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Ministri scavalcati e decreti fiume. Il premierato di fatto esiste già

Che il sogno della donna sola al comando – seppur chiamata con l’articolo al maschile – fosse un’ossessione di Giorgia Meloni era facilmente intuibile fin dal suo primo discorso in Parlamento, subito dopo la sua nomina a presidente del Consiglio. Perfino prima, nel bel mezzo delle trattative, quel suo “non sono ricattabile a differenza di altri” lanciato contro Silvio Berlusconi lasciava intendere che la leader di Fratelli d’Italia vedesse anche nei suoi alleati dei possibili nemici.

Dai migranti al Pnrr la premier Meloni ha commissariato l’esecutivo. E svilito il ruolo delle Camere

Nel libro di Bruno Vespa uscito in questi giorni la premier rincara la dose: “Margaret Thatcher – dice Meloni – si faceva portare soltanto i giornali che parlavano bene di lei. Io nemmeno quelli. Non leggo niente per non essere condizionata. Non ho padroni, non ho niente da restituire. Mi fido solo della mia coscienza e mi interessa solo il giudizio degli italiani”, riferendosi chiaramente ai suoi compagni di governo. Poi aggiunge di essere “schietta nel trasferire” le sue convinzioni: “Non abbasso la testa. Non ho complessi d’inferiorità”, risponde la presidente del Consiglio, incapace di abbandonare il vittimismo sfidante che in campagna elettorale le ha portato così tanta fortuna.

Per questo non stupisce che la promessa della campagna elettorale di “far eleggere il Presidente della Repubblica” si sia modellata nel corso di quest’anno di governo nella voglia di un premierato che aumenti i poteri del presidente del Consiglio. La riforma costituzionale per Meloni è un passo “verso la governabilità” perché riflette perfettamente la sua idea di governo: un esecutivo che scippa l’azione legislativa al Parlamento svilito in un votificio affermativo delle intenzioni e un presidente della Repubblica da estrarre dalla naftalina in occasione delle cerimonie. Per questo da Palazzo Chigi è iniziata la conta per valutare le possibilità di ottenere una maggioranza abbastanza ampia da evitare il referendum confermativo su cui si è già schiantato Matteo Renzi.

L’iter della riforma costituzionale per introdurre il premierato deve ancora partire. Ma la svolta autoritaria di Meloni dura da un anno

Ma il premierato di Giorgia Meloni nei fatti è già qui, ora. Anche in occasione del Memorandum d’intesa firmato con l’Albania Meloni non ha abbandonato la sua abitudine di informare i suoi ministri praticamente a giochi fatti. Ieri il ministro agli Esteri Antonio Tajani ha chiesto, piuttosto risentito, di poter vedere una bozza dell’accordo con il presidente albanese Edi Rama mentre dal Viminale il ministro all’Interno Matteo Piantedosi non ha potuto fare altro che prendere atto di un ulteriore commissariamento di Palazzo Chigi sul tema dell’immigrazione.

Nessuna voce in capitolo ha invece il leader della Lega Matteo Salvini che pur essendo ministro e vice presidente del Consiglio non può fare altro che mandare avanti i suoi a logorare la premier. Non è un caso che il suo vice Andrea Crippa parli di “un buon accordo” con Tirana ma puntualizzi che “non basta”: “Bisogna utilizzare il metodo Salvini”, dice il vice segretario federale della Lega. Il premierato di fatto di Giorgia Meloni è plasticamente riscontrabile anche nella bozza della legge di bilancio da cui sono scomparsi i punti fondamentali di Matteo Salvini (la riforma Fornero che la Lega avrebbe voluto abolire ne esce praticamente rinforzata) e le priorità di Forza Italia, tanto che Antonio Tajani aveva reagito stizzito leggendo la bozza.

Che la presidente del Consiglio abbia deciso che la prossima Manovra finanziaria non sia emendabile in Parlamento (invertendo perfino il Senato con la Camera per evitare polemiche) è perfettamente in linea con l’abuso di decreti legge che in questo anno hanno sostituito di fatto l’iniziativa parlamentare sui temi più scottanti. Insomma, il premierato è già qua, manca solo la legittimazione.

