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Antica Focacceria a Milano: 2 anni serviti d’antipasto

focacceriaOggi in una giornata di serpentine nel traffico come una luce al neon nella foschia di Milano mi sono fermato dall’amico Vincenzo Conticello alla Antica Focacceria San Francesco di via San Paolo 15. Mentre ritrovavo quel suo sorriso mai domo mi è gocciolato il brivido della Focacceria sorella maggiore giù a Palermo e ho respirato la mia Sicilia insieme a Beppe, Carmelo, Francesca e Saro.

Come se mi avessero apparecchiato a lume di candela la mia Palermo prima che iniziasse questo mio biennio a forma d’imbuto.

Non avrei mai pensato di sentirmi adottato a Milano.

Antica Focacceria San Francesco

Teatro civile al Nebiolo: un viaggio negli inferi per capire la ’ndrangheta

Alla domanda più difficile («Cos’è la ’ndrangheta?») risponde che «mi sono serviti 80 minuti per tentare una spiegazione», nel documentario firmato con Enrico Fierro La Santa. Viaggio nella ’ndrangheta sconosciuta. Ma sul palco del Nebiolo sabato sera, per il primo degli incontri del Centro di documentazione per il teatro civile, Ruben H. Oliva, pungolato dagli interventi di Giulio Cavalli, fa un tentativo e traccia il ritratto di «un mondo che è capitalismo dentro il capitalismo, in cui la ’ndrangheta è un prestatore di servizi per i cartelli messicani del traffico di cocaina con un fatturato da 50 miliardi di euro». La metastasi di un cancro senza più centro ormai, con filiali in tutti i continenti, tanto che «sarebbero le ’ndrine sparse in tutto il mondo a continuare gli affari, se per assurdo si riuscisse a cancellare il fenomeno in Italia». Un’ipotesi remota, anche perché quel «club di potenti» che conta più di 5 milioni di affiliati nel mondo si affida al legame più difficile da tradire, quello di sangue. Rinunciare alla “Santa”, significa perdere tutto, anche la famiglia. E se il pentitismo dunque non è un problema per questa mafia, che è diventata la più forte e la più agguerrita militarmente, «c’è anche da dire – sottolinea ancora il giornalista di Diario, tra i fondatori di Radio Popolare, firma prima del Giorno, per poi arrivare al Secolo XIX e a Repubblica — che il sistema ’ndrangheta è, al tempo stesso, atavico e tecnologicamente avanzato». Nei rifugi dell’Aspromonte, tra le vecchie case di San Luca, luogo da cui tutto nasce e ancora annuale sede di incontro per la cupola calabrese, gli uomini di ’ndrangheta si muovono indisturbati. Usano videoconferenze, Skype (comunicazioni vocali tramite internet, ndr) e telefonate cifrate, si prendono gioco degli sforzi delle forze dell’ordine e godono di un’impunità guadagnata con il silenzio figlio della paura instillata in 50 anni di storia. In molti territori le ’ndrine sono alla terza generazione e i figli dei boss vanno all’università, «ma fanno Economia alla Bocconi e vanno al Mit di Boston a completare gli studi – spiega ancora Oliva -. Il vero dramma sono gli affari proposti alla mafia da quel pezzo di società che vuole godere di un patrimonio che è pari al 3,5 per cento del Pil. Soprattutto in momenti di crisi come questo che stiamo attraverso, la criminalità organizzata è l’unica ad avere i capitali. E allora l’imprenditoria pulita e insospettabile comincia a fare gli interessi della ’ndrangheta, i capitali neri vengono riciclati e l’economia è drogata». Attonito il pubblico davanti alla proiezione di una parte del documentario e alla testimonianza fiume di Oliva («una delle voci più autentiche che potessimo avere per quella che mi piace definire una “riunione condominiale contro l’ndrangheta”» ha commentato Cavalli che ha anche annunciato la nascita di un coordinamento provinciale per la legalità, fatto insieme alle associazioni del territorio). Un modo per contarsi, una reazione civile che, secondo l’esperienza di Oliva è il peggior incubo dell’ndrangheta. «Se con la politica si trova un accordo – ha chiuso il giornalista – , il timore di questo comitato di potere è che la gente dei territori in cui si sono insediati alzi la testa e scenda in piazza».Rossella Mungiello

DA IL CITTADINO L’ARTICOLO QUI

Le cosche narrate 'in teatri di periferia' I nemici invisibili di Giulio Cavalli.

