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Dall'Ortomercato al Corvetto, svelata in aula la nuova alleanza tra 'ndrangheta e Cosa nostra. Cooperative, false fatture e fondi neri

Ne ha parlato l’imprenditore Mariano Veneruso, accusato di aver favorito la cosca Morabito, Venersuo ha ammesso la sua conoscenza con  Giuseppe Porto, un palermitano molto vicino al latitante Gianni Nicchi

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Il personaggio

Mariano Veneruso è nato a Napoli nel 1959. A Milano arriva a metà degli anni Settanta. Inizia subito a lavorare nel settore della logisica e del facchinaggio. Prima come impiegato di grandi aziende, poi in proprio. Nel 1997 fonda la Time service. L’impresa dura lo spazio di due anni poi fallisce. Veneruso ci riprova con altre due cooperative

Poi, attorno al 2003 fa il salto di qualità. Conosce Antonio Paolo e nel 2006 rileva quasi tutti gli interessi del Nuoco Coseli, il consorzio di Paolo. Veneruso, che risulta incensurato, fonda il Consorzio Europa di cui fanno parte la New Gest di Cardile, la New Coop di La Penna e la Padana servizi. Nello stesso consorzio lavora anche Salvatore Morabito

Prima dell’inchiesta Ortomercato, Veneruso viene coinvolto nell’indagine Ciramella condotta dalla Dda di Reggio Calabria

Milano, 26 novembre 2009 – Un benzinaio in piazzale Corvetto. Sembra questo lo snodo principale attraverso il quale passano gli affari di ‘ndrangheta e Cosa nostra. Il sodalizio affaristico è emerso durante l’ultima udienza del processo Ortomercato. A dare corpo a questo inedito legame, le parole dell’imprenditore Mariano Veneruso, alla sbarra con l’accusa di aver dato supporto finanziario e logistico alla ‘ndrangheta. Incalzato dalle domande del pm Laura Barbaini, Veneruso, classe ’59, origini napoletane, ma residenza in via Ravenna proprio al Corvetto, è subito entrato nei particolari. “Si tratta del benzinaio Esso – ha detto – qui, noi andavamo perché il titolare è un amico e la benzina la pagavamo poco”.

Ma c’è dell’altro. Perché qui Venersuo ci è andato spesso anche con Gianni Falzea, giovane calabrese di Africo imparentato con Rosario Bruzzaniti, capocosca assieme a quel Giuseppe Morabito, detto u tiradrittu, arrestato nel 2004 dopo anni di latitanza. Dunque, a quegli incontri c’era Veneruso, Falzea e anche Salvatore Morabito, giovane boss calabrese. “Morabito – ha detto Veneruso – non veniva mai in macchina. All’epoca lui non aveva la patente e così veniva in zona con la metropolitana, dopodiché qualcuno di noi andava a prenderlo”. Poi ecco il particolare che non ti aspetti. Sì, perché assieme a quei calabresi, gli uomini della Squadra mobile filmano e fotografano anche il siciliano Giuseppe Porto. Circostanza confermata dallo stesso Veneruso in aula.

Per capire meglio, ecco cosa scrive la Squadra mobile a proposito di quel palermitano dai grossi baffi e dagli occhi a mandorla. “Porto Giueseppe è vicino alla famiglia mafiosa palermitana di Pagliarelli, segnatamente a Gianni Nicchi, latitante e strettamente legato al capo dell’omonimo mandamento mafioso di Antonino Rotolo”. Lo stesso Porto a metà anni Novanta viene coinvolto in un’inchiesta di mafia nella quale emerge, tra le altre cose, un enorme giro di fatture false, giocato su un castello societario, al cui vertice c’erano due imprenditori messinesi. Sotto di loro, proprio Pino Porto, titolare di diverse cooperative e, particolare non di poco conto, molto legato agli eredi di Vittorio Mangano che proprio al Corvetto avrebbero le loro attività legali. La zona ha, dunque, una forte presenza di Cosa nostra. Particolare confermato dall’ultima inchiesta del pm Ilda Boccassini. E ribadito dal fatto che qui Pino Porto, alias il cinese, è di casa da sempre.

