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La doppia morale di Matteo e Giorgia, vedono l’antisemitismo ovunque tranne che in casa loro

Che Matteo Salvini avrebbe usato l’antisemitismo come clava per poter accusare di antisemitismo tutti gli altri, qualcuno lo aveva previsto da tempo. Era gennaio del 2020 quando il leader della Lega per rispondere alle accuse di intolleranza religiosa che si intravedevano nella sua opposizione all’insediamento della cosiddetta Commissione Segre decise di lanciare una grande “campagna in difesa di Israele”. La senatrice Liliana Segre in quell’occasione declinò l’invito del leader della Lega al convegno tenuto in Senato cogliendo già tre anni fa il punto.

Era scritto

La senatrice a vita disse di apprezzare l’iniziativa ma anche di ritenere “che non si debba mai disgiungere la lotta all’antisemitismo dalla più generale ripulsa del razzismo e del pregiudizio che cataloga le persone in base alle origini, alle caratteristiche fisiche, sessuali, culturali o religiose. Questa visione mi pare tanto più necessaria in questa fase storica, in cui le condizioni di disagio sociale spingono tanti a indirizzare la propria rabbia verso un capro espiatorio, scambiando la diversità per minaccia”.

A quel convegno rifiutarono di partecipare Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, e Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica romana. Poi anche Salvini è riuscito a normalizzarsi. Accanto all’antisemitismo complottista e di antica data (che è infiltrato anche nel partito di Giorgia Meloni, poi ci arriviamo) c’è anche chi utilizza la questione ebraica – come Salvini e molti altri in questi giorni – per stemperare nell’amicizia con lo Stato ebraico ogni sospetto di razzismo e di criminalizzazione della diversità etnica e religiosa.

Così dispensando amicizia con lo Stato di Israele ci si può impunemente inventare un Piano Kalergi di sostituzione etnica per conquistare l’Occidente molto simile nei meccanismi all’architettura di odio che fu riversata contro gli ebrei. Così nel corso degli ultimi anni il governo di Netanyahu ha incassato l’amicizia e la solidarietà di pezzi della peggiore destra xenofoba del mondo accettando il ruolo di alibi. Contraria alla commissione Segre era un’altra novella sacerdotessa protettrice dell’antisemitismo, la presidente del Consiglio Meloni che parlò di “speculazione” di una certa “propaganda politica” quando si trattò di astenersi in Parlamento.

A novembre del 2019 l’attuale presidente del Consiglio si avventurò addirittura a teorizzare che la senatrice Segre avesse accettato di diventare uno “strumento di censura”. In un’intervista a Repubblica, Segre aveva commentato l’astensione del centrodestra con una battuta proprio su Meloni: “Ma come può venirle in mente? Mi ha telefonato l’altra sera: ‘Sa, ci siamo astenuti perché noi difendiamo la famiglia’. Le ho risposto: ‘Cara signora, io difendo così tanto la mia famiglia che sono stata sposata per sessant’anni con lo stesso uomo’. Qualcuno mi dovrà spiegare cosa c’entri tutto questo con la Commissione contro l’odio”.

Dalla Shoa alle Foibe

Sembra che nessuno in questi giorni ricordi la battaglia di Salvini e Meloni per equiparare con una legge la Shoah alle Foibe. Fratelli d’Italia presentò una proposta di modifica dell’articolo 604 bis del codice penale che punisce “la negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah” o “dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra”. Il capogruppo al Senato,Luca Ciriani e FdI volevano aggiungere, dopo Shoah, “e delle foibe”.

Quando il governo a gennaio di quest’anno ha nominato il prefetto Giuseppe Pecoraro nuovo Coordinatore nazionale per la lotta all’antisemitismo (per corroborare la strategia iniziata da Salvini tre anni fa) qualcuno gli suggerì di dare un’occhiata al sito dell’Osservatorio antisemitismo che riporta numerosi episodi di esponenti di Lega e Fratelli d’Italia come i meloniani che si fecero fotografare con il saluto fascista, oppure un neonazista candidato consigliere comunale a Latina a sostegno del candidato di Fratelli d’Italia e decine di storie di questa solfa.