L’attore teatrale sotto scorta ad Affari: “La ‘ndrangheta a Milano? Per molti non esiste. E io sono minacciato da un nemico invisibile”

Di Francesco Oggiano e Antonio Prudenzano

Giulio Cavalli è uno sfigato. Come chiamare altrimenti uno che deve difendersi da ciò che non esiste? Non è mai vissuto un eroe senza un nemico. Anzi, la sua giustificazione la trova proprio in esso. Ecco, anche per questo Giulio Cavalli è uno sfigato. Se ne sta alla sua scrivania, nel soppalco del suo teatro di periferia, sommerso da una pila di documenti, con gli occhi blu attaccati al Mac, un po’ a navigare su Facebook e un po’ a scrivere i suoi testi.

LA VIDEOINTERVISTA
I TESTI – Già, i suoi testi: quelli che parlano di quello che non c’è. Prima quelli sulla strage dell’aeroporto di Linate, nel 2001; poi quelli sui turisti sessuali italiani; infine quelli sulla mafia, portati sul palco prima con “Do ut des – riti e conviti mafiosi”, del 2006, e poi con “A cento passi dal Duomo”, che ha debuttato lo scorso ottobre al Teatro della Cooperativa di Milano. Giulio Cavalli è uno sfigato perché in prima serata non reggerebbe neanche mezz’ora. Lui, con le sue parole, non solletica neanche un po’ la pancia dello spettatore. Non mette in scena boss, non recita baciamani, non descrive tavole imbandite per padrini. Piccolo, curvo e misurato, ogni sera vomita sul palco fatturati e cda, noli a freddo e movimento terra, appalti truccati e finanziarie lussemburghesi. Raccoglie i dati, li analizza e ne ricava scenari. Proprio per questo, dallo scorso aprile si è visto affidare una scorta dei carabinieri.

cavallivideo2IL TEATRO – Ma Cavalli è uno sfigato anche perché, pur educatissimo, non ci sa fare con i giornalisti. Ancora immerso nella sua pila di libri, con il suo mouse, le sue scarpe sporche, la sua sigaretta fatta a mano e il suo soppalco, finalmente leva gli occhi dal Mac e li indirizza verso i cronisti andati a trovarlo: “Sapete che non ho ancora capito che cazzo volete fare?”. Un’intervista, è la risposta. Accetta, spegne la sigaretta e li conduce di sotto, nel suo teatro, quello di periferia, vuoto. Apre il sipario, accende le luci e un’altra sigaretta.

“LA MIA VITA IDENTICA A PRIMA” – Quindi archivia subito la pratica che pesa, quella di cui tutti parlano: “La scorta è un fatto puramente tecnico, non è una medaglia. Una persona viene considerata bisognosa di una tutela da parte dello Stato affinché possa continuare senza rischi la sua attività professionale. La mia vita è identica a prima. Non ho ansie e non ho paure”. Però Cavalli una paura ce l’ha: dentro di sé odia il fatto che quel che dice possa acquistare spessore solo perché ha quattro carabinieri al fianco. “L’Italia è piena di persone sotto tutela: di magistrati, pm, giornalisti. Le persone che hanno più paura lo sai chi sono? Sono i pentiti di mafia, che hanno trattato una buonuscita con lo Stato e che si spostano con cinque poliziotti alle calcagna”.

