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Cosa serve di più per riconoscere la vendetta

Mentre noi qui stiamo a lambiccarci per trasformare in una battaglia identitaria una tragedia umanitaria il presidente di Israele Benyamin Netanyahu ha annunciato l’invasione via terra di Gaza definendo il momento il «culmine di una lotta per la nostra esistenza».

Nel suo discorso ha utilizzato lo slogan che inebria un pezzo di Occidente e di editorialisti nostrani: «Hamas è l’Isis, e l’Isis è Hamas». In un mondo con memoria minimamente funzionante si potrebbe ricordare che la strategia adottata contro ll’Isis è stata completamente sballata. Quanto può essere cretino riproporla

Nel frattempo gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas sono il loro capitale bellico mentre la vendetta di Netanyahu dal 7 ottobre ha provocato l’uccisione di  6.546 palestinesi di cui 2.704 bambini, secondo il ministero della Sanità di Gaza. I feriti sarebbero 17.439. Solo tra martedì e mercoledì a Gaza sono state uccise 756 persone, tra cui 344 bambini. A Rafah una scuola dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni unite che assiste i profughi palestinesi, con 4600 sfollati nelle sue aule, è stata danneggiata da un attacco ravvicinato. Sono 38 a oggi i lavoratori morti dell’agenzia Onu. Ieri la farina dell’Onu era appena arrivata al panificio del campo profughi di Moghrabi (Deir Al Balah), uno dei pochi ancora aperti in tutta Gaza, quando hanno cominciato a cadere le bombe dei raid aerei. A Gaza molti indossano braccialetti per essere riconoscibili nel caso in cui una bomba israeliana li faccia a pezzi.

Dice l’Occidente che “la difesa non deve giustificare la vendetta” e la domanda sorge spontanea: cosa serve di più per vedere la vendetta

Buon giovedì.

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Rissa finale Renzi-Calenda. Ultima lite sulla cassa

Non riescono a stare insieme e non riescono nemmeno a divorziare. Come in ogni separazione che si rispetti tra Matteo Renzi e Carlo Calenda la questione principale non è quello che è stato e nemmeno quello che resta: è solo una questione di soldi. Mentre la rottura alla Camera dei due padri politici del fu Terzo polo ha sciolto il gruppo parlamentare senza troppi problemi, rintanando l’uno in Italia Viva e l’altro in Azione, al Senato la situazione è molto più scivolosa.

Matteo Renzi e Carlo Calenda non riescono a stare insieme e non riescono nemmeno a divorziare

I 7 senatori di Iv si sono proclamati repubblica indipendente lasciando apolidi i 4 di Azione che ora rischiano di doversi accomodare nel gruppo misto insieme al senatore di Sinistra italiana Peppe De Cristoforo che ne è il capogruppo. Renzi con un’incursione ha già cambiato il nome al gruppo che ora è “Italia viva – Il Centro – Renew Europe” ma Calenda ritiene l’azione illegittima e chiede di potersi costituire come gruppo autonomo. Inutile cercare la politica, si tratta più banalmente di una cifra che può arrivare a 400mila euro utili per tenere in piedi la struttura composta da collaboratori, per le spese telefoniche per gli addetti stampa.

Ad aggiungere pepe alla telenovela è il presidente del Senato Ignazio Benito Maria La Russa nella veste di avvocato divorzista che propone una mediazione per una separazione consensuale. Per ora nulla è risolto. Rimangono i comunicati incrociati sull’asse Renzi-Calenda zeppi di rivendicazioni. I due hanno cominciato a litigare nell’aprile di quest’anno, quasi sette mesi fa. Come nota giustamente Tommaso Labate sul Corriere della Sera, Giorgia Meloni ha scaricato Andrea Giambruno nel tempo di un post su Instagram.