Oppure basterebbe tornare alle elezioni europee del 2019 quando proprio Meloni, a proposito del finanziere ungherese George Soros, finanziatore di Emma Bonino, diceva: “Tenetevi i soldi degli usurai, la nostra forza è il popolo italiano”. Nella frase c’è la doppia infamia del filantropo che in quanto ebreo è automaticamente usuraio e in quanto ebreo è un ricco che complotta.

Heil Hitler

Vale la pena ricordare per l’ennesima volta il sottosegretario Galeazzo Bignami che nel 2005 veniva immortalato in una foto travestito da nazista con la svastica al braccio e con lui anche l’ex consigliera comunale a Milano per Fratelli d’Italia candidata anche in Regione Lombardia che l’inchiesta di Fanpage ha ripreso nelle sue frequentazioni con le frange più estreme del mondo della destra, tra saluti romani, gladiatori, “patriota tra i patrioti”, insieme al “barone nero” Roberto Jonghi Lavarini.

Nei messaggi di posato cordoglio di Meloni e Salvini nel Giorno della memoria non vengono mai citati esplicitamente i responsabili nazisti e fascisti. Sono passati solo due anni da quando Meloni e Salvini hanno candidato come sindaco di Roma Enrico Michetti che nel 2020 si chiedeva perché “si girano e si finanziano 40 film sulla Shoah e non su altro”. E si rispondeva così: “Forse perché non possedevano banche e non appartenevano a lobby capaci di decidere i destini del pianeta”. Questi sono i nuovi difensori degli ebrei.

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Vogliamo parlare di cosa Meloni ha detto nella telefonata-fake? – Lettera43

Un caso studio della distrazione come metodo di governo e del concorso esterno in associazione distratta della stampa negli ultimi giorni. Della telefonata di due comici russi alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni ormai sappiamo tutto. Il duo Vovan-Lexus riesce a farsi passare come presidente dell’Unione africana e parla con la premier per alcuni minuti. Nel contenuto di quella telefonata c’è un punto sostanziale: Meloni sulla guerra in Ucraina sostiene le stesse tesi (quella di una risoluzione del conflitto che non può passare dalla vittoria degli ucraini che faticano nella loro controffensiva) di molti opinionisti, analisti e giornalisti. C’è una differenza sostanziale: chi si è permesso di dire o scrivere che la controffensiva ucraina fosse molto al di sotto delle più pessimistiche aspettative e chi ha chiesto una mediazione è stato bollato come fiancheggiatore, come putiniano, come pacifinto, come nemico della democrazia, come nemico dello Stato e un’altra decina di epiteti non ripetibili. Dopo quella telefonata la presidente Meloni avrebbe dovuto spiegare come possa ritenere in privato “di buon senso” ciò che in pubblico viene bollato come collaborazionismo con il nemico.

Vogliamo parlare di cosa Meloni ha detto durante la telefonata-fake?
Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

LEGGI ANCHE: Cosa non ha funzionato nel buco di Palazzo Chigi sullo scherzo a Meloni

Le due Meloni: quella al telefono e quella pubblica

Cosa è accaduto dopo? Andiamo per ordine. Il sottosegretario Mantovano ha detto che «Giorgia Meloni si è accorta subito dello scherzo». In pratica secondo Mantovano le redini dello sketch comico le teneva la presidente del Consiglio. Nessun’altra considerazione sul contenuto della conversazione. Il vice presidente del Consiglio e segretario di Forza Italia, il ministro agli Esteri Antonio Tajani, ha parlato di «una superficialità da parte di chi ha organizzato la telefonata e questo non deve più accadere». Nessun’altra considerazione sul contenuto della conversazione. I più spericolati hanno addirittura avuto il coraggio di dirci che Giorgia Meloni ha mantenuto le stesse posizioni che tiene in pubblico: secondo loro una premier che si lamenta di essere lasciata sola dall’Europa sarebbe «colei che ha regalato all’Italia autorevolezza internazionale» e la presidente che diceva «non abbiate paura di scommettere sulla vittoria dell’Ucraina» è la stessa che al telefono dice c’è «molta stanchezza» del conflitto, la controffensiva di Kyiv «non sta andando bene» e serve «una via d’uscita».