Leggi anche: Meloni si è completamente dimenticata della crescita. Il Fondo monetario internazionale boccia la manovra: “Mancano le riforme, il governo deve essere più ambizioso”

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Due bicchieri e al volante. Salvini pericolo costante

Ieri il ministro alle Infrastrutture e ai Trasporti Matteo Salvini, in attesa di completare i lavori del Ponte sullo Stretto che devono ancora cominciare, ha deciso di occuparsi di guida e alcol: “Nel nuovo codice della strada non tocchiamo il tasso alcolemico: qualche bicchiere di vino non solo non fa male, ma è assolutamente lecito per chi lo ritiene salutare”, ha detto il leader leghista intervenendo all’evento inaugurale di Eicma, l’esposizione internazionale delle due ruote, alla Fiera di Milano Rho.

L’annuncio di Salvini: “Nel nuovo codice della strada non tocchiamo il tasso alcolemico: qualche bicchiere di vino non solo non fa male”

Per la sua riconosciuta eleganza il ministro non ha voluto svelare di essere un grande amante delle bevande alcoliche come si evince dalle sue ormai celebri fotografie in diverse occasioni e da un suo paradigmatico tweet nella notte del 13 luglio 2013 in cui scriveva testualmente: “Gran serata coi Fratelli Leghisti. Ginepro, assenzio, limoncello e ora… sereni al volante con Vasco! Liberi liberi siamo Noi!!!”.

Per il ministro non conta l’ultimo report dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sull’impatto dell’alcol nel mondo attribuisce al consumo delle bevande alcoliche il decesso di 3 milioni di persone ogni anno, di cui 17mila in Italia per una media di 48 al giorno. Per Salvini l’importante è schiacciare il pedale sull’ipocrisia dell’alcol salutare con tesi antiscientifiche.

Come dice l’Oms “non esiste soglia di sicurezza nel consumo di bevande alcoliche, non c’è una dose che non presenti rischi per la nostra salute” e come dice l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro l’etanolo è sostanza sicuramente cancerogena. Chi vuole bere beva ma senza raccontare fregnacce. E soprattutto non faccia il moralista sulle abitudini degli altri.

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Rama rifila un pacco all’amica Meloni. I centri per i rimpatri non si possono fare in Albania

Al di là degli aspetti politici – condannabili fin dalla radice – il nuovo accordo con il premier albanese Edi Rama di cui è fiera la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è fragilissimo dal punto di vista giuridico. Le leggi, che piaccia o no, contano molto di più della propaganda. E saranno le leggi, ancora prima del fallimento della retorica, a far cadere il castello di bugie. Innanzitutto ci sono gli accordi dell’Unione europea.

L’accordo tra Italia e Albania per realizzare centri per migranti è fragilissimo dal punto di vista giuridico

L’altro ieri la presidente del Consiglio ha dichiarato alla stampa che il Memorandum d’intesa con l’Albania prevede la realizzazione in Albania di due centri per il rimpatrio, che dovrebbero ospitare ogni mese fino a 3000 persone definite “irregolari”, ma solo se soccorse nel Mediterraneo da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza. La presidente del Consiglio aveva anche dichiarato che l’Unione europea era stata informata dell’iniziativa. Le dichiarazioni di ieri della Commissione europea dicono tutt’altro: “Siamo stati informati dell’accordo Italia-Albania prima dell’annuncio”, ha spiegato la portavoce lasciando intendere che anche nelle istituzioni brussellesi si attende di conoscere i dettagli del documento.

Bruxelles ora vuole verificare se tra i punti dell’accordo non emergano violazioni degli Accordi di Dublino, dato che si tratta di un patto con uno Stato terzo, fuori dall’Unione. Dal testo circolato si apprende che i migranti che potranno essere trasferiti nei due centri pensati per l’accoglienza temporanea in Albania, in attesa della valutazione della loro domanda di protezione internazionale, sono solo quelli soccorsi in mare dalle navi delle autorità italiane.