Dopodiché da quel benzinaio di piazzale Corvetto al bar Golden di corso Lodi ci passano poche centinaia di metri. Ai suoi tavolini, il primo marzo 2003, si incontrano Veneruso, una tale Mario La Penna, altro imprenditore nel campo della logistica, lo stesso Pino Porto e un altro imprenditore calabrese, tale Alberto Chillà, non coinvolto nel processo Ortomercato, ma “storico socio di Pino Porto”, almendo stando alle dichiarazioni di Veneruso. Non solo: “Chillà era amico di Morabito e fu lui a presentarmelo, proprio nel 2003”. Chillà, dunque, viene descritto come l’anello di congiunzione tra Morabito e Porto. Quello stesso Porto che, ha rivelato il pm, “andò ad Africo con la moglie per trovare Morabito”. L’ombra di una joint venture tra Cosa nostra e ‘ndrangheta si fa sempre più pesante, quando in aula si torna  a parlare delle centinaia di cooperative che ruotavano attorno ad Antonio Paolo. Tra queste c’era la New Gest di Carmelo Cardile, parente, guarda caso, di Chillà. La New Gest, aperta nel 2004 proprio da Veneruso che nel 2007 la passa proprio a Cardile. La società fin da subito risulta inattiva, però in poco meno di tre mesi monetizza quasi un mlione di euro. Denaro del tutto ingiustificato vista l’inoperosità della impresa. La New Coop, invece amministrata da La Penna, ha i suoi uffici in via Scalarini, a due passi da piazza Bonomelli, guarda caso proprio al Corvetto. (dm)

DA http://www.milanomafia.com/home/veneruso

Zappaterra e Cavalli premiati dal comune con la foglia d’oro

Nomi che evocano dedizione, impegno e coraggio. Giulio Cavalli, l’attore sotto scorta per la lotta al racket culturale della mafia, e Franco Zappaterra, scomparso nel 2003, una vita dedicata al prossimo, sono i benemeriti del 2009 di Tavazzano con Villavesco. La cerimonia per la consegna della “foglia d’oro”, la benemerenza civica che riproduce una foglia di ontano nero, tipica pianta della campagna lodigiana, è in programma per questa mattina in aula consiliare a partire dalle 10.15. Il riconoscimento in memoria di Franco Zappaterra arriva sulla scorta del suo impegno durato una vita per gli ammalati e i poveri sia in Italia che nel terzo mondo. Dopo il primo viaggio in Uganda in cui scopre la miseria, Zappaterra fonda, con l’aiuto di don Mariangelo Fontanella, il gruppo missionario: un esercito di volenterosi che mettono a disposizione dei più poveri le loro abilità professionali. Ci sono idraulici, muratori, falegnami uniti per raccogliere materiale e arredare le case dei più poveri. Sono datate 1989 e 1990 le due significative missioni a Daloà in Costa D’Avorio, dove per mesi interi questo gruppo di volontari lavora alla costruzione delle missioni cristiane affidate alle cure di due sacerdoti lodigiani: don Gianfranco Pizzamiglio e don Maurizio Bizzoni. Solo uno degli esempi della dedizione di Franco Zappaterra. Anche per Giulio Cavalli, direttore artistico del teatro Nebiolo, la “foglia d’oro” va a premiare il suo impegno. Dopo l’incontro con il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, all’attore arriva dunque pure il riconoscimento ufficiale dell’amministrazione comunale del paese in cui è cresciuto e in cui ha mosso i primi passi prima di tornare da direttore artistico del teatro. Un teatro quello di Cavalli, stravolto dall’impegno civile, e diventato una scelta di vita considerata scomoda dalla criminalità organizzata. La benemerenza andrà all’uomo e all’artista, «che ha scelto di comunicare con i suoi monologhi una realtà criminosa presente nella nostra società – dicono dagli uffici comunali – dimostrando come sia possibile coniugare spettacolo e impegno sociale».

DA IL CITTADINO L’ARTICOLO QUI

La vendita dei beni confiscati e l'etica in insalata

Calpestare il senso più profondo della legge 109/96 è una vigliaccheria che piuttosto che finire con tante scuse nel lavandino in un momento di impunità (anche culturale) si è presa la briga di diventare legge.

Il riuso sociale dei beni confiscati alle mafie non è un particolare attuativo di un codicillo per collezionisti; quanto piuttosto il profumo fresco di una rapina a cuore armato compiuta ai danni del rapinatore. Se ci fosse la follia di pesare la bellezza in cui galleggiano le leggi, il riuso sociale delle porcilaie mafiose trasformate in castelli dagli stracci dei “guardiani del faro” che spolverano la vergogna sarebbe un fiore da tenere tra i capelli.