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Con le destre al Governo torniamo indietro. A certificarlo sono i numeri

Ogni volta che Giorgia Meloni si scontra con i numeri e con la realtà il risultato non cambia: la propaganda e la rivendicazione dei risultati ottenuti non dicono la verità. Così basta che qualcuno si metta a fare i conti, come spesso capita al sito di fact checking Pagella Politica e la bugia viene a galla. Lo scorso 22 ottobre la presidente del Consiglio ha propalato festantem sui suoi social network i risultati raggiunti dal suo governo, insediatosi esattamente un anno fa. “In un solo anno stiamo invertendo la rotta”, si die nel filmato pubblicato da Meloni. Che ha scritto: “Molti sono stati i traguardi raggiunti, molti altri ne arriveranno”. La premier spazia dall’economia all’occupazione, dal Piano di ripresa e resilienza fino alla lotta alla criminalità.

Ogni volta che Meloni si scontra con i numeri il risultato non cambia: la propaganda e la rivendicazione dei risultati ottenuti dal Governo non dicono la verità

“La disoccupazione mai così bassa dal 2009” ad esempio è un mantra che amano ripetere in molti dentro fratelli d’Italia. In effetti i dati più aggiornati di Istat dicono che ad agosto il tasso di disoccupazione è stato pari al 7,3 per cento, la percentuale più bassa da gennaio 2009. Carlo Canepa, su Pagella politica, nota però come il risultato odierno si il risultato di una discesa della tasso di disoccupazione che parte dal 2021. Nessuna “inversione di rotta”, quindi. A Meloni e al suo governo è bastato raccogliere frutti che arrivano da lontano. Sulla stessa linea la dichiarazione che riguarda il “boom di assunzioni: +523 mila occupati in un anno. Record di italiani al lavoro”.

Pagella politica propone due osservazioni. Innanzitutto “questo aumento non è stato registrato solo durante il governo Meloni. Tra agosto e ottobre 2022, periodo considerato dai dati appena visti, alla guida del Paese c’era il governo Draghi. In più, come per il tasso di disoccupazione, la dinamica di crescita del numero di occupati è in corso da inizio 2021”. Nessun “boom” quindi. Anche in questo caso al governo Meloni è bastato non fare danni. La seconda osservazione proposta da Canepa verte sul fatto che sia “impreciso far coincidere il numero dei nuovi “occupati” con quello delle “assunzioni”. La prima categoria è più ampia della seconda: l’Istat considera come “occupato” chi ha tra i 15 e gli 89 anni e chi nella settimana in cui sono stati raccolti i dati ha dichiarato di aver svolto almeno un’ora di lavoro retribuita. Rientrano tra gli occupati anche i lavoratori in ferie, in maternità o paternità, e quelli temporaneamente assenti per un periodo inferiore ai tre mesi”.

Solo mezze verità su cuneo fiscale e aliquote. Mentre sul Pnrr che va spedito si sfiora il ridicolo

Ai lavoratori Meloni rivendica anche di avere dato “più soldi in busta paga grazie al taglio del cuneo fiscale”. In effetti con il decreto “Lavoro” il governo Meloni ha aumentato temporaneamente di 4 punti percentuali, per i mesi tra luglio e dicembre di quest’anno, il taglio dei contributi previdenziali già stabilito con la legge di Bilancio per il 2023. Ma, come osserva Pagella politica, quest’ultima a sua volta aveva rifinanziato per il 2023 il taglio del 2 per cento introdotto temporaneamente nel 2022 dal governo Draghi per i redditi fino a 35 mila euro, che arrivava al 3 per cento per chi guadagna fino a 25 mila euro l’anno.

Nella seconda metà del 2023, grazie al decreto “Lavoro”, il taglio per queste due fasce di reddito è salito rispettivamente al 6 per cento e al 7 per cento “Il governo ha annunciato – scrive Canepa – che il taglio del cuneo fiscale sarà rinnovato temporaneamente anche nel 2024 con la prossima legge di Bilancio. Nel 2024 il governo interverrà anche sull’Irpef, portando da quattro a tre il numero di scaglioni. Il governo Draghi li aveva già ridotti da cinque a quattro, ma in via definitiva, con la legge di Bilancio per il 2022.