Questo potrebbe far sì che l’Italia, pur assumendosi tutte le responsabilità della gestione di queste persone anche in territorio albanese, non risulti Paese di primo approdo e non sia quindi costretta a gestire tutto l’iter di valutazione dei singoli casi sul suolo nazionale. Come sottolinea l’avvocato esperto in diritti umani, Fulvio Vassallo Paleologo sul sito dell’Associazione diritti e frontiere (Adif) La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi, al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, che si asserisce sarebbero “sotto giurisdizione italiana”, potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegnò alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi soccorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici).

In quell’occasione la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea.

I giuristi sottolineano anche come i precedenti di applicazione extraterritoriali sono pessimi: “L’accordo tra Australia e Papua Nuova Guinea, che ha “affittato” alcune isole per far costruire strutture di trattenimento, e quello Uk-Ruanda sospeso dalla Corte d’appello britannica. – spiegava ieri Maurizio Veglio, l’avvocato esperto in protezione internazionale avvocato, che fa parte dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) – Questi esempi mostrano la peggiore ripartizione possibile di oneri tra un paese servente e uno dominante. Tornando all’accordo tra Meloni e Rama, è tutto da verificare cosa debba fare l’autorità albanese per garantire che un territorio di sua giurisdizione sia espropriato e soggetto a norme italiane e Ue nei cui confronti l’Albania non ha alcun vincolo”.

Ci sarebbe poi l’impossibilità di fare valere i diritti di difesa e le garanzie della libertà personale previsti dalla Costituzione italiana (a partire dal’art.13 che impone la tempestiva convalida da parte di un giudice di ogni misura di trattenimento amministrativo attuata sotto la giurisdizione italiana) e dalle norme sovranazionali dettate dalle Nazioni Unite a protezione dei richiedenti asilo, e dall’Unione Europea in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. Non solo: riconoscere l’Albania come “Paese sicuro” non autorizza respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione della libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

In ogni caso le attività degli assetti militari in mare, con riferimento al soccorso dei naufraghi ed al contrasto dell’immigrazione irregolare, non possono prescindere dagli obblighi imposti dal Regolamento europeo n.656 del 2014. Come ricorda Vassallo Paleologo “la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respingimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro Paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo”. Per le polemiche politiche invece basta la frase dello stesso premier albanese Rama che in un’intervista laconicamente dice “ce l’hanno chiesto ma non servirà a niente”.

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Maxi-multe alla stampa, Di Trapani: “Per i giornalisti è meglio la galera”

Un bavaglio sempre più stretto al diritto di cronaca. L’ultimo giro di vite arriva dal disegno di legge sulla diffamazione, che cancella il carcere ma introduce sanzioni fino a 50mila euro. E questo in un contesto già complicato dalle norme introdotte dalla riforma Cartabia che ha recepito la direttiva europea sulla presunzione di innocenza. La Federazione Nazionale Stampa Italiana non ci sta e parla senza mezzi termini di “bavaglio”.

Vittorio Di Trapani, presidente di Fnsi, c’è una reale compressione della libertà di stampa in Italia
“Ormai fare cronaca è diventato proibitivo. La Riforma Cartabia è stata un colpo molto duro. Con situazioni a macchia di leopardo poiché le procure hanno sensibilità diverse sul tema. In quella riforma c’è un grande errore di fondo: l’idea che cancellare il racconto anche nella fase di indagini sia un elemento di garantismo. È sbagliata. È interesse anche degli indagati che ci sia massima trasparenza sulle indagini. Non è vero che i garantisti devono essere contro il racconto o contro le intercettazioni. Più trasparenza c’è più riesci a garantire i diritti dell’indagato. Il primo pregiudizio che bisogna superare è l’idea che il garantismo stia solo da una parte. Non è vero. La verità è che si sta restringendo il diritto di cronaca con una serie di provvedimenti o di mancati provvedimenti”.

Però sulla presunzione di innocenza dicono di essersi allineati a una direttiva europea, la 2016/343…
“Fnsi ha presentato esposto alla Commissione europea perché la riforma italiana non rispetta la direttiva e aggiunge cose che non sono previste”.