Monetizzare la bellezza è un rutto da papponi che mandano sul marciapiede la dignità di una nazione; è “mettere nel conto” il lavoro della magistratura e delle forze dell’ordine e riportare lo scontrino ai boss, coperto e pane incluso; è sedersi sulla tomba di Pio La Torre e bisbigliargli all’orecchio che è stato tutto uno scherzo; è ridurre la cura amorevole e dolorosa di un padre adottivo alle coordinate per un bonifico; è lasciare, ancora una volta, una legge di bellezza a marcire fuori dal frigo.

Ci dovrebbero raccontare perché, in un paese in cui la moralità si conta in biglietti da 100, i beni confiscati non dovrebbero rifinire nelle mani delle mafie. Ci dovrebbero spiegare quando si è deciso che l’etica dei modi e e dei mezzi sia stata abolita senza che ce ne siamo accorti.

Le mafie nella propria pochezza culturale sono sempre state le regine obese al ballo dei simboli e dei segnali; il maxi emendamento presentato dal governo alla Legge Finanziaria che l’Aula del Senato ha approvato a maggioranza il provvedimento che introduce la possibilità di vendere i beni confiscati alla criminalità mafiosa (Emendamento 2.3000, relatore Maurizio Saia, PDL) e che stabilisce che se trascorsi i 90 giorni che devono intercorrere tra la data della confisca e quella dell’assegnazione – previsti dalla legge 575/65 – i beni non sono stati assegnati, essi possono essere venduti è una polka di riapertura verso la criminalità.

Per apparecchiare una tavolata con meno prodotti di LIBERA TERRA, ma per secondo un bel piatto di etica in insalata.

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Antica Focacceria a Milano: 2 anni serviti d’antipasto

focacceriaOggi in una giornata di serpentine nel traffico come una luce al neon nella foschia di Milano mi sono fermato dall’amico Vincenzo Conticello alla Antica Focacceria San Francesco di via San Paolo 15. Mentre ritrovavo quel suo sorriso mai domo mi è gocciolato il brivido della Focacceria sorella maggiore giù a Palermo e ho respirato la mia Sicilia insieme a Beppe, Carmelo, Francesca e Saro.

Come se mi avessero apparecchiato a lume di candela la mia Palermo prima che iniziasse questo mio biennio a forma d’imbuto.

Non avrei mai pensato di sentirmi adottato a Milano.

Antica Focacceria San Francesco

Teatro civile al Nebiolo: un viaggio negli inferi per capire la ’ndrangheta

Alla domanda più difficile («Cos’è la ’ndrangheta?») risponde che «mi sono serviti 80 minuti per tentare una spiegazione», nel documentario firmato con Enrico Fierro La Santa. Viaggio nella ’ndrangheta sconosciuta. Ma sul palco del Nebiolo sabato sera, per il primo degli incontri del Centro di documentazione per il teatro civile, Ruben H. Oliva, pungolato dagli interventi di Giulio Cavalli, fa un tentativo e traccia il ritratto di «un mondo che è capitalismo dentro il capitalismo, in cui la ’ndrangheta è un prestatore di servizi per i cartelli messicani del traffico di cocaina con un fatturato da 50 miliardi di euro». La metastasi di un cancro senza più centro ormai, con filiali in tutti i continenti, tanto che «sarebbero le ’ndrine sparse in tutto il mondo a continuare gli affari, se per assurdo si riuscisse a cancellare il fenomeno in Italia». Un’ipotesi remota, anche perché quel «club di potenti» che conta più di 5 milioni di affiliati nel mondo si affida al legame più difficile da tradire, quello di sangue. Rinunciare alla “Santa”, significa perdere tutto, anche la famiglia. E se il pentitismo dunque non è un problema per questa mafia, che è diventata la più forte e la più agguerrita militarmente, «c’è anche da dire – sottolinea ancora il giornalista di Diario, tra i fondatori di Radio Popolare, firma prima del Giorno, per poi arrivare al Secolo XIX e a Repubblica — che il sistema ’ndrangheta è, al tempo stesso, atavico e tecnologicamente avanzato». Nei rifugi dell’Aspromonte, tra le vecchie case di San Luca, luogo da cui tutto nasce e ancora annuale sede di incontro per la cupola calabrese, gli uomini di ’ndrangheta si muovono indisturbati. Usano videoconferenze, Skype (comunicazioni vocali tramite internet, ndr) e telefonate cifrate, si prendono gioco degli sforzi delle forze dell’ordine e godono di un’impunità guadagnata con il silenzio figlio della paura instillata in 50 anni di storia. In molti territori le ’ndrine sono alla terza generazione e i figli dei boss vanno all’università, «ma fanno Economia alla Bocconi e vanno al Mit di Boston a completare gli studi – spiega ancora Oliva -. Il vero dramma sono gli affari proposti alla mafia da quel pezzo di società che vuole godere di un patrimonio che è pari al 3,5 per cento del Pil. Soprattutto in momenti di crisi come questo che stiamo attraverso, la criminalità organizzata è l’unica ad avere i capitali. E allora l’imprenditoria pulita e insospettabile comincia a fare gli interessi della ’ndrangheta, i capitali neri vengono riciclati e l’economia è drogata». Attonito il pubblico davanti alla proiezione di una parte del documentario e alla testimonianza fiume di Oliva («una delle voci più autentiche che potessimo avere per quella che mi piace definire una “riunione condominiale contro l’ndrangheta”» ha commentato Cavalli che ha anche annunciato la nascita di un coordinamento provinciale per la legalità, fatto insieme alle associazioni del territorio). Un modo per contarsi, una reazione civile che, secondo l’esperienza di Oliva è il peggior incubo dell’ndrangheta. «Se con la politica si trova un accordo – ha chiuso il giornalista – , il timore di questo comitato di potere è che la gente dei territori in cui si sono insediati alzi la testa e scenda in piazza».Rossella Mungiello