Con grande sprezzo del ridicolo Meloni ha anche dichiarato che il Pnrr “procede senza ritardi l’attuazione degli obiettivi e dei traguardi del piano”. Dopo mesi di trattative con l’Ue, la terza rata è stata erogata il 9 ottobre, oltre nove mesi dopo, ma mezzo miliardo di euro è stato spostato sull’erogazione della quarta rata, quella da 16 miliardi di euro legata al raggiungimento degli obiettivi fissati per i primi sei mesi del 2023. La quarta rata è stata chiesta dall’Italia a settembre e ora è in fase di valutazione da parte dell’Ue.

Tra gli investimenti che hanno accumulato ritardi, iniziati già con il governo Draghi, c’è quello per la realizzazione dei nuovi asili nido. Come segnala Pagella politica in quella proposta il governo ha dichiarato che entro il 2026 non potranno essere portate a termine nove misure, per un valore pari a quasi 16 miliardi di euro: il piano dell’esecutivo è quello di definanziare questi interventi dal Pnrr e di finanziarli con altre fonti, al momento non ancora decise ufficialmente. I “più di mille mafiosi arrestati negli ultimi mesi” celebrati dalla presidenza del Consiglio sono un dato perfettamente in linea con i governi precedenti. Resta da vedere quante saranno le eventuali condanne, sempre che le prossime riforme in tema di Giustizia non invalidino anche i processi in corso.

Sull’occupazione non c’è stata alcuna inversione di rotta. Ma si è cominciato a scendere già con Draghi

Meloni festeggia anche la “Carta cultura giovani” e la “Carta del merito” destinate ai diciottenni che fanno parte di famiglie con un Isee inferiore ai 35 mila euro o che si sono diplomati con il massimo dei voti. Peccato che da un anno non se ne veda l’ombra, al di là delle molte parole. A oggi le carte non sono ancora entrate in vigore eppure sono già considerate “un successo”. C’è infine “il rilancio del Made in Italy” che per Meloni passa dallo “stop al cibo sintetico. Dal video pubblicato da Meloni sembra che lo “stop al cibo sintetico” sia un traguardo già raggiunto, ma non è così: manca la definitiva approvazione del Parlamento poiché testo è all’esame della Camera.

Nei giorni scorsi Il Foglio ha spiegato che il governo Meloni ha ritirato la notifica inviata alla Commissione europea con cui la informava del percorso per introdurre il divieto di commerciare e produrre carne coltivata temendo di incorrere nel rischio di “ostacolare la libera circolazione delle merci” se l’Ue decidesse il contrario. Se la legge passerà alla Camera il rischio di infrazione è dietro l’angolo.

Leggi anche: Il completo disastro dell’Iva ridotta su latte, pannolini e assorbenti. Il governo ammette il fallimento e alza l’aliquota: così i prezzi saliranno a livelli più alti del 2022 e a pagare sono donne e famiglie con figli

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“Big Pharma”? Un altro ramo della propaganda è caduto

Da quando si è insediato il governo Meloni si vanta di essere contro “i poteri forti”, dopo un anno di governo resta da capire quali siano i “forti” a cui si riferiscono. Di sicuro non è più considerato un pericoloso potere forte Big Pharma, le aziende farmaceutiche che in piena pandemia erano state messe nel mirino dall’attuale presidente del Consiglio e dal suo alleato in propaganda Matteo Salvini. 

In quei tempi “Big Pharma” era presentata come il condensato dei sospetti, del lucro sporco e di sinistri complotti. Oggi all’interno della bozza della manovra l’industria farmaceutica invece gode dell’innalzamento del tetto di spesa per gli acquisti farmaceutici delle Regioni scritto nell’articolo 44 della bozza della legge di bilancio che regala alle aziende un sostanzioso taglio ai loro versamenti allo Stato calcolati in base al cosiddetto payback.