Lo stesso discorso vale per il disegno di legge (ddl) presentato al Senato da Alberto Balboni (Fratelli d’Italia), presidente della Commissione Affari costituzionali? Anche in questo caso dicono “ce lo chiede l’Europa”…
“L’intervento che si sta tentando di fare sul ddl diffamazione non risolve i problemi per i quali l’Italia è indietro nelle classifiche sulla libertà di stampa e per cui la Commissione europea denuncia criticità. Nella relazione sullo stato di diritto la Commissione dice che il problema in Italia sono le querele bavaglio, la scarsa tutela delle fonti e del segreto professionale. Il ddl proposto da Balboni non risolve nessuno di questi temi ma semplicemente cancella il carcere. E quella non è una gentile concessione per improvvisa passione per l’articolo 21, è semplicemente l’attuazione di sentenze della Corte costituzionale e della Cedu. Quindi è un atto dovuto. Però nel frattempo aumentano le sanzioni a cifre insostenibili che di per sé diventano un deterrente alla scrittura, un bavaglio al diritto di cronaca. Quello che deve essere sempre molto chiaro è che il bavaglio non è ai giornalisti ma è il bavaglio messo al diritto del cittadino di essere informato”.

Addirittura
“È molto interessante la parola utilizzata in inglese: “slapp”, Strategic Lawsuit Against Public Participation. Slapp, ovvero ceffone: ed è un ceffone dato al diritti dei cittadini a essere informati. Poi, sciogliendo l’acronimo, si chiarisce che siamo di fronte a una strategia legale contro la partecipazione pubblica, contro l’interesse pubblico a sapere. Le querele bavaglio sono di fatto una via legale all’intimidazione. Quando prevedi come possibile sanzione a un giornalista ben 50mila euro molti colleghi precari mi dicono “quasi meglio il carcere”. E proprio qui c’è il pezzo relativo al “non fare”. Perché l’altro pezzo che manca per liberare il diritto di cronaca è intervenire sul precariato, intervenire su una giusta retribuzione, sull’equo compenso. Troppi giornalisti oggi sono sotto pagati. Ma su questo non si fa nulla. Come nulla si fa sulla tutela fonti. È evidente quindi che tutto questo limita l’articolo 21 della Costituzione”.

Quindi secondo voi il ddl non rispetta la reale volontà della Commissione europea
“Il ddl diffamazione così com’è ci allontana dall’Europa e dagli standard europei di libertà. Fnsi, insieme all’Ordine dei Giornalisti, ha predisposto alcuni emendamenti messi a disposizione di tutte le forze politiche, per chi vuole farli propri. Ma attenzione: il ddl Balboni è un testo radicalmente sbagliato che non risolve i problemi, anzi li aggrava. Quindi non basta qualche emendamento qua e là: quel testo è praticamente inemendabile. Per questo le modifiche che proponiamo sono un blocco unico”.

Ma il Paese si sta rendendo conto del rischio?
“Noi Fnsi e l’Ordine dei giornalisti ci stiamo muovendo compatti. Nel dibattito parlamentare vedremo come reagirà il Paese. E comunque, noi non ci fermeremo: senza una inversione di rotta – come annunciato dalla Segreteria generale Alessandra Costante – cominceremo una mobilitazione. Presto. Già a dicembre”.

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Sibilla Barbieri e la tortura di Stato

“Per anni Sibilla si è battuta per vivere, poi ha scelto l’aiuto del figlio Vittorio, accettando la sua richiesta di accompagnarla, con coraggio, anche rispetto alle conseguenze che potrebbero esserci per lui. Non è possibile interpretare in modo diverso la sentenza della Consulta: Sibilla era dipendente da trattamenti di sostegno vitale, quindi negarle quel diritto ad autodeterminarsi è stata una violenza di Stato”: sono le parole di Marco Cappato che ieri si è autodenunciato per l’assistenza al suicidio offerto a Sibilla Barbieri, paziente oncologica terminale costretta ad andare in Svizzera perché in Italia le era stato negato il diritto al suicidio assistito. Ad autodenunciarsi è stato anche il figlio di Sibilla Barbieri, Vittorio Parpaglioni, insieme a Marco Perduca dell’Associazione Coscioni. 