DA IL CITTADINO L’ARTICOLO QUI

Le cosche narrate 'in teatri di periferia' I nemici invisibili di Giulio Cavalli.

L’attore teatrale sotto scorta ad Affari: “La ‘ndrangheta a Milano? Per molti non esiste. E io sono minacciato da un nemico invisibile”

Di Francesco Oggiano e Antonio Prudenzano

Giulio Cavalli è uno sfigato. Come chiamare altrimenti uno che deve difendersi da ciò che non esiste? Non è mai vissuto un eroe senza un nemico. Anzi, la sua giustificazione la trova proprio in esso. Ecco, anche per questo Giulio Cavalli è uno sfigato. Se ne sta alla sua scrivania, nel soppalco del suo teatro di periferia, sommerso da una pila di documenti, con gli occhi blu attaccati al Mac, un po’ a navigare su Facebook e un po’ a scrivere i suoi testi.

LA VIDEOINTERVISTA
I TESTI – Già, i suoi testi: quelli che parlano di quello che non c’è. Prima quelli sulla strage dell’aeroporto di Linate, nel 2001; poi quelli sui turisti sessuali italiani; infine quelli sulla mafia, portati sul palco prima con “Do ut des – riti e conviti mafiosi”, del 2006, e poi con “A cento passi dal Duomo”, che ha debuttato lo scorso ottobre al Teatro della Cooperativa di Milano. Giulio Cavalli è uno sfigato perché in prima serata non reggerebbe neanche mezz’ora. Lui, con le sue parole, non solletica neanche un po’ la pancia dello spettatore. Non mette in scena boss, non recita baciamani, non descrive tavole imbandite per padrini. Piccolo, curvo e misurato, ogni sera vomita sul palco fatturati e cda, noli a freddo e movimento terra, appalti truccati e finanziarie lussemburghesi. Raccoglie i dati, li analizza e ne ricava scenari. Proprio per questo, dallo scorso aprile si è visto affidare una scorta dei carabinieri.

cavallivideo2IL TEATRO – Ma Cavalli è uno sfigato anche perché, pur educatissimo, non ci sa fare con i giornalisti. Ancora immerso nella sua pila di libri, con il suo mouse, le sue scarpe sporche, la sua sigaretta fatta a mano e il suo soppalco, finalmente leva gli occhi dal Mac e li indirizza verso i cronisti andati a trovarlo: “Sapete che non ho ancora capito che cazzo volete fare?”. Un’intervista, è la risposta. Accetta, spegne la sigaretta e li conduce di sotto, nel suo teatro, quello di periferia, vuoto. Apre il sipario, accende le luci e un’altra sigaretta.

“LA MIA VITA IDENTICA A PRIMA” – Quindi archivia subito la pratica che pesa, quella di cui tutti parlano: “La scorta è un fatto puramente tecnico, non è una medaglia. Una persona viene considerata bisognosa di una tutela da parte dello Stato affinché possa continuare senza rischi la sua attività professionale. La mia vita è identica a prima. Non ho ansie e non ho paure”. Però Cavalli una paura ce l’ha: dentro di sé odia il fatto che quel che dice possa acquistare spessore solo perché ha quattro carabinieri al fianco. “L’Italia è piena di persone sotto tutela: di magistrati, pm, giornalisti. Le persone che hanno più paura lo sai chi sono? Sono i pentiti di mafia, che hanno trattato una buonuscita con lo Stato e che si spostano con cinque poliziotti alle calcagna”.