Come spiega Andrea Capocci su Il manifesto da anni i lobbisti premono affinché il rimborso sia abolito o ammorbidito. “Draghi era andato incontro alle loro richieste prevedendo un aumento del tetto fino all’8,3% nel 2024. Meloni ha fatto ancora di più per Farmindustria portando il tetto all’8,6%, circa 11 miliardi di euro. Risultato: secondo gli analisti il payback delle aziende sarà quasi dimezzato. Oltre a far risparmiare centinaia di milioni alle imprese, l’aumento della spesa per i farmaci sottrarrà risorse preziose alla sanità pubblica già penalizzata dalla manovra”. In più, per coprire la maggiore spesa ospedaliera il governo ha tagliato il budget per il rimborso dei farmaci venduti in farmacia.

E un altro ramo della propaganda è stato tagliato. 

Buon mercoledì. 

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Bell’aiuto alla natalità. Sale l’Iva sul latte in polvere

In mezzo alla penosa manfrina dal sapore mussoliniano delle donne che devono essere madri per partorire per la Patria si innestano in direzione opposta le misure della prossima Manovra che da ieri circola in bozza per vedere l’effetto che fa. Niente più iva al 5% sui prodotti dell’infanzia e sugli assorbenti.

Stangata sulla famiglia. Tradizionale e non. I prodotti che riguardano le donne e l’infanzia costeranno sensibilmente di più

La bozza della manovra prevede infatti che latte in polvere e preparazioni per l’alimentazione dei bimbi, così come assorbenti, tamponi e coppette mestruali, passino tra i prodotti soggetti all’Iva al 10%. Che quindi viene raddoppiata nel giro di un anno. Giorgia Meloni ha provato a diluire la questione dicendo che semplicemente non hanno “confermato il taglio dell’Iva”.

Il risultato non cambia: i prodotti che riguardano le donne e l’infanzia costeranno sensibilmente di più alla faccia della “riduzione dell’aliquota Iva sui prodotti e servizi per l’infanzia” che era scritta nero su bianco nel programma elettorale della coalizione di centrodestra. Tornano così gli “assorbenti più costosi di Europa” che avevano convinto il governo Draghi a intervenire per riequilibrare una delle tante discriminazioni verso le donne.

“Si tratta di una brutta notizia per un Paese – ha detto ieri la presidente di Adoc (Associazione per la difesa e l’orientamento dei consumatori) Anna Rea – in cui la natalità è un grave problema per il futuro. In un quadro economico per le famiglie già disastrato dal caro vita, crescere i figli costa: solo per l’acquisto dei pannolini, le famiglie spendono mediamente in un anno 726 euro l’anno a figlio; per gli alimenti per bambini si sono registrati nel corso del 2023 aumenti del 15,2%”.

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Destre a tutta lobby. Altro che Governo nemico dei poteri forti

Ogni giorno il deputato e responsabile organizzazione di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli scopre una nuova “lobby” che vorrebbe la caduta del governo. Ieri in un’intervista a Repubblica ha collegato gli attacchi a Giorgia Meloni a “certi ambienti” a cui “non andiamo già”, dice Donzelli. “Lobby abituate a entrare nelle stanze del potere – spiega il deputato meloniano – , tecnici che andavano a fare i ministri, ma anche alcuni dirigenti dei ministeri che si erano assuefatti alla debolezza della politica, mentre Meloni ne ha ripristinato la forza. Ma non solo Meloni: anche Conte e Schlein, nell’altro campo, hanno fatto capire di non essere disposti a grandi coalizioni o a governi tecnici”.

Ogni giorno il deputato e responsabile organizzazione di FdI d’Italia Giovanni Donzelli scopre una nuova “lobby” che vorrebbe la caduta del governo

Mediaset ovviamente è detto a mezza bocca. Dalle parti di Fratelli d’Italia l’ordine di scuderia è di evitare un attacco frontale con l’azienda ora guidata da Pier Silvio Berlusconi e la controversa figura del capo di Striscia la notizia, Antonio Ricci, rende facile per tutti giocare di sponda. Ciò che conta è alimentare la narrazione dell’assedio, dipingere Giorgia Meloni come novella Giovanna d’Arco contro nemici immaginari che ogni settimana diventano più grandi, più potenti, più neri (o rossi, in questo caso). Donzelli è il cantore principale.