Cosa non ha funzionato nel buco di Palazzo Chigi sullo scherzo a Meloni
Francesco Maria Talò (Imagoeconomica).

Le tesi della premier sono le stesse di coloro che il suo governo ha sempre bollato come pacifinti e filoputiniani

Poi, come spesso accade, il governo punta sul vittimismo. Decine di infuriati giornalisti raccontano che il duo russo è molto vicino a Putin, forse anche ai servizi segreti russi. Qualcuno scrive che la trappola telefonica rientrerebbe in una strategia di guerra a bassa intensità contro l’Europa e contro l’Italia. Osservazioni plausibile, certo, ma nessun’altra considerazione sul contenuto della conversazione. Così arriviamo a venerdì: Giorgia Meloni in conferenza stampa spiega che quella telefonata è stata «gestita con leggerezza che ha esposto la nazione». Ci si aspetterebbe una confessione o almeno un gesto di scuse verso coloro che da un anno sono stati lapidati. No, no. Per Meloni la leggerezza è di chi avrebbe dovuto verificare l’autenticità della telefonata e infatti annuncia le dimissioni del suo consigliere diplomatico Francesco Talò. Anzi Meloni spiega che «verso la fine della telefonata» ha anche «avuto un dubbio». «La telefonata», ha spiegato Meloni, «è stata rilanciata prima di tutto da programmi organici alla propaganda del Cremlino e questo dovrebbe indurre a riflettere chi sta facendo da megafono a questi comici che ieri in tv hanno detto di non avere legami con il Cremlino». Ma quella “stanchezza” per il conflitto in Ucraina? Qui arriva il colpo di genio. Meloni dice: «Non ho detto nulla di nuovo, io sono consapevole che le opinioni pubbliche, anche la nostra, soffrono per le conseguenze del conflitto. È un tema che ho segnalato a 360 gradi. Non sono un alieno per non capire che tra inflazione, prezzi delle materie prime…non ci siano conseguenze». È vero, non ha detto nulla di nuovo. Ha ripetuto ciò che qualche commentatore (a torto o a ragione, non è questo il punto) ha scritto venendo travolto dalla delegittimazione. Ha sostenuto la stessa tesi dei “pacifinti” che lei stessa e tutta la sua schiera hanno additato per mesi. Così per l’ennesima volta la comunicazione di crisi ha seguito l’itinerario dello sviamento ossessivo. Si è parlato di tutto tranne che del nocciolo della questione. E adesso basterà – come fanno spesso – dire «ma basta con questa storia, abbiamo già chiarito». Fino alla prossima distrazione.

LEGGI ANCHE: Meloni tra scherzi telefonici e fuorionda dovrebbe farsi qualche domanda sull’intelligence

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Mentre l’Italia sprofonda c’è chi pensa ai selfie. L’appello alla prudenza di Zaia smaschera l’ignoranza del nostro Paese

Nel pieno dei disagi e dei danni causati dalla devastazione climatica, ieri mattina il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, durante una conferenza stampa con la Protezione civile a Mestre dice una frase: “Faccio un appello ai cittadini – dice -: evitiamo l’hobby di andare a vedere la piena del fiume perché il rischio è che crolli la terra sotto di te, si rischia grosso, la nostra preoccupazione sono gli sfondamenti arginali, non andate per i campi a vedere i fiumi per fare video da pubblicare sui social perché è molto pericoloso”.

Lì dentro c’è la fotografia di un pezzo di Italia in questo momento. Sono gli ignoranti climatici che vivono il cambiamento climatico come un bouquet di eventi splendidamente instagrammabili di cui fare un video per sorprendere amici, parenti e follower.

Le mareggiate, le frane e le esondazioni sono episodi alieni da catturare per riempire il cassetto dei ricordi sensazionali, senza nessuna consapevolezza che ciò che avviene a pochi chilometri da casa e già anche in mezzo al salotto dei turisti climatici.

Beata ignoranza

Quello che molti chiamano “maltempo” non è un episodio. In Toscana non ci sono state “le più imponenti piogge degli ultimi 50 anni”, ma le prime imponenti piogge dei prossimi 50 che mettono a serio rischio la tenuta non della regione, non dell’Italia, non dell’Europa ma del Pianeta.