Durante la conferenza stampa hanno ricordato come Barbieri avesse i requisiti per l’aiuto medico alla morte volontaria previsti dalla sentenza Cappato – Antoniani (ovvero, che la persona sia capace di autodeterminarsi, sia affetta da patologia irreversibile, che tale malattia sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che la persona reputi intollerabili e che sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale). Proprio per questo hanno deciso di presentare due esposti contro l’Asl della regione Lazio, per chiedere di verificare se nei protocolli e nelle procedure possano ravvisarsi reati. “Per noi si configura anche il reato di tortura“, ha spiegato Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Coscioni.

Uno Stato che decide di non decidere, sulla pelle dei malati.

Buon mercoledì. 

Nella foto: Sibilla Barbieri, frame del video-appello dalla pagina fb Liberi fino alla fine

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Addio egemonia culturale. La destra travolta dai flop

Il nuovo corso della Rai targata Meloni che non ha nessun altro obiettivo se non quello di un vendicativo repulisti ora ci sta ripensando. L’ultima voce è il ritorno di Flavio Insinna (malvisto per la sua passione per i diritti umani) che starebbe per riprendere al timone de “L’eredità”, la trasmissione destinata inizialmente a Pino Insegno se non fosse per gli sconcertanti risultati raccolti fin qui.

Il nuovo corso della Rai targata Meloni che non ha nessun altro obiettivo se non quello di un vendicativo repulisti ora ci sta ripensando

La nuova “egemonia culturale” sognata dalla destra si sbriciola di fronte ai numeri. I vecchi protagonisti dell’azienda di Stato saranno stati anche politicamente antipatici ma hanno una qualità piuttosto indispensabile per lavorare in televisione: vengono guardati. Il punto è che per proporre un’alternativa bisognerebbe averne una traccia in tasca mentre la gestione Rai evidenzia (come in molti altri settori) l’unica volontà di demolire senza avere i materiali per ricostruire a loro immagine e somiglianza.

È la caratteristica di questa destra meloniana: funziona solo nella parte dell’oppressa sempre in guerra con nemici guidati da poteri oscuri, ma quando si ritrova a ottenere le redini non conosce altre maschere se non quella dell’opposizione “dura e pura”. Così in televisione come in Parlamento si assiste a una quotidiana litania lamentosa in cui l’unico appuntamento consiste nel ricordare quanto gli altri siano brutti, sporchi e cattivi.

Come ha detto qualche giorno fa lo scrittore Nicola Lagioia, “si fa un gran parlare di egemonia culturale, ma possiamo star tranquilli. Per quanto il ministro si possa adoperare non è per decreto che si può trasformare Giulio Base in un regista più importante di Marco Bellocchio o Marcello Veneziani in Carlo Ginzburg”.

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Giani commissario a tempi record nella Toscana di Renzi

La prima ordinanza del neo commissario delegato per l’emergenza in Toscana, il presidente della regione Eugenio Giani, è stata per “la sospensione del pagamento mutui per le imprese e per tutti i privati che documentano con l’autocertificazione lo stato delle cose”. “È un mio potere commissariale e vado avanti su questo”, ha spiegato il governatore del Partito democratico.

Il governatore Giani nominato commissario per l’emergenza in Toscana. Due pesi e due misure con l’Emilia-Romagna dove Meloni ha fatto fuori Bonaccini

Ieri a Prato è sbarcato anche il ministro agli Esteri, Antonio Tajani, che ci ha tenuto a incontrare le imprese colpite dalla tempesta Ciaran promettendo fondi già dal prossimo Consiglio dei ministri fissato per il 9 dicembre. Tajani ha precisato che farà il possibile perché “si possano accelerare i pagamenti. Se lavoriamo tutti quanti in fretta possiamo dare i primi fondi alla fine di questo mese. I riflettori li terremo accesi anche quando farete i conti del fatturato tra qualche mese per risarcire quanto mancherà. I fondi copriranno la parte non coperta dall’assicurazione”, ha concluso Tajani.