Solo un mese fa aveva srotolato l’intero repertorio complottista e vittimista della destra in un’intervista al Corriere della Sera spiegando: “ci sembra evidente come oggi, ora che finalmente torna la politica, con un nuovo assetto di stampo conservatore di centrodestra, si assista a una forte reazione. Che non ci spaventa né ci stupisce. Ma, anzi, ci motiva”. Ma che Fratelli d’Italia sia tutto fuorchè una forza antisistema lo dicono i fatti e i numeri. Non c’è stato bisogno di nessun “servizio particolare” da parte delle banche e della famiglia Berlusconi per fare dietrofront sulla tassa extraprofitti alle banche.

Ad agosto la misura era stata annunciata con enfasi dal governo. Sembrava un capolavoro, un governo che ha il coraggio di zittire le banche era un sogno quasi socialista. Invece scherzavano: le modifiche, gli emendamenti e le eccezioni applicate all’imposta originaria ne hanno ridefinito il senso. La tassa è diventato un prestito e nonostante dal governo si sforzassero di spiegare che la natura dell’iniziativa rimaneva la stessa sullo sfondo l’esultanza delle banche e di Forza Italia dicevano tutto.

Esemplare il caso di Ryanair. L’esecutivo voleva ridurre i costi ma alla fine ha abbassato la cresta

Stesso copione con la compagnia aerea Ryanair. Il tetto massimo che avrebbe voluto imporre il ministro alle Imprese e del made in Italy Adolfo Urso era un storia che poteva funzionare: dentro c’era la difesa della mobilità in Patria contro il vettore straniero e il coraggio di alzare la voce con un player internazionale. Niente di fatto nemmeno lì. I moniti dell’Unione europea e la paura di non essere all’altezza della sfida hanno fatto desistere il governo. Risultato? Il prezzo dei biglietti aerei continuerà a dipendere dal buon cuore dell’amministratore irlandese Michael O’Leary.

Urso prometteva di spezzare le reni ai petrolieri. Ma è rimasto solo un cartello appeso ai distributori

E il prezzo delle benzina, ve lo ricordate? Anche in quel caso il ministro Urso aveva promesso di spezzare le reni alle compagnie petrolifere per tutelare gli italiani. Come spesso accade a questo governo però gli unici che stavano per rimetterci erano i benzinai, ultimo anello di un impero economico che attraversa continenti, emirati e guerre. Il prezzo della benzina continuava a salire e come mausoleo delle gesta di Urso contro i signori del petrolio è rimasto un malinconico cartello che ci avvisa che probabilmente a un trentina di chilometri potremmo trovare una pompa più conveniente.

In effetti un miracolo al governo Meloni sta riuscendo: mentre soffia la favola di essere contro i poteri forti sta smantellando i diritti e la dignità dei poteri poveri e fragili. Così ai suoi elettori offre la narrazione di essere antisistema e al sistema offre gli indigenti come carne da cannone. L’hanno capito quasi tutti. Tranne Donzelli e la sua schiera.

 

Leggi anche: “Il punto non è la sfera privata. È la parentopoli di Palazzo a rendere Meloni vulnerabile”. Parla Saraceno: “Per le destre il divorzio non è un problema ma poi non tollerano gli omosessuali”

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Discriminati dalla nascita. Il futuro è già segnato per i giovani delle periferie

Il governo declama l’impegno per la natalità, i 10 milioni e 493 mila bambini e adolescenti tra 0 e 19 anni che vivono nel nostro Paese fanno i conti con una evidente disparità nell’accesso agli spazi abitativi, scolastici e pubblici adeguati alla crescita e al loro benessere educativo, fisico e socio-emozionale. Disuguaglianze profonde, che possono fare la differenza in positivo o in negativo nel futuro di bambini e ragazzi che crescono in regioni diverse, ma anche in due diversi quartieri di una stessa grande città. Tra gli 0-19enni che vivono in Italia, ben 3 milioni e 785 mila, quasi 2 su 5, si concentrano infatti nelle 14 città metropolitane, costituite dal Comune principale e dal suo hinterland, dove vive anche il 13,7% dei contribuenti con reddito inferiore ai 15 mila euro annui.