“LA DIFFERENZA TRA ME E SAVIANO” – Il paragone, tuttavia, è inevitabile: “La differenza tra me è Roberto Saviano è tra raccontare storie e raccontare le nostre storie. A me non interessa raccontare la mia esperienza. Non è simbolica, non fregherebbe niente a nessuno. Roberto avrà accettato i consigli che gli hanno fatto ritenere giusto e intelligente raccontare l’ombra che le storie che ha raccontato proiettano sulla sua vita”.

LA ‘NDRANGHETA A MILANO – Cavalli è uno sfigato perché si appassiona a quello che non c’è. Lui non parla di Camorra, di Stidda o di Cosa Nostra. No: a lui interessa la ‘ndrangheta. E nemmeno la consorteria attiva in Calabria. No. Lui mette in scena le cosche attive nel Nord Italia, in particolare a Milano e provincia: “Racconto quarant’anni di mafia perché li ritegno dignitosamente drammaturgici. E soprattutto descrivo il negazionismo patetico di una parte politica di Milano, la milanesità come impermeabilità. Credo che la parola può far male allo stesso modo di un’inchiesta”.

QUEL RAPPORTO ADULTERO MAFIA-POLITICA – Eccolo, il teatro civile dello sfigato. Quasi un atto di lesa maestà contro le ‘ndrine e soprattutto contro i politici e gli imprenditori collusi. Perché, spiega, “la mafia in sé è poco credibile. È stomachevole nelle forme e nei contenuti. La potenza di cui si riveste e il controllo dei territori che ha ottenuto li deve a persone molto credibili che hanno deciso di accettare questo rapporto adultero. In Lombardia c’è una colpa che ha delle radici prettamente culturali. E per questo va fatto un lavoro culturale”.

cavalli

IL FIUME CARSICO DELLA ‘NDRANGHETA – Un lavoro che, come primo atto, deve radere al suolo i luoghi comuni: “Basta con questa balla di una ‘ndrangheta formata da quattro bovari emigrati con le valigie di cartone al Nord Italia. La mafia calabrese ha un’umiltà fantastica. Pensa solo a questo: quando quegli imbecilli di Riina e Provenzano progettavano l’attentatuni (l’attentato che costò la vita al giudice Giovanni Falcone, a sua moglie Francesca Morvillo e ai tre uomini della scorta, ndr), le cosche calabresi fissavano i prezzi della droga del cartello di Medellìn. Altra differenza: Cosa Nostra è voluta diventare una Spa. Sognava una vera e propria struttura simile a un consiglio d’amministrazione, con quei quattro neuroni che si ritrovava. La ‘ndrangheta, più furba, si è comportata come un fiume carsico e ha arginato il fenomeno del pentitismo grazie alla sua struttura familiare, ottenendo molto più credito di fiducia nei confronti delle altre organizzazioni”.

L’ATTIVISMO ‘PASSIVO’ – Cavalli rifiuta l’attivismo ‘passivo’. “Delegare le responsabilità alla politica e ai politici è uno dei gesti più pavidi che esista. Li vedo questi giovani attivisti. Non capiscono che i politici decidono in base alle pressioni che gli pervengono e che possono spostare voti. Ormai dagli atti risulta che gli imprenditori milanesi non hanno più bisogno di essere minacciati. Accettano di buon grado di sottostare alle condizioni dei mafiosi, anche perché ne ricavano un vantaggio”.

UNA BATTAGLIA DI MEMORIA – Allora l’antimafia diventa una battaglia di memoria. Chi più ne ha più è forte. Certo è dura. In un Paese che non rinuncia al mare di luglio per andare ai funerali di Giorgio Ambrosoli; in un Paese in cui l’allora sindaco di Milano, Paolo Pillitteri, diceva che al “Nord la mafia non esiste”; in un Paese in cui “le intercettazioni sono solo le polluzioni di alcuni magistrati di sinistra”; “in cui si dice che Andreotti è stato assolto e non prescritto”.