Il titolare della Farnesina ha predisposto d’intesa con Simest (la società del Gruppo Cdp che dal 1991 sostiene la crescita delle nostre imprese all’estero) uno stanziamento di 100 milioni di euro a fondo perduto per l’erogazione di ristori alle imprese esportatrici delle aree alluvionate volto a compensare le perdite materiali subite e finanziamenti agevolati per 200 milioni dal Fondo 394/8 finanziato dall’Unione europea tramite il Piano NextGenerationEu. I soldi che ci sono già per ora sono quelli delle banche. Intesa San Paolo ha annunciato un miliardo di euro a sostegno delle famiglie e delle imprese che hanno subito danni a seguito del grave evento calamitoso oltre a altre misure mentre Banco Bpm mette a disposizione un plafond da 50 milioni per “un immediato e concreto contributo per fronteggiare questa emergenza”. Ieri Enel ha lavorato tutto il giorno per ripristinare il servizio a 1.100 famiglie rimaste ancora senza elettricità.

Per l’alluvione in Emilia-Romagna il governo impiegò due mesi. E alla fine nominò il generale Figliuolo

La velocità con cui il governo si è mosso per la delega all’emergenza al presidente della Regione Toscana Giani però non può non stridere con il macchinoso incedere a cui abbiamo assistito in occasione delle alluvioni in Emilia Romagna. In quel caso il governo ha lasciato trascorrere due mesi prima di nominare il generale Francesco Paolo Figliuolo come commissario, lasciando ai margini il presidente emiliano Stefano Bonaccini, ora presidente del Partito democratico, al contrario dell’iter abituale in questi casi. L’abitudine di nominare il presidente di Regione (accaduta ben 55 volte dal 2012 a oggi) o a una dirigente della Pubblica amministrazione locale (già vista in 80 casi negli ultimi 11 anni) ad agosto di quest’anno era stata abbandonata dal governo per un’evidente scelta politica.

“Debbo confessare che mai come in questi due mesi ho visto confondere il piano istituzionale con quello di partito – disse Bonaccini in un’intervista a La Stampa lo scorso 29 giugno -. Glielo dice uno che da commissario alla ricostruzione post-sisma si è dovuto confrontare con sette governi differenti, di diverso colore politico”. In quel caso lo scontro politico si è trascinato fino ad oggi, con il presidente dell’Emilia-Romagna che ha lamentato in diverse occasioni un notevole ritardo nel pagamento dei ristori promessi da parte del governo. “La fretta è di chi vuole visibilità”, disse ad agosto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni rispondendo proprio a Bonaccini. Cosa è cambiato? Per ora le ipotesi sono almeno due. La prima, immediata, è che Stefano Bonaccini sia visto come un “avversario” politico più consistente rispetto a Giani.

La seconda, volendo essere cattivi, è che la Toscana – Giani o non Giani – rimane il covo elettorale di quel Matteo Renzi che a Meloni servirà moltissimo nei prossimi mesi in cui si apre ufficialmente la pesca nell’opposizione per trovare i voti in vista della riforma costituzionale sull’elezione diretta del presidente del Consiglio. È solo un sospetto, certo, ma come diceva Andreotti “a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso ci si indovina”.

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L’Albania come sacchetto dell’umido

Alla continua ricerca di un Paese disponibile a fare da “parcheggio” per un’umanità che sporca l’immagine e le propagande del suo governo, ieri Giorgia Meloni ha firmato un accordo con l’Albania per parcheggiare i migranti salvati dalle navi italiane nel Mediterraneo, che siano quelle della Marina o della Guardia di finanza. 

Al porto di Shengjin, l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un centro di prima accoglienza e screening. A Gjader, nel nord ovest dell’Albania, realizzerà una struttura modello Cpr per le successive procedure. Il protocollo è stato chiuso nel Ferragosto scorso, quando la premier Giorgia Meloni si era recata nel Paese delle Aquile.

Per avere un’idea dell’empietà dell’accordo basta scorgere alcuni indizi lasciati in giro nella giornata di ieri, ovviamente rivenduta come “trionfale” come accade ogni volta che questo governo prova – fallendo – a risolvere superficialmente un tema complesso.