Due ragazzi su cinque tra zero e 19 anni vivono nelle 14 città metropolitane. Dove il 13,7 dei redditi è sotto i 15mila euro

Sono i risultati del rapporto ‘’Fare spazio alla crescita’’ elaborato da Save the Children in occasione della nuova campagna di sensibilizzazione Qui vivo, che vuole mettere al centro dell’attenzione i bambini, le bambine e gli adolescenti che vivono nelle periferie geografiche, sociali ed educative nel nostro Paese. La Ong sottolinea come nelle città metropolitane del Sud Italia quali Catania, Palermo e Messina più della metà dei contribuenti ha un reddito inferiore ai 15mila euro annui. La concentrazione di cittadini con redditi bassi è tuttavia elevata anche nel Centro e Nord Italia (per esempio, Roma 38,8%, Venezia 36,9%).

In queste città, le aree urbane caratterizzate da una maggiore privazione socioeconomica sono spesso anche quelle con meno spazi adeguati alla crescita dei minori. Anche se le condizioni abitative inadeguate riguardano un numero significativo di minori in tutto il Paese, dove 2 su 5 vivono in un’abitazione sovraffollata e tra le famiglie con almeno un figlio minore c’è chi vive in case danneggiate (9,2%), con umidità (13,7%) o scarsa illuminazione (5,4%), tra i quasi 13 mila minori che sono senza casa o fissa dimora, 2 su 3 si concentrano nelle città metropolitane, dove si registra anche il 45% di tutti i provvedimenti di sfratto.

Nelle città metropolitane la percentuale di edifici scolastici senza certificato di agibilità raggiunge il 70%

“Le città metropolitane si distinguono in negativo anche rispetto alla scuola, dove la percentuale di edifici scolastici senza certificato di agibilità raggiunge il 70% (62,8% la media in Italia), ma dove anche la presenza di uno spazio collettivo, mensa, palestra, aule tecniche o informatiche risulta inferiore alla media del Paese, già segnata da pesanti carenze: manca una palestra in 3 scuole su 5, uno spazio sociale comune in più di una su tre, e aule tecniche e informatiche sono un sogno per almeno la metà degli studenti minorenni di ogni ordine e grado – osserva Save the Children -. In 8 città metropolitane, inoltre, l’accesso al tempo pieno nella scuola primaria è significativamente inferiore alla media nazionale pari al 38%, con le punte in negativo di Palermo (6,5%), Catania (9,5%) e Reggio Calabria (13,7%), mentre in quella secondaria di I grado le città sotto la media (13,3%) sono 9, con Bari, Bologna, Venezia, Roma e Napoli che non superano il 5%”.

La fotografia delle disuguaglianze in Italia. Un Paese con due facce troppo diverse

Come emerge dal rapporto se a Torino lo svantaggio risulta più elevato (valori da 5 a 8) in 4 municipi su 8, e a Roma in 9 municipi su 15, a Napoli sono ben 7 su 10 le municipalità con un indice elevato. A Palermo i valori più alti si registrano in ben 6 circoscrizioni su 8, a Bari questo avviene per 4 municipi su 5, a Reggio Calabria in 10 municipi su 15 e a Cagliari in 3 su 6. Quattro municipi su 6 registrano un maggiore svantaggio a Bologna, 6 su 9 a Genova, 4 su 6 a Venezia, mentre a Firenze, ben 4 municipi sui 5 che compongono la città si attestano su valori più elevati. Se a livello nazionale ci sono quasi 1100 dirigenti scolastici che oltre alla loro scuola devono provvedere alla reggenza di un altro istituto, nei 33 municipi delle città metropolitane che presentano fattori di svantaggio più critici, ci sono 240 istituzioni scolastiche con meno di 900 iscritti e a rischio ‘’dimensionamento’’.