“LA DIFFERENZA TRA ME E SAVIANO” – Il paragone, tuttavia, è inevitabile: “La differenza tra me è Roberto Saviano è tra raccontare storie e raccontare le nostre storie. A me non interessa raccontare la mia esperienza. Non è simbolica, non fregherebbe niente a nessuno. Roberto avrà accettato i consigli che gli hanno fatto ritenere giusto e intelligente raccontare l’ombra che le storie che ha raccontato proiettano sulla sua vita”.

LA ‘NDRANGHETA A MILANO – Cavalli è uno sfigato perché si appassiona a quello che non c’è. Lui non parla di Camorra, di Stidda o di Cosa Nostra. No: a lui interessa la ‘ndrangheta. E nemmeno la consorteria attiva in Calabria. No. Lui mette in scena le cosche attive nel Nord Italia, in particolare a Milano e provincia: “Racconto quarant’anni di mafia perché li ritegno dignitosamente drammaturgici. E soprattutto descrivo il negazionismo patetico di una parte politica di Milano, la milanesità come impermeabilità. Credo che la parola può far male allo stesso modo di un’inchiesta”.

QUEL RAPPORTO ADULTERO MAFIA-POLITICA – Eccolo, il teatro civile dello sfigato. Quasi un atto di lesa maestà contro le ‘ndrine e soprattutto contro i politici e gli imprenditori collusi. Perché, spiega, “la mafia in sé è poco credibile. È stomachevole nelle forme e nei contenuti. La potenza di cui si riveste e il controllo dei territori che ha ottenuto li deve a persone molto credibili che hanno deciso di accettare questo rapporto adultero. In Lombardia c’è una colpa che ha delle radici prettamente culturali. E per questo va fatto un lavoro culturale”.

cavalli

IL FIUME CARSICO DELLA ‘NDRANGHETA – Un lavoro che, come primo atto, deve radere al suolo i luoghi comuni: “Basta con questa balla di una ‘ndrangheta formata da quattro bovari emigrati con le valigie di cartone al Nord Italia. La mafia calabrese ha un’umiltà fantastica. Pensa solo a questo: quando quegli imbecilli di Riina e Provenzano progettavano l’attentatuni (l’attentato che costò la vita al giudice Giovanni Falcone, a sua moglie Francesca Morvillo e ai tre uomini della scorta, ndr), le cosche calabresi fissavano i prezzi della droga del cartello di Medellìn. Altra differenza: Cosa Nostra è voluta diventare una Spa. Sognava una vera e propria struttura simile a un consiglio d’amministrazione, con quei quattro neuroni che si ritrovava. La ‘ndrangheta, più furba, si è comportata come un fiume carsico e ha arginato il fenomeno del pentitismo grazie alla sua struttura familiare, ottenendo molto più credito di fiducia nei confronti delle altre organizzazioni”.

L’ATTIVISMO ‘PASSIVO’ – Cavalli rifiuta l’attivismo ‘passivo’. “Delegare le responsabilità alla politica e ai politici è uno dei gesti più pavidi che esista. Li vedo questi giovani attivisti. Non capiscono che i politici decidono in base alle pressioni che gli pervengono e che possono spostare voti. Ormai dagli atti risulta che gli imprenditori milanesi non hanno più bisogno di essere minacciati. Accettano di buon grado di sottostare alle condizioni dei mafiosi, anche perché ne ricavano un vantaggio”.

UNA BATTAGLIA DI MEMORIA – Allora l’antimafia diventa una battaglia di memoria. Chi più ne ha più è forte. Certo è dura. In un Paese che non rinuncia al mare di luglio per andare ai funerali di Giorgio Ambrosoli; in un Paese in cui l’allora sindaco di Milano, Paolo Pillitteri, diceva che al “Nord la mafia non esiste”; in un Paese in cui “le intercettazioni sono solo le polluzioni di alcuni magistrati di sinistra”; “in cui si dice che Andreotti è stato assolto e non prescritto”.