Il premier albanese Edi Rama ha detto che non spetta a lui «giudicare il merito politico di decisioni prese in questo luogo» definendo «maledetta» la geografia per l’Italia. La geografia quindi è l’ennesimo potere forte contro il governo. La presidente del Consiglio per l’ennesima volta dimostra di avere così poca autorevolezza in Ue da dover comprare intese fuori dall’Unione, cianciando come sempre di “contrasto al traffico degli essere umani” che non ha niente a che vedere con la trasformazione dell’Albania in sacco dell’umido dell’Italia. 

Ma soprattutto il fatto che dall’intesa siano esclusi minori, donne in gravidanza e soggetti vulnerabili restituisce la cifra umanitaria del patto. 

Buon martedì. 

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Migrare sì, ma senza meta. L’assurda teoria di Valditara

Il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara nei giorni scorsi è intervenuto via social sull’immigrazione con una ficcante considerazione senza merito e senza istruzione. In un annoiato pomeriggio domenicale ha impugnato il suo telefono e ha scritto: “C’è qualcuno che ancora ignora la differenza fra il diritto di emigrare e il diritto di immigrare. Il primo è riconosciuto da tutte le carte internazionali. Era negato dai regimi comunisti. Il secondo non è accordato da alcuna carta internazionale, è rivendicato dagli ex comunisti. È la stessa differenza che esiste fra il diritto di uscire da casa propria e quello di entrare in casa altrui”.

Per Valditara il diritto a emigrare corrisponde al diritto di essere inghiottiti in un buco nero spazio-temporale che non occupi un solo metro quadrato in giro per il mondo

Al di là di una preoccupante fobia che porta a vedere comunisti dappertutto mentre escono dalle fottute pareti (questi sono gli stessi de “il fascismo è morto”, notate bene), il ministro per l’ennesima volta dimostra molta confusione mescolando il diritto internazionale alla politica. Prendendo alla lettera l’illuminata analisi di Valditara (che tra le altre cose sarebbe anche un giurista), un migrante qualsiasi dovrebbe avere il diritto di uscire dal proprio Paese (spesso da Paesi che non rilasciano passaporti tra l’altro) ma poi non potrebbe pretendere altro che stagnare in acque internazionali o caracollare sulle linee di confine.

Per Valditara il diritto a emigrare corrisponde semplicemente al diritto di essere inghiottiti in un buco nero spazio-temporale che non occupi un solo metro quadrato in giro per il mondo. Come dice giustamente la giurista Vitalba Azzolini, era meglio l’originale di Cochi e Renato: “E c’è sempre qualcuno che parte / Ma dove arriva se parte”.

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Che ridere. Meloni che vede misoginia

Mancano due giorni all’uscita del libro di Giorgia Meloni che per confezionare l’orpello elettorale natalizio ha trovato la fedele collaborazione del giornalista Bruno Vespa. Il titolo (Il rancore e la speranza) cela al lettore l’ingrediente principale del composto che si può facilmente ritrovare in ogni parole, azione e omissione della presidente del Consiglio: il vittimismo.

L’ultima opera di Meloni infatti raggiunge un livello superiore di vittimismo sfidando i record battuti finora invadendo stavolta il campo della misogina. Scrive Meloni: “Quando leggo pezzi di rassegna stampa con Matteo e con Antonio Tajani, restiamo basiti. Capisco che alcuni giornali vogliono mandarci a casa: legittimo, ci mancherebbe. Quello che non è accettabile ed è estraneo a qualunque deontologia è mettere tra virgolette cose mai dette né pensate. Sa qual è la verità? Sono degli inguaribili misogini. Tentano di accreditare la tesi che la testa di una donna non può reggere di fronte alla pressione. Come quei legislatori che, fino a qualche decennio fa, ritenevano che le donne non potessero fare il magistrato perché, quando hanno il ciclo, non ragionano bene”. 

La presidente del Consiglio al solito è ossessionata dal fatto che “legittimamente” (cara grazia) esista un’opposizione non disposta a incensarla di fronte alle sue mosse ma soprattutto utilizza la misoginia (elemento fondamentale della propaganda della sua maggioranza) come clava. Il governo che sogna le madri a casa a rassettare la cucina e sfornare figli denuncia la misoginia degli altri. Fantastico e prevedibile: è uno dei risultati scontati di confondere una leadership femminile con una leadership femminista. 

Buon lunedì. 

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