Proprio dove bisognerebbe investire di più sulla scuola, tenendola aperta tutto il giorno, rischiano di mancare dirigenti scolastici dedicati al cento per cento al territorio. Raffaela Milano, Direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children sottolinea come serva “essere al fianco di tutti coloro che oggi si attivano per assicurare ai bambini e agli adolescenti un contesto di crescita sicuro e ricco di opportunità. In un Paese dove, purtroppo, – spiega la dirigente della Ong – oggi avviene proprio il contrario: il maggior numero di bambini cresce nelle aree più povere di servizi essenziali, a partire dalle mense, dal tempo pieno, dalle palestre e dagli spazi pubblici. È assurdo pensare ai tanti immobili, spazi pubblici, beni sottratti alle mafie che restano inutilizzati e in condizioni di degrado, quando potrebbero diventare risorse preziose per la crescita. È necessario un impegno corale per invertire la rotta”.

È stata lanciata ieri la petizione “Agenda Urbana per i bambini”

Ieri è stata lanciata la petizione “Agenda Urbana per i bambini” aperta a tutti e sarà anche possibile aderire al Piano di sviluppo del proprio quartiere, come cittadino, soggetto della pubblica amministrazione o associazione del territorio. Ieri la Commissione d’inchiesta sullo stato e sul degrado delle periferie della Camera dei deputati, presieduta da Alessandro Battilocchio (Forza italia) ha incontrato a Napoli il sindaco Manfredi e a Caivano si è intrattenuta con la commissione straordinaria per la gestione del Comune e don Maurizio Patriciello. Nel caso in cui alla Commissione serva una mappa nazionale delle disuguaglianze per elaborare le urgenti proposte di intervento che servono da oggi ha altro materiale a disposizione. Per occuparsi dei nati, oltre che delle nascite.

Leggi anche: Il governo straparla di natalità. Mentre i Comuni insorgono per i tagli. La protesta dell’Anci: solo due spicci per il welfare. E gran parte dei progetti per gli asili è saltata dal Pnrr

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I temi di cui non parla quasi nessuno

Se avessimo voglia di sganciarci per qualche ora dal vittimismo del governo e dalle beghe sentimentali di uno dei milioni di Giambruno che si incontrano sui luoghi di lavoro italiani ci si potrebbe accorgere che i problemi dell’Italia sono l’esatto opposto della propaganda che ormai beviamo assuefatti da mesi.

Si potrebbe, tanto per cominciare, riflettere sul drammatico dato comunicato qualche giorno fa dall’Istituto statistico dell’Unione europea (Eurostat) in cui si legge che l’Italia è l’unico fra i grandi Paesi europei (Francia, Germania e Spagna) in cui la quota di famiglie che riporta almeno qualche difficoltà a far quadrare i conti nel 2022 è sopra il 63%. Una percentuale così ampia indica una situazione sistemica e diffusa che non può essere scrollata come indolenza diffusa di gente che non ha voglia di lavorare.

Si potrebbe continuare con quei 600mila italiani che negli ultimi vent’anni hanno deciso di emigrare dall’Italia senza tornarci più. Gente regalata al Regno Unito, alla Germania, alla Svizzera, alla Francia, agli Stati Uniti e alla Spagna perché qui non riusciva più a immaginare un futuro lavorativo. Non sono solo i “cervelli in fuga” su cui si lambiccano taluni, lì in mezzo ci sono anche ragazze e ragazzi che lasciano l’Italia per svolgere lavori poco qualificati, ad esempio nella ristorazione, nell’accoglienza, nel lavoro agricolo, come spiega Lorenzo Ruffino sul sito di Pagella politica.