IL SORRISO DEL MAGISTRATO BRUNO CACCIA – In un Paese, l’Italia, che non sa, o non vuole ricordare, chi era e com’è morto Bruno Caccia. Magistrato antimafia, è il primo a svelare i legami tra politica, imprenditoria e Cosa Nostra nella città di Torino. Muore ammazzato, una sera di giugno, mentre porta a spasso il cane, la sigaretta ancora in bocca, sotto la luce di un lampione, nel centro di Torino. Cavalli termina ogni suo spettacolo dedicandogli un monologo struggente: “Trovo triste un Paese che ha sempre bisogno di eroi”. Accende un’altra sigaretta, tira un paio di volte, socchiude gli occhi. Si concentra. Sta per fulminare i salotti buoni della società civile: “Concordo con chi sostiene che in Italia per fare la battaglia antimafia ci vorrebbe un morto eccellente l’anno. Si gioca molto a scovare storie e personaggi cui delegare completamente l’impegno. Vivi o morti, non ci bastano pochi simboli di una battaglia, purché venduti bene. I vari Roberto Antiochia, Beppe Montana… hanno combattuto la mafia allo stesso modo di Falcone e Borsellino”. L’attore fa riferimento alla fiction Il Capo dei Capi, accusata di aver mitizzato la figura di Toto Riina. “Io invece voglio parlare di quella mafia che come un’edera si attacca ai vuoti della politica. Bruno Caccia era un magistrato che l’aveva capito. Che aveva raccontato come la ‘ndrangheta avesse colonizzato il Piemonte, creando un cartello in combutta con Cosa Nostra. Ecco: Bruno Caccia era un magistrato competente, il cui assassinio è stato relegato negli articoli di spalla. Il teatro mi sembra un ottimo modo rendere giustizia a questa persona”.

“E ORA CHE HO BISOGNO MI RITROVO NEL TEATRO DI PERIFERIA” – Ma Giulio Cavalli è uno sfigato anche per un altro motivo. Resta lontano, chissà se per scelta o condizione, dai salotti teatrali. E non basta: gli sputa anche addosso. Ci si accorge di quando Cavalli sta per radere al suolo qualcuno: digrigna i denti, rallenta la parlantina, si protende col busto e lancia un’ultima occhiata all’interlocutore, per assicurarsi che abbia incassato il colpo. Poi passa ad altro: “A ben vedere non mi ritengo neanche un teatrante. Faccio il mio lavoro in un teatro e, se il luogo determina la professione, allora sì: sono un teatrante. Faccio teatro anche al bar, ma non mi ritengo un cameriere. Al momento il teatro italiano è una prostituta che fa la spola tra Camera e Senato. Non so neanche se esiste un teatro civile. Ogni tanto vedo qualcuno che fa l’impegnato. Poi, una volta guadagnatasi la targhetta sul citofono, si riguarda e abbassa i toni. Se il più rivoluzionario è un vecchiaccio mezzo cieco e mezzo e mezzo sordo come Dario Fo, allora…”. Ha il dente avvelenato. Molti teatri di città gli hanno chiuso le porte del suo spettacolo: “Mi sono ritrovato a fare il maggiordomo di funerali pettinati nei grandi teatri ed ero perfetto come portabara. Nel momento in cui io ho avuto bisogno, eccomi qui: mi sono ritrovato nel teatro di periferia”. Un vero e proprio sfigato.

DA AFFARI ITALIANI

http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/giulio_cavalli_cento_passi_duomo_mafia_milano241109.html

No alla vendita dei beni confiscati. Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra

FIRMA L’APPELLO

niente_regaliTredici anni fa, oltre un milione di cittadini firmarono la petizione che chiedeva al Parlamento di approvare la legge per l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie. Un appello raccolto da tutte le forze politiche, che votarono all’unanimità le legge 109/96. Si coronava, così, il sogno di chi, a cominciare da Pio La Torre, aveva pagato con la propria vita l’impegno per sottrarre ai clan le ricchezze accumulate illegalmente.

Oggi quell ‘impegno rischia di essere tradito. Un emendamento introdotto in Senato alla legge finanziaria, infatti, prevede la vendita dei beni confiscati che non si riescono a destinare entro tre o sei mesi. E’ facile immaginare, grazie alle note capacità delle organizzazioni mafiose di mascherare la loro presenza, chi si farà avanti per comprare ville, case e terreni appartenuti ai boss e che rappresentavano altrettanti simboli del loro potere, costruito con la violenza, il sangue, i soprusi, fino all’intervento dello Stato.

La vendita di quei beni significherà una cosa soltanto: che lo Stato si arrende di fronte alle difficoltà del loro pieno ed effettivo riutilizzo sociale, come prevede la legge. E il ritorno di quei beni nelle disponibilità dei clan a cui erano stati sottratti, grazie al lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura, avrà un effetto dirompente sulla stessa credibilità delle istituzioni.

