INTERVISTA – Giulio Cavalli, autore teatrale che vive sotto scorta
Nuovasesto – 22 gennaio 2010
Con le mie parole sfido la mafia silenziosa
Da sempre porta in scena teatro civile e di denuncia, da due anni si è concentrato sull’antimafia, e da nove mesi vive per questo sotto scorta. Le minacce sono arrivate dopo lo spettacolo “Do ut Des”. Giulio Cavalli, 32 anni, autore teatrale prima che attore, è l’animatore di quello che sta diventando un punto di riferimento per il dibattito e l’informazione anti-mafia.
E’ il Teatro Nebiolo, a Tavazzano con Villavesco (LO), di cui Cavalli è direttore artistico e dove opera con la sua compagnia, la Bottega dei Mestieri Teatrali. E dove si svolgono incontri e presentazioni: magistrati di rilevanza nazionale come Giancarlo Caselli, Alberto Nobili e Antonio Ingroia e protagonisti in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata come I.M.D. (agente del reparto Catturandi della polizia di Palermo). Questi gli ospiti solo delle ultime due settimane.
Lo scorso 11 gennaio Cavalli ha annunciato la sua candidatura come indipendente nella lista dell’Italia dei Valori per le elezioni regionali: “Ho quelle due caratteristiche che nella politica italiana probabilmente ti tutelano più di tutto: non essere ricattabile e non essere a disposizione” dice. Tra le proposte, un’agenzia regionale per i beni confiscati e una commissione antimafia che prenda atto di quello che il prefetto aveva consigliato al sindaco Moratti. “Oppure – aggiunge – estendere, almeno nel periodo dell’Expo, i controlli sulle attività a maggiore rischio d’infiltrazione, come la movimentazione terra e il nolo a freddo”.
Lo scorso 5 gennaio hai ricevuto il premio “Pippo Fava” [giornalista catanese ucciso dalla mafia nel 1984, ndr] per la categoria giovani. Cosa ha significato per te?
E’ particolarmente significativo perché Fava era un teatrante, così com’era un giornalista, un pittore, un drammaturgo, uno scrittore, e così come fondamentalmente era Pippo Fava, qualsiasi cosa facesse. E allora rispetto a essere paragonato al Paolini, al Celestini, al Fo di turno – che comunque fa sempre piacere -, se c’è un personaggio particolarmente vicino alla non identificabilità, alla non etichettabiltà era lui. Ricevere quel premio dai suoi figli è abbastanza una soddisfazione.
Com’è vivere sotto scorta?
Normalissimo. In Italia sono 660 le persono sotto scorta, c’è gente che lo fa da quaranta anni. Siamo il paese in cui gente come Caselli, Chinnici ha vissuto con i sacchi di sabbia davanti alla porta. Forse il cambiamento più grosso è di sapere che ci sono delle istituzioni che credono che tu abbia il diritto di continuare a fare quello che fai. Non la vedo la notizia sinceramente.
A chi e perché dai fastidio con i tuoi spettacoli, qui al Nord?
Tutte le mafie sono anche al Nord, loro qui hanno bisogno di essere carsici, del silenzio e nel momento in cui qualcuno alza la voce e soprattutto viene ascoltato allora è inevitabile. Sul campo della cultura, dell’arte, della bellezza, della parola che vive nella relazione – come il teatro – non sanno rispondere, sono dei sub-culturati, e allora reagiscono in questi modi.
Questo dimostra la forza dell’anti-mafia culturale.
La sconfitta della criminalità organizzata sta nella solidarietà, e quindi è un lavoro culturale. Perché la mafia è l’espressione del non essere solidali, quindi dell’interesse per pochi a scapito della comunità. Quello che è incredibile è che siamo un paese che considera eroi gente come me o Roberto [Saviano ndr] ma poi considera un vizio desueto la solidarietà. Non è un caso che il portatore sano dell’anti-mafia in Italia sia Don Ciotti.
Come è nato l’interesse sulle mafie al Nord?
In realtà abbiamo cominciato a parlare di mafie. Nel momento in cui cominci a parlare succede quello che è successo a me e sembra quasi che qui al Nord tu debba giustificarti. Allora fai uno spettacolo in cui dici: attenzione, “cosa nostra” non è “cosa loro”, a Milano sono 60 anni che esiste. Ambrosoli è stato ammazzato a Milano, Calvi è di Milano, Sindona è di Milano, Raul Gardini è di Milano, quindi c’è una storia che ogni tanto è bene ricordare.
Sembra che una consapevolezza rispetto a questo fatto manchi ancora nell’opinione pubblica. Come la pensi a riguardo?
Il problema fondamentale è che tutti i consapevoli non si auto-ghettizzino, e invece è una cosa che si è portati a fare. Borsellino diceva: parlatene ovunque, l’importante è che se ne parli. La Lombardia probabilmente non è pronta a una commissione o un movimento antimafia, nel senso largo della sua popolazione, semplicemente perché non ha alfabetizzazione sulla mafia. La mia domanda è: un processo di alfabetizzazione è l’obbligo culturale della politica?
Matteo Del Fabbro