Sono solo due della decina di temi che da noi vengono dati per persi, irrimediabili, buoni solo per qualche articolo di tanto in tanto. Solo che per raccontare il Paese bisognerebbe conoscerlo.

Buon martedì.

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Tajani argine ad Israele nella destra guerrafondaia

Se Antonio Tajani non si chiamasse Tajani, se non fosse l’attuale ministro agli Esteri di questo governo e se non fosse il leader di uno dei partiti di maggioranza, probabilmente sarebbe quasi ogni giorno sulle prime pagine dei giornali di destra, quelli dichiarati e quelli travestiti. Sarebbe sicuramente additato come “amico di Hamas”, come “nemico di Israele” e magari gli darebbero la direzione artistica di un teatro solo per il gusto di potergliela togliere.

Se Antonio Tajani non si chiamasse Tajani, se non fosse l’attuale ministro agli Esteri, sarebbe sicuramente additato come “amico di Hamas” o “nemico di Israele”

Ieri Tajani mentre si trovava in Lussemburgo ha ricordato che “Israele ha il diritto di difendersi ma in modo proporzionato, senza colpire indiscriminatamente la popolazione civile a Gaza”. “Abbiamo detto a Israele di reagire colpendo le sedi di Hamas, evitando di colpire la popolazione civile che non ha alcuna responsabilità, così come ci siamo preoccupati anche dei palestinesi cristiani, ho sentito più volte il cardinale Pizzaballa, e stiamo lavorando proprio perché da parte israeliana non ci sia un’azione che possa colpire la popolazione civile che non hanno alcuna responsabilità”, ha detto il ministro degli Esteri arrivando al Consiglio Ue Affari esteri.

Poi ha aggiunto: “Bisogna sempre far sì che le notizie siano fondate, per evitare anche di dare adito alle popolazioni arabe di reagire in maniera ferma e dura contro Israele. Quando le notizie non sono vere bisogna far sì che non ci sia un’enfatizzazione di falsità”. È lo stesso ministro che in questi giorni chiede di non soffiare sul fuoco di un pericolo di attentati che non ha riscontri. A questo punto una domanda è d’obbligo: Tajani è diventato un pericoloso comunista con inclinazioni terroristiche oppure quegli altri si sono ridicolmente spostati?

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Anche un anno dopo un’unica strategia: il vittimismo

Viene difficile pensare che gli strateghi e i dirigenti di Fratelli d’Italia ritengano percorribile anche dopo un anno di governo la solita strategia: il vittimismo. Già l’idea di “festeggiare” i dodici mesi di governo si inserisce perfettamente nella rappresentazione di “reduci” che il partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni insiste nel dare alla sua compagine. È tutta una manfrina di “nonostante”, come se ogni giorno in già a Palazzo Chigi sia figlio di un’epica battaglia che solo dalle parti di Fratelli d’Italia riescono a intravedere. 

Così accade che l’assenza di Giorgia Meloni alla sua festa di partito per questioni strettamente personali diventi l’occasione per attaccare all’opposizione (sarebbe meglio dire: per opporsi all’opposizione) seguendo lo solito schema: usare un fatto privato per martellare gli avversari e se gli avversari rispondono accusarli di utilizzare il privato in politica. Anche la sorella della presidente del Consiglio, Arianna Meloni, che attacca i giornalisti non graditi è una scena facile da prevedere: da quelle parti le voci non allineate rientrano di fretta tra gli ostili da delegittimare e da abbattere, che siano giornalisti o magistrati o cantanti o scrittori.

L’anima della festa è “siamo ancora qui”, come in un malinconico ritrovo degli ultimi giapponesi che si sentono in guerra quando la guerra è terminata da un bel po’. La capa del governo ci dice di avere dimostrato “che si potevano raggiungere risultati inimmaginabili e fare cose straordinarie senza dover essere meschini o dover prendere scorciatoie o fare cose impresentabili o dover compiacere persone impresentabili”. L’analisi però non è sui risultati ma tutta sui “meschini” immaginari. 

Buon lunedì. 

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