IL SORRISO DEL MAGISTRATO BRUNO CACCIA – In un Paese, l’Italia, che non sa, o non vuole ricordare, chi era e com’è morto Bruno Caccia. Magistrato antimafia, è il primo a svelare i legami tra politica, imprenditoria e Cosa Nostra nella città di Torino. Muore ammazzato, una sera di giugno, mentre porta a spasso il cane, la sigaretta ancora in bocca, sotto la luce di un lampione, nel centro di Torino. Cavalli termina ogni suo spettacolo dedicandogli un monologo struggente: “Trovo triste un Paese che ha sempre bisogno di eroi”. Accende un’altra sigaretta, tira un paio di volte, socchiude gli occhi. Si concentra. Sta per fulminare i salotti buoni della società civile: “Concordo con chi sostiene che in Italia per fare la battaglia antimafia ci vorrebbe un morto eccellente l’anno. Si gioca molto a scovare storie e personaggi cui delegare completamente l’impegno. Vivi o morti, non ci bastano pochi simboli di una battaglia, purché venduti bene. I vari Roberto Antiochia, Beppe Montana… hanno combattuto la mafia allo stesso modo di Falcone e Borsellino”. L’attore fa riferimento alla fiction Il Capo dei Capi, accusata di aver mitizzato la figura di Toto Riina. “Io invece voglio parlare di quella mafia che come un’edera si attacca ai vuoti della politica. Bruno Caccia era un magistrato che l’aveva capito. Che aveva raccontato come la ‘ndrangheta avesse colonizzato il Piemonte, creando un cartello in combutta con Cosa Nostra. Ecco: Bruno Caccia era un magistrato competente, il cui assassinio è stato relegato negli articoli di spalla. Il teatro mi sembra un ottimo modo rendere giustizia a questa persona”.

“E ORA CHE HO BISOGNO MI RITROVO NEL TEATRO DI PERIFERIA” – Ma Giulio Cavalli è uno sfigato anche per un altro motivo. Resta lontano, chissà se per scelta o condizione, dai salotti teatrali. E non basta: gli sputa anche addosso. Ci si accorge di quando Cavalli sta per radere al suolo qualcuno: digrigna i denti, rallenta la parlantina, si protende col busto e lancia un’ultima occhiata all’interlocutore, per assicurarsi che abbia incassato il colpo. Poi passa ad altro: “A ben vedere non mi ritengo neanche un teatrante. Faccio il mio lavoro in un teatro e, se il luogo determina la professione, allora sì: sono un teatrante. Faccio teatro anche al bar, ma non mi ritengo un cameriere. Al momento il teatro italiano è una prostituta che fa la spola tra Camera e Senato. Non so neanche se esiste un teatro civile. Ogni tanto vedo qualcuno che fa l’impegnato. Poi, una volta guadagnatasi la targhetta sul citofono, si riguarda e abbassa i toni. Se il più rivoluzionario è un vecchiaccio mezzo cieco e mezzo e mezzo sordo come Dario Fo, allora…”. Ha il dente avvelenato. Molti teatri di città gli hanno chiuso le porte del suo spettacolo: “Mi sono ritrovato a fare il maggiordomo di funerali pettinati nei grandi teatri ed ero perfetto come portabara. Nel momento in cui io ho avuto bisogno, eccomi qui: mi sono ritrovato nel teatro di periferia”. Un vero e proprio sfigato.

DA AFFARI ITALIANI

http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/giulio_cavalli_cento_passi_duomo_mafia_milano241109.html

No alla vendita dei beni confiscati. Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra

FIRMA L’APPELLO

niente_regaliTredici anni fa, oltre un milione di cittadini firmarono la petizione che chiedeva al Parlamento di approvare la legge per l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie. Un appello raccolto da tutte le forze politiche, che votarono all’unanimità le legge 109/96. Si coronava, così, il sogno di chi, a cominciare da Pio La Torre, aveva pagato con la propria vita l’impegno per sottrarre ai clan le ricchezze accumulate illegalmente.