L’hanno ripetuto decine di volte quei giovani additati come sbruffoncelli che si permettevano di fare notare come il vero “disagio” non sia una strada bloccata o una statua sporcata: il vero “disagio” contro cui prendere misure urgenti è quello che sta sotto gli occhi di tutti in queste ore, sono i morti di questi giorni.

“L’hobby di andare a vedere la piena del fiume”, come lo chiama Zaia, è la realtà che ci aspetta. Da anni gli scienziati hanno avvisato, spesso invano, che sarebbe accaduto ciò che sta accadendo e che accadrà di nuovo, ogni volta più forte, ogni volta con fenomeni più ravvicinati. Noi siamo il Paese di quelli che, mentre il Titanic affonda, corriamo sulla prua per farci un selfie da inviare agli amici e ai paredxfnti soltanto per dire: “Guarda che onde, guarda che buio, guarda quanto è vicino il filo del mare”.

Lo stato di emergenza diventerà uno Stato in emergenza e noi penseremo a quanto siamo stati stupidi a prendercela con gli attivisti.

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È caduta una Mariastella Gelmini silurata da Italia Viva

“Non farò più parte della Commissione Affari Costituzionali – Senato. Non l’ho deciso io, ma Matteo Renzi e Enrico Borghi, che non hanno avuto neanche il coraggio di dirmelo. La decisione mi è stata comunicata, con non poco imbarazzo, da una funzionaria di IV. Complimenti per lo stile…”.

L’annuncio via social della senatrice e portavoce di Azione Mariastella Gelmini scatena l’ennesima ondata di polemiche tra le macerie del cosiddetto Terzo polo.

Con la consueta “serietà” lo scontro è tutto sui social network. Enrico Borghi, capogruppo al Senato, replica infatti a stretto giro alla Gelmini: “Cara Maria Stella, visto che ti sei abituata (in compagnia peraltro!) a disertare le riunioni del gruppo dove si affrontano le questioni, per portarle in pubblico, ti risponderò pubblicamente: ritengo che Dafne Musolino sia più capace e affidabile di te in Prima Commissione. Tocca al capogruppo decidere. E ha deciso, sapendo di esprimere il consenso maggioritario del gruppo. Tutto qui. Stai bene”.

Interviene Calenda: “Quando Borghi è entrato nel gruppo parlamentare, la frattura tra Azione e Italia Viva era già consumata. Da Statuto avremmo potuto mettere un veto sul suo ingresso. Non lo abbiamo fatto, ritenendo che avrebbe tenuto un comportamento professionale o almeno conforme alla normale educazione. Amen. Per fortuna tutto ciò è alle nostre spalle”.

A Calenda risponde la coordinatrice di Iv Raffaella Paita “Calenda, nei gruppi parlamentari democratici funziona così. Ma ci sono due cose su cui tu proprio non puoi dare lezioni. La prima è l’educazione. La seconda è come si fa politica”. E un’altra giornata di quelli “seri e competenti” scivola via così.

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Premierato, Pertici: “Una riforma indecifrabile. Che unisce i flop di Renzi e Berlusconi”

Andrea Pertici, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Pisa, che giudizio dà al premierato che ha in mente la presidente del Consiglio Giorgia Meloni?
“Anzitutto non si capisce bene cosa sia. Perché se fosse presidenzialismo si potrebbero muovere delle critiche almeno capendo di cosa si parla. Qui si va verso l’elezione diretta del premier, non so come lo chiameranno, che certamente è un modello inesistente sia nella teoria sia nella pratica. Non è il presidenzialismo sul modello statunitense e non è il modello di semi presidenzialismo francese”.

Quindi cos’è?
“Non si capisce cosa sia. Vogliono l’elezione diretta di un capo del governo mantenendo anche un presidente della Repubblica che si trasforma da organo di garanzia a organo quasi cerimoniale, poiché i poteri più significativi di intermediazione politica del presidente sono quelli di formazione del governo e di scioglimento delle camere e gli vengono sostanzialmente tolti”.