Per queste ragioni chiediamo al governo e al Parlamento di ripensarci e di ritirare l’emendamento sulla vendita dei beni confiscati.
Si rafforzi, piuttosto, l’azione di chi indaga per individuare le ricchezze dei clan. S’introducano norme che facilitano il riutilizzo sociale dei beni e venga data concreta attuazione alla norma che stabilisce la confisca di beni ai corrotti. E vengano destinate innanzitutto ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia i soldi e le risorse finanziarie sottratte alle mafie. Ma non vendiamo quei beni confiscati che rappresentano il segno del riscatto di un’Italia civile, onesta e coraggiosa. Perché quei beni sono davvero tutti “cosa nostra”

don Luigi Ciotti
presidente di Libera e Gruppo Abele


Tra i primi firmatari:  Andrea Campinoti, presidente di Avviso Pubblico – Paolo Beni, presidente Arci – Vittorio Cogliati Dezza, presidente Legambiente – Andrea Olivero, presidente ACLI – Guglielmo Epifani, segretario CGIL –  Luigi Angeletti, segretario UIL – Francesco Miano, presidente Azione Cattolica – Filippo Fossati, presidente UISP – Marco Galdiolo – presidente US Acli, Paola Stroppiana e Alberto Fantuzzo, presidenti del comitato nazionale Agesci – Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della Pace – Loretta Mussi, presidente di “Un ponte Per” –  Michele Curto, presidente di FLARE (Freedom, Legality and Rights in Europe) – Michele Mangano, presidente Auser –  Doriano Guerrieri, presidente nazionale CNGEI – Gianpiero Calzolari, Presidente di “Cooperare con Libera Terra” – Oliviero Alotto, presidente di Terra del Fuoco – Giuseppe Gallo, segretario generale FIBA Cisl – Don Nandino Capovilla, coordinatore Pax Christi – Giuliana Ortolan, Donne in Nero di Padova – Giulio Marcon, portavoce campagna Sbilanciamoci – Aurelio Mancuso, presidente Arcigay – Lucio Babolin, presidente CNCA – Fabio Salviato, presidente di Banca Etica – Mario Crosta, Direttore Generale di Banca Etica, Giuseppe Gallo, segretario generale FIBA Cisl –  Tito Russo, coordinatore nazionale UDS (Unione degli Studenti), Claudio Riccio, referente Link-coordinamento universitario, Sara MartiniEmanuele Bordello – presidenti FUCI, Giorgio Paterna, coordinatore Unione degli Universitari – Umberto Ronga, Movimento Eccesiale di Impegno Culturale.

E inoltre: Nando Dalla Chiesa, Salvo Vitale, Rita Borsellino, Sandro Ruotolo, Roberto Morrione, Enrico Fontana, Tonio Dell’Olio, Pina Picerno, Francesco Forgione, Luigi De Magistris, Raffaele Sardo, David Sassoli, Francesco Ferrante, Rita Ghedini, Petra Reski, Esmeralda Calabria, Vittorio Agnoletto, Vittorio Arrigoni, Giuseppe Carrisi, Jasmine Trinca, Yo Yo Mundi, Sergio Rubini, Modena City Ramblers, Gianmaria Testa, Libero De Rienzo, Livio Pepino, Elio Germano, Subsonica, Vauro, Claudio Gioè, Roberto Saviano, Daniele Biacchessi, Giulio Cavalli, Elisabetta Baldi Caponetto, Moni Ovadia, Ottavia Piccolo, Giancarlo Caselli, Ascanio Celestini, Alberto Spampinato, Salvatore Borsellino, Federica Sciarelli, Haidi Giuliani, Fausto Raciti, Francesco Menditto, Antonello Ardituro, Benedetta Tobagi, Il Coro dei Minatori di Santa Fiora, Simone Cristicchi, Roberto Natale, Agnese Moro, Tana De Zuleta, Lella Costa, Armando Spataro, Maurizio Ascione, Nicola Tranfaglia, Franco Cassano, Marco Delgaudio, Carlo Lucarelli  …

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COMUNICATO STAMPA AVVISO PUBBLICO

Nel pomeriggio di oggi, nell’ambito del maxi emendamento presentato dal governo alla Legge Finanziaria, l’Aula del Senato ha approvato a maggioranza il provvedimento che introduce la possibilità di vendere i beni confiscati alla criminalità mafiosa (Emendamento 2.3000, relatore Maurizio Saia, PDL).