Oggi quell ‘impegno rischia di essere tradito. Un emendamento introdotto in Senato alla legge finanziaria, infatti, prevede la vendita dei beni confiscati che non si riescono a destinare entro tre o sei mesi. E’ facile immaginare, grazie alle note capacità delle organizzazioni mafiose di mascherare la loro presenza, chi si farà avanti per comprare ville, case e terreni appartenuti ai boss e che rappresentavano altrettanti simboli del loro potere, costruito con la violenza, il sangue, i soprusi, fino all’intervento dello Stato.

La vendita di quei beni significherà una cosa soltanto: che lo Stato si arrende di fronte alle difficoltà del loro pieno ed effettivo riutilizzo sociale, come prevede la legge. E il ritorno di quei beni nelle disponibilità dei clan a cui erano stati sottratti, grazie al lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura, avrà un effetto dirompente sulla stessa credibilità delle istituzioni.

Per queste ragioni chiediamo al governo e al Parlamento di ripensarci e di ritirare l’emendamento sulla vendita dei beni confiscati.
Si rafforzi, piuttosto, l’azione di chi indaga per individuare le ricchezze dei clan. S’introducano norme che facilitano il riutilizzo sociale dei beni e venga data concreta attuazione alla norma che stabilisce la confisca di beni ai corrotti. E vengano destinate innanzitutto ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia i soldi e le risorse finanziarie sottratte alle mafie. Ma non vendiamo quei beni confiscati che rappresentano il segno del riscatto di un’Italia civile, onesta e coraggiosa. Perché quei beni sono davvero tutti “cosa nostra”

don Luigi Ciotti
presidente di Libera e Gruppo Abele


Tra i primi firmatari:  Andrea Campinoti, presidente di Avviso Pubblico – Paolo Beni, presidente Arci – Vittorio Cogliati Dezza, presidente Legambiente – Andrea Olivero, presidente ACLI – Guglielmo Epifani, segretario CGIL –  Luigi Angeletti, segretario UIL – Francesco Miano, presidente Azione Cattolica – Filippo Fossati, presidente UISP – Marco Galdiolo – presidente US Acli, Paola Stroppiana e Alberto Fantuzzo, presidenti del comitato nazionale Agesci – Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della Pace – Loretta Mussi, presidente di “Un ponte Per” –  Michele Curto, presidente di FLARE (Freedom, Legality and Rights in Europe) – Michele Mangano, presidente Auser –  Doriano Guerrieri, presidente nazionale CNGEI – Gianpiero Calzolari, Presidente di “Cooperare con Libera Terra” – Oliviero Alotto, presidente di Terra del Fuoco – Giuseppe Gallo, segretario generale FIBA Cisl – Don Nandino Capovilla, coordinatore Pax Christi – Giuliana Ortolan, Donne in Nero di Padova – Giulio Marcon, portavoce campagna Sbilanciamoci – Aurelio Mancuso, presidente Arcigay – Lucio Babolin, presidente CNCA – Fabio Salviato, presidente di Banca Etica – Mario Crosta, Direttore Generale di Banca Etica, Giuseppe Gallo, segretario generale FIBA Cisl –  Tito Russo, coordinatore nazionale UDS (Unione degli Studenti), Claudio Riccio, referente Link-coordinamento universitario, Sara MartiniEmanuele Bordello – presidenti FUCI, Giorgio Paterna, coordinatore Unione degli Universitari – Umberto Ronga, Movimento Eccesiale di Impegno Culturale.