Ma quindi da dove viene questa idea di riforma
“Ci sono aspetti, come la norma ‘antiribaltone’ della proposta Berlusconi del 2006 che è già stata bocciata. Per alcuni versi questa riforma recupera alcuni aspetti della proposta del 2006 e alcuni aspetti del 2016. Entrambe bocciate dalla Corte costituzionale. Questo è un aspetto abbastanza singolare. Non si va molto oltre: il problema al quale si cerca di rispondere è sempre quello della cosiddetta instabilità di governo che in realtà non passa per le riforme costituzionali ma soprattutto per l’assetto dei partiti politici come configurato dalla legge elettorale”.

Non si rischia con questa riforma di avere governi cristallizzati indifferenti alla volatilità elettorale?
“Questo potrebbe essere un rischio se vediamo che il consenso dei partiti politici oggi è molto variabile. Basti pensare che la Lega nel 2019 aveva il 37% e alle politiche di 3 anni dopo ha preso meno del 9%. Stabilizzare eccessivamente un governo può essere un rischio rispetto al suo consenso popolare. Si torna quindi al problema dei partiti politici. Perché i partiti hanno questa variabilità? Perché non hanno un radicamento sufficientemente profondo. Forse le riforme alle quali si dovrebbe guardare sono quelle che riguardano un maggiore coinvolgimento degli elettori, per porre rimedio all’astensionismo che cresce”.

Che ne pensa della “norma anti-ribaltone” che prevede che in caso di caduta del premier, prima di tornare alle elezioni, si cercherà un altro premier ma restando all’interno della maggioranza e del programma votato dai cittadini e senza la possibilità di esecutivi tecnici?
“Molto singolare. Se deve portare avanti lo stesso programma, o il presidente viene meno per motivi strettamente personali oppure diventa una questione di antipatia personale, se il programma è lo stesso e lui lo deve portare avanti nello stesso modo. Non si capisce il cambio della singola persona. La seconda, peraltro, non sarebbe scelta dagli elettori. Diventa un’ombra della prima. Ma parlando di questo stiamo facendo l’errore di accettare l’impostazione generale della riforma che invece è inaccettabile”.

Qualcuno già dice “ecco i costituzionalisti che non vorrebbero mai toccare la Costituzione”…
“Innanzitutto, i costituzionalisti sono una categoria di scienziati, difficilmente sono raggruppabili tutti insieme. Ognuno sulla base delle proprie riflessioni arriverà a determinate conclusioni. I costituzionalisti non devono descrivere ma devono riflettere sulle soluzioni offerte e eventualmente proporre. In generale ci sono stati costituzionalisti favorevoli ad alcune riforme e contrari ad altre. La divisione tra conservatori e progressisti ogni tanto mente: ci possono essere riforme di stampo conservatore. In molti periodi ci sono state riforme che non andavano nel senso di valorizzare i valori progressisti. La distinzione funziona andando a vedere il merito: conservare una Costituzione progressista non è conservatore nel senso politico del termine. Ugualmente, i riformisti, in senso proprio, non sono quelli che vogliono le riforme ma sono quelli che vogliono un progresso, con riforme graduali, e non con la rivoluzione”.

Intanto il governo ha posto la fiducia sulla legge di Bilancio…
“Non si può dare la colpa solo a questo governo. Da tempo il ruolo del Parlamento è stato marginalizzato. Nelle ultime legislature è emerso in pieno, lo si deve all’abuso dei decreti legge su cui bisognerebbe intervenire a livello costituzionale ma non solo. D’altronde la democrazia dovrebbe avere una tempistica, richiede tempo organizzato bene, lavorando duramente e a lungo e con impegno. Trovo singolare che ci siano dei capigruppo che si appellano al proprio gruppo per non fare emendamenti. Ciascuno dovrebbe avere il suo ruolo: il capogruppo dovrebbe valorizzare il ruolo del gruppo. Sulla legge di Bilancio ormai è un classico: già nel 2018 i parlamentari di opposizione sollevarono il conflitto di attribuzione lamentando un non sufficiente coinvolgimento del Parlamento. Poi le maggioranze son cambiate, dal 2018 a oggi le abbiamo avute tutte, hanno governato tutti e sinceramente tutti hanno cercato di costringere il dibattito parlamentare sulla legge di Bilancio. Non è una novità. Anche in questo senso manca il ruolo dei partiti, lo spessore dei parlamentari, l’impegno dell’attività parlamentare: questi sono gli aspetti che possono cambiare le cose”.