Il nuovo provvedimento stabilisce che se trascorsi i 90 giorni che devono intercorrere tra la data della confisca e quella dell’assegnazione – previsti dalla legge 575/65 – i beni non sono stati assegnati, essi possono essere venduti.

La competenza viene affidata al dirigente del competente ufficio del territorio dell’Agenzia del demanio che dovrà espletare il procedimento di vendita entro sei mesi. In questo modo la competenza in materia di beni confiscati passa dal Ministero dell’Interno al Ministero dell’Economia, per evidenti ragioni di natura economico-finanziaria: le risorse incamerate dalla vendita andranno a finanziare i bilanci del Ministero degli Interni e del Ministero della Giustizia.

Il dirigente del competente ufficio dell’Agenzia del demanio – secondo quanto previsto dall’emendamento approvato – richiede al prefetto della provincia interessata ogni informazione utile affinché i beni non siano acquistati, anche per interposta persona, dai soggetti cui furono confiscati ovvero da soggetti altrimenti riconducibili alla criminalità organizzata.

L’Aula del Senato ha approvato a maggioranza due emendamenti proposti dall’opposizione (Emendamento n. 2.3000/35 e n. 2.3000/36), in base ai quali si prevede che il dirigente del competente ufficio dell’Agenzia del demanio deve obbligatoriamente tenere conto del parere del Commissario straordinario per la gestione e la destinazione dei beni confiscati alle organizzazioni mafiose e del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.

Secondo il Presidente di Avviso Pubblico, dottor Andrea Campinoti e il Coordinatore del gruppo di lavoro dell’Associazione sul tema dei beni confiscati, Cosmo Damiano Stufano, il provvedimento approvato oggi al Senato indebolisce la lotta alle mafie in quanto genera uno stravolgimento inaccettabile di quanto previsto dalla legge 646 del 1982 – Legge Rognoni – La Torre, pagata con la vita da Pio La Torre – e del principio di utilizzo sociale dei beni sottratti alla criminalità organizzata previsto dalla legge 109/96.

La legge 109/96 è stata la prima legge di iniziativa popolare contro le mafie, votata dal Parlamento all’unanimità, sostenuta dalla raccolta di un milione di firme di cittadini a suo tempo curata dall’Associazione Libera.

Confiscare i beni ai mafiosi e utilizzarli per finalità di carattere sociale è fondamentale se si vuol portare avanti una seria e concreta lotta alle mafie da parte di uno Stato credibile e autorevole. Fondamentale perché si sottrae quella ricchezza illecita e quel consenso sociale che sono due pilastri portanti della forza e della prepotenza mafiosa.

L’uso sociale dei beni confiscati è uno strumento formidabile di grande valore e impatto simbolico, utile sia per costruire un tessuto sociale e istituzionale capace di riconoscere realmente i diritti dei cittadini, liberandoli dall’oppressione mafiosa, sia per porre le basi di uno sviluppo economico legale concreto, come testimonia il lavoro delle Cooperative sociali del circuito Libera – Terra.

La vendita dei beni confiscati alle cosche, così come prevista dal provvedimento approvato oggi al Senato, non garantisce pienamente che ad impossessarsene non saranno più i mafiosi. È notorio, infatti, come da tempo queste organizzazioni criminali, dotate di ingenti risorse finanziarie, si avvalgano di prestanome incensurati per infiltrarsi nel tessuto economico-produttivo-finanziario legale: questo non solo nel Mezzogiorno ma a livello nazionale.

Avviso Pubblico ritiene che un concreto sostegno economico-finanziario alla magistratura e alle Forze dell’ordine può derivare da un serio contrasto alla corruzione, alle mafie e all’evasione e all’elusione fiscale, non dalla vendita dei beni confiscati alla criminalità organizzata.

In tema di beni confiscati è necessaria la costituzione di un’apposita Agenzia nazionale che si occupi in modo specifico della materia, riducendo sensibilmente i tempi che intercorrono tra la fase di sequestro, confisca, assegnazione e destinazione dei beni, favorendone il loro uso sociale, così come dichiarato anche nel Manifesto finale di Contromafie 2009.

Avviso Pubblico si dichiara contraria alla scelta legislativa approvata oggi dal Senato e chiede che alla Camera dei deputati il provvedimento sia ritirato. Affinché questo si realizzi l’Associazione si mobiliterà pubblicamente nelle forme e nelle sedi che riterrà più opportune.

Andrea Campinoti
Presidente di Avviso Pubblico

Cosmo Damiano Stufano
Coordinatore Gruppo di lavoro su
beni confiscati di Avviso Pubblico