettivi ma non ci vuole troppo a capire che i suoi veri nemici siano i lavoratori non addomesticati. 

Per la prima volta nella storia repubblicana uno sciopero generale confederale viene considerato illegittimo. Detto così può fare sorridere ma in questa storia c’è un germe nerissimo.

Buon martedì. 

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La folle guerra per l’Ucraina. Dilaniata e abbandonata

In una recente intervista all’Economist il comandante in capo delle Forze armate ucraine e membro del Consiglio per la sicurezza e la difesa nazionale dell’Ucraina, Valery Zaluzhny, ha confermato che la guerra attraversa una fase di stallo sul piano militare e che probabilmente non ci sarà nessuna svolta. Nel frattempo in un’intervista al Time il presidente ucraino Zelensky sottolinea come dopo venti mesi di guerra “la cosa più spaventosa è che una parte del mondo si è abituata alla guerra in Ucraina”, sottolineando come in Europa e negli Stati Uniti il conflitto sia simile a uno show e il suo pubblico comincia a bisbigliare che non è possibile riguardare “una replica per la decima volta”.

La guerra in Ucraina attraversa una fase di stallo sul piano militare e che probabilmente non ci sarà nessuna svolta

Della stanchezza della guerra della nostra presidente del Consiglio abbiamo saputo da uno scherzo telefonico. Quando Giorgia Meloni è stata smascherata ha risposto piccata che lei “ha sempre detto quelle cose” e ci ha fatto intendere che sono diversi i leader sulla sua stessa lunghezza d’opinione in Europa. Sarà, avremmo capito male noi. Dagli Usa fanno sapere che, dopo l’inverno, con il nuovo anno, potrebbero partire le pressioni per innescare una trattativa tra Russia e Ucraina.

La nostra presidente del Consiglio – sempre in quella famosa telefonata – ha suggerito che sarebbe meglio che il presidente ucraino si convincesse a “cedere qualcosa”. Accadrà quindi che la soluzione diplomatica e il cessate il fuoco saranno considerati l’unica soluzione possibile, come suggerivano fin dall’inizio i pacifisti che sono stati massacrati in tutti questi mesi. Ci sarà solo qualche piccola differenza: migliaia di morti, quartieri rasi al suolo e la pancia piena di signori delle armi.

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Cosa è successo al Nord Stream e le scuse che mancano

Com’era prevedibile ha trovato poco spazio nei giornali, nei telegiornali e nel dibattito pubblico il fatto che il Washington Post abbia scritto un articolo che individua il nome e il cognome dell’ufficiale delle forze speciali di Kiev che attaccarono i gasdotti Nord Stream 1 e 2, che corrono dalla Russia alla Germania sotto il Mar Baltico. A coordinare la missione fu dunque Roman Chervinsky, 48 anni, un colonnello pluridecorato delle forze armate ucraine per le operazioni speciali sotto la guida diretta del generale Valery Zaluzhny, il comandante in capo delle forze armate di Kiev. In particolare, scrive il Washington Post, il militare ha gestito la logistica e il supporto ad un team di circa sei persone che, affittando una barca a vela e utilizzando attrezzature per sub, ha piazzato l’esplosivo sotto al gasdotto.

Che l’Ucraina in piena guerra utilizzi metodi di sabotaggio non sposta di una virgola le responsabilità di una guerra che è paludata e rischia di essere dimenticata dai ferventi bellicisti che l’hanno usata come clava. Quella notizia però dice molto dei giornalisti, degli intellettuali e dei politici nostrani che su Nord Stream hanno sparato cannonate su chi esponeva dei legali dubbi. Esattamente come per le bombe su Gaza i conflitti saliti all’onore delle cronache in questo ultimo anno (scordandosi tutti gli altri) ogni giorno smutandano schiere di bellicisti incarogniti che vengono regolarmente smentiti nelle loro affermazioni ma non rallentano nella loro foga.

Avremmo dovuto leggere decine di editoriali di scuse, invece loro perserverano nel collezionare le prossime figure barbine. 

Buon lunedì. 

Nella foto: frame di un video da Euronews dopo il sabotaggio al Nord Stream 2 del 26 settembre 2022

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Le mani della destra dappertutto

Sarà sicuramente un caso che l’azienda pubblica televisiva sia incagliata in pessimi risultati d’ascolto anche per il cambio di dirigenza e di volti esposti al pubblico che hanno la qualità di essere amici degli amici. Forse davvero Pino Insegno avrebbe meritato un’occasione al di là della sua amicizia con Giorgia Meloni, tale da portarlo a sorseggiare caffè in sua compagnia a Palazzo Chigi.

Il problema di Giorgia Meloni non è il fisiologico spoils system: sono i sostituti e i loro pessimi risultati. Se ne rende conto?

Sarà sicuramente un caso che in questa edizione di Miss Italia il presidente della giuria sia stato Vittorio Sgarbi, incidentalmente alfiere culturale di questa destra, insieme a Giuseppe Cruciani (fervido alfiere del sollazzo culturale destrorso) e insieme alla giornalista di evidente posizionamento destrorso Hoara Borselli. Sarà una coincidenza anche che a vincere sia stata la figlia di un senatore della Lega.

Sarà un caso che il figlio del presidente del Senato Ignazio Benito Maria La Russa sia stato individuato come fondamentale per la crescita culturale dello storico Teatro Piccolo di Milano, sarà anche un caso che con un emendamento il governo ha messo le mani sul Centro sperimentale di cinematografia di Roma. È sicuramente un caso anche che il giovane presidente della Fondazione Tatarella, Francesco Giubilei (biografo della premier) sia asceso alla posizione di intellettuale di riferimento di una certa area.

Sarà sicuramente un caso anche che quando Pietrangelo Buttafuoco è stato nominato presidente della Biennale di Venezia il vicecapogruppo vicario dei senatori di Fratelli d’Italia Raffaele Speranzon esultò dicendo “espugnato un feudo della sinistra”. Come diceva Andreotti “governare significa nominare” ma il problema di Giorgia Meloni non è il fisiologico spoils system: sono i sostituti e i loro pessimi risultati. Se ne rende conto?

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