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Più “posto fisso” che premierato

Oggi in Consiglio dei ministri arriva il premierato che vuole la presidente del Consiglio Giorgia Meloni insieme ai suoi alleati. Lo chiamano “premieratino” perché non è un presidenzialismo e non è un semi presidenzialismo. Così la riforma nasce con il nomignolo diminutivo che ne certifica la portata e le aspirazioni.

L’aspirazione – una, solo una – è semplicemente l’auto preservazione, come sempre. Si vorrebbe vincolare il voto degli elettori sulla scheda elettorale ancora meno al programma della coalizione, ancora meno a una reale alleanza politica e sempre di più al marketing di un nome: il “nome forte”, il sogno di tutti i politici che vivono la sensazione della cresta dell’onda. Il testo vuole inserire in Costituzione anche la formula per l’elezione di candidati e liste di partiti, assicurando un premio di maggioranza del 55 per cento dei seggi alla coalizione vincente.

Il “nome forte” non corre più il rischio di vedersi revocato qualche ministro del suo governo dal presidente della Repubblica, il “nome forte” si garantisce di fatto cinque anni di governo e il “nome forte” pensa con questa riforma di non correre più il rischio di essere travolto da un rimpasto di governo, ancor di più da un governo tecnico.

Il mito della “governabilità” ottenuta da grimaldelli costituzionali e non dal radicamento dei partiti, dall’autorevolezza degli eletti e dal faticoso lavoro di mediazione che richiede governare è un ulteriore colpo al Parlamento (nella sua funzione di “cuore” di un governo) e degli elettori che sarebbero chiamati a esprimere un governo indifferente alla volatilità del consenso. 

La potrebbe chiamare la riforma del “posto fisso”, per il premier, nell’epoca precarietà per tutti gli altri. 

Buon venerdì. 

Nella foto: la presidente del Consiglio Meloni al Senato, 25 ottobre 2023 (governo.it)

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Travestito da pacifista per un pugno di voti. Ecco la piazza di Salvini

Tra le macerie delle guerre che stanno infiammando l’Europa con l’Ucraina e il Medio Oriente nel conflitto tra Israele e Palestina ci ritroveremo anche lo stupro della parola pace. Fin dall’inizio del conflitto ucraino con l’invasione russa una nutrita schiera di fomentatori della guerra e di abietti editorialisti ha giocato sporco trasformando la richiesta di pace in collaborazionismo con il nemico. Javier Cercas scriveva che “le guerre si combattono per il potere e il denaro, ma vengono coinvolti i giovani che nelle guerre uccidono e perdono la loro vita, i quali ci entrano per le parole, la poesia e la retorica, che li seducono e li preparano al punto di rischiare la propria vita verso la morte”. La propaganda di guerra rimane uno dei più importanti mezzi militaristici.

Il leader della Lega Matteo Salvini trova come lucrare aizzando le folle contro i veri nemici del conflitto

Il suo compito è quello di costruire nelle persone, attraverso la creazione di una identità collettiva e il patriottismo, la fiducia nella leadership e nelle sue decisioni mentre denigra l’avversario e sconfiggere gli sforzi propagandistici degli avversari. Con l’introduzione dei giornali e di altri mezzi di comunicazione di massa, la propaganda di guerra è diventata una parte fondamentale di ogni grande sistema militare e oggi è sempre più accettato il concetto che “la guerra non si fa sempre con le armi ma anche attraverso la scrittura, ovvero i media”.

Valgono quindi i dieci comandamenti già descritti dalla storica belga Anne Morelli: 1. Noi non vogliamo la guerra, è l’affermazione di ogni capo di Stato prima di dichiarala: Von Ribbentrop prima che la Germania invadesse la Polonia dichiarava: “Il Führer non vuole la guerra. Si risolverà a farla a malincuore”. 2. L’avversario è l’unico responsabile dell’intero conflitto. 3. Il capo della parte avversa ha il volto del diavolo. 4. Noi difendiamo una nobile causa, non degli interessi particolari. 5. Il nemico commette consapevolmente atrocità, mentre se noi commettiamo degli “errori” è assolutamente involontario 6. Il nemico usa delle armi non autorizzate. 7. Noi subiamo pochissime perdite, invece quelle del nemico sono enormi. 8. Gli artisti e intellettuali sostengono la nostra causa. 9. La nostra causa ha un carattere sacro. 10. Coloro che mettono in dubbio la nostra propaganda sono traditori. E chi mette in dubbio la propaganda I pacifisti, da sempre, semplicemente perché l’hanno studiata e la conoscono.

Non c’è più limite alla propaganda. Così si stupra la parola Pace

Ecco quindi che con ogni guerra inizia la guerra ai pacifisti, anche quando pronunciano le stesse parole del Papa, del portavoce dell’Onu o quelle di Giorgia Meloni quando è convinta di essere in una conversazione privata. I pacifisti sono amici di Putin, sono sostenitori di Hamas. Se decidono di non partecipare al LuccaComics sono dei “disertori”, se decidono di scendere in piazza sono dei “provocatori”.

Travestito da pacifista per un pugno di voti. Ecco la piazza del leader della Lega. Non c’è più limite alla propaganda. Così si stupra la parola Pace

Nell’idiozia della propaganda i pacifisti sembrano il problema principale, mentre quegli altri muoiono sotto le bombe. Così nella confusione generale il ministro e leader della Lega Matteo Salvini può addirittura affermare di voler manifestare “per la pace”, scendendo in piazza. “Manifestare per la pace, per i diritti, per la libertà, per il rispetto delle donne è sempre giusto”, ha detto ieri Salvini riuscendosi a smentire nella frase successiva: “Quando vediamo in mezza Italia, in mezza Europa, manifestazioni islamiche, inneggianti ad Hamas, scontri con la polizia, musei chiusi, chiese e sinagoghe oggetto di attacchi, non possiamo stare fermi”.

Salvini che organizza una manifestazione per la pace specificando che “ci sono tanti islamici che non sono fanatici, terroristi e che non hanno la guerra nel sangue e che saranno benvenuti in piazza” è solo l’ultimo evento di una serie ributtante di strumentalizzazioni. E chissà che qualcuno non gli suggerisca di studiare Aldo Capitini, Danilo Dolci, Alex Langer e tutti gli altri. Ci vorrebbe credibilità e studio per pronunciare la parola “pace”: caratteristiche assenti in gran parte degli anti-pacifisti nostrani. Talvolta, come nel caso di Salvini, addirittura travestiti da pacifisti.

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Berlusconi nel Famedio. Tra gli applausi di Dell’Utri

Da ieri il nome di Silvio Berlusconi campeggia al fianco di Giuseppe Mazzini, Camillo Benso di Cavour, Gino Strada e Dario Fo, tutti scritti al Famedio di Milano come cittadini illustri. Poco distante c’è anche il nome del procuratore Francesco Saverio Borrelli che ha indagato Berlusconi, il che ci potrebbe indurre a pensare che da vivi uno dei due mentisse.

Da ieri il nome di Silvio Berlusconi campeggia al fianco di Mazzini, Cavour, Strada e Fo, tutti scritti al Famedio di Milano come cittadini illustri

La figlia dell’ex procuratore di Milano, Federica Borrelli ha provato a farlo notare: “Berlusconi è un personaggio che ha creato imbarazzi a un intero Paese, e questa iscrizione crea ulteriore imbarazzo”, ha dichiarato. D’accordo con lei ci sono le almeno 40mila persone che hanno firmato una petizione per chiedere al Comune di Milano di ripensarci. Niente da fare. Così ieri sotto una pioggia battente la presidente del Consiglio comunale, Elena Buscemi, non ha potuto evitare di ricordare quanto la figura di Berlusconi sia stata “apprezzata ma anche criticata“, come scritto nelle motivazioni della commissione del Comune che letteralmente parla di meriti “tanto apprezzati quanto criticati”.

Sapete chi si è risentito della virgola che ha rovinato l’incenso di un ex presidente del Consiglio condannato per frode fiscale e salvato da decine di processi grazie alle sue stesse leggi? Niente di meno che Marcello Dell’Utri, condannato per reati di mafia e presente in prima fila ieri perché gli amici degli amici devono essere visibili. “Che cosa significa che Berlusconi è stato criticato, anche Cavour è stato criticato, anche Mazzini, anche Manzoni, che senso ha”, ha sbottato l’ex senatore che per la giustizia italiana è stato “l’anello di congiunzione tra i boss mafiosi e Berlusconi”.

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FIGC: una partitella in famiglia

Nella Federazione Italiana Gioco Calcio (Figc) da poco lavora Filippo Tajani, non omonimo ma figlio del ministro agli Esteri Antonio, vice presidente del Consiglio nonché capo nel partito Forza Italia. Come racconta Lorenzo Vendemiale su il Fatto Quotidiano oggi in edicola il giovane Tajani lavorerà nel dipartimento che si occupa degli Europei 2032, con un contratto (per ora) fino al prossimo aprile.

Nelle Figc lavora anche Marta Giorgetti che non è un’omonima ma è la figlia del ministro Giancarlo, ministro all’Economia dello stesso governo di Antonio Tajani nonché uomo di punta della Lega con Matteo Salvini. Si occupa dell’organizzazione delle partite della nazionale allo stadio e dopo avere completato uno stage un anno e mezzo fa è stata continuamente confermata nel suo ruolo. Nella Figc, lo scrive il Fatto, ha lavorato anche un parente dell’ex ministro Vincenzo Spadafora (M5S) quando il partito aveva un peso politico maggiore essendo in maggioranza. 

Forse è davvero una coincidenza che il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina abbia pescato talenti inaspettati nelle parentele strette dei ministri dei governi che si sono succeduti. O forse ancora non è passato quel tempo in cui le classi dirigenti di questo benedetto Paese sono convinte di non dover mai rispondere ai principi di opportunità che sviliscono e disperano un giovane qualsiasi che provi a entrare nel mondo del lavoro. 

Nell’anno 2023 continua tranquillamente a succedere qui in Italia che il “chi ti manda” sia una caratteristica fondamentale per accedere a determinate posizioni lavorative. E quelli – notate bene – sono gli stessi che si accaniscono contro i giovani svogliati.

Buon giovedì. 

Di il direttore, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=57316792

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Giorgia e i comici russi. Chi è l’impostore?

Dunque ieri abbiamo saputo che la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni lo scorso 18 settembre ha parlato al telefono convinta di farlo col presidente della Commissione dell’Unione Africana, mentre invece dall’altra parte del filo c’erano due comici russi (indicati come vicini a Putin) che le hanno fatto dire in privato ciò che smentisce in pubblico.

La premier Meloni esprime le stesse opinioni di chi dalle nostre parti viene bollato come un fiancheggiatore di Putin

Meloni al telefono sulla guerra in Ucraina conferma che “la controffensiva di Kiev non sta andando come ci si aspettava” e che la soluzione “è trovare una via d’uscita accettabile per entrambe le parti senza distruggere la legge internazionale”. Esprime quindi le stesse opinioni di chi dalle nostre parti viene bollato come un fiancheggiatore di Putin. Aggiunge anche che “tutti capiscono che potrebbe durare molti anni se non cerchiamo di trovare una soluzione”. Solo che quei “tutti” che lo capiscono nel dibattito pubblico vengono regolarmente bollati come cretini e menagrami, soprattutto dalla parte politica della premier.

La registrazione della conversazione è stata postata sulla piattaforma online canadese Rumble e ripresa dall’agenzia russa Ria Novosti. A confermare che quella trasmessa era proprio la voce di Meloni è stato Palazzo Chigi con una nota in cui definisce “impostori” gli autori dello scherzo.

Ma se l’impostura è un vistoso apparato di menzogne e di falsità viene difficile non ritrovarla anche nelle parole in libertà della capa del governo. I veri impostori sono coloro (e sono tantissimi) che da mesi confondono le opinioni con la propaganda, svilendo il proprio ruolo di giornalisti, analisti e ammennicoli vari, in promotori del conflitto.
Chissà se stamattina qualche valente collega accuserà Meloni di essere filoputinana.

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