E inoltre: Nando Dalla Chiesa, Salvo Vitale, Rita Borsellino, Sandro Ruotolo, Roberto Morrione, Enrico Fontana, Tonio Dell’Olio, Pina Picerno, Francesco Forgione, Luigi De Magistris, Raffaele Sardo, David Sassoli, Francesco Ferrante, Rita Ghedini, Petra Reski, Esmeralda Calabria, Vittorio Agnoletto, Vittorio Arrigoni, Giuseppe Carrisi, Jasmine Trinca, Yo Yo Mundi, Sergio Rubini, Modena City Ramblers, Gianmaria Testa, Libero De Rienzo, Livio Pepino, Elio Germano, Subsonica, Vauro, Claudio Gioè, Roberto Saviano, Daniele Biacchessi, Giulio Cavalli, Elisabetta Baldi Caponetto, Moni Ovadia, Ottavia Piccolo, Giancarlo Caselli, Ascanio Celestini, Alberto Spampinato, Salvatore Borsellino, Federica Sciarelli, Haidi Giuliani, Fausto Raciti, Francesco Menditto, Antonello Ardituro, Benedetta Tobagi, Il Coro dei Minatori di Santa Fiora, Simone Cristicchi, Roberto Natale, Agnese Moro, Tana De Zuleta, Lella Costa, Armando Spataro, Maurizio Ascione, Nicola Tranfaglia, Franco Cassano, Marco Delgaudio, Carlo Lucarelli  …

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COMUNICATO STAMPA AVVISO PUBBLICO

Nel pomeriggio di oggi, nell’ambito del maxi emendamento presentato dal governo alla Legge Finanziaria, l’Aula del Senato ha approvato a maggioranza il provvedimento che introduce la possibilità di vendere i beni confiscati alla criminalità mafiosa (Emendamento 2.3000, relatore Maurizio Saia, PDL).

Il nuovo provvedimento stabilisce che se trascorsi i 90 giorni che devono intercorrere tra la data della confisca e quella dell’assegnazione – previsti dalla legge 575/65 – i beni non sono stati assegnati, essi possono essere venduti.

La competenza viene affidata al dirigente del competente ufficio del territorio dell’Agenzia del demanio che dovrà espletare il procedimento di vendita entro sei mesi. In questo modo la competenza in materia di beni confiscati passa dal Ministero dell’Interno al Ministero dell’Economia, per evidenti ragioni di natura economico-finanziaria: le risorse incamerate dalla vendita andranno a finanziare i bilanci del Ministero degli Interni e del Ministero della Giustizia.

Il dirigente del competente ufficio dell’Agenzia del demanio – secondo quanto previsto dall’emendamento approvato – richiede al prefetto della provincia interessata ogni informazione utile affinché i beni non siano acquistati, anche per interposta persona, dai soggetti cui furono confiscati ovvero da soggetti altrimenti riconducibili alla criminalità organizzata.

L’Aula del Senato ha approvato a maggioranza due emendamenti proposti dall’opposizione (Emendamento n. 2.3000/35 e n. 2.3000/36), in base ai quali si prevede che il dirigente del competente ufficio dell’Agenzia del demanio deve obbligatoriamente tenere conto del parere del Commissario straordinario per la gestione e la destinazione dei beni confiscati alle organizzazioni mafiose e del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.

Secondo il Presidente di Avviso Pubblico, dottor Andrea Campinoti e il Coordinatore del gruppo di lavoro dell’Associazione sul tema dei beni confiscati, Cosmo Damiano Stufano, il provvedimento approvato oggi al Senato indebolisce la lotta alle mafie in quanto genera uno stravolgimento inaccettabile di quanto previsto dalla legge 646 del 1982 – Legge Rognoni – La Torre, pagata con la vita da Pio La Torre – e del principio di utilizzo sociale dei beni sottratti alla criminalità organizzata previsto dalla legge 109/96.

La legge 109/96 è stata la prima legge di iniziativa popolare contro le mafie, votata dal Parlamento all’unanimità, sostenuta dalla raccolta di un milione di firme di cittadini a suo tempo curata dall’Associazione Libera.

Confiscare i beni ai mafiosi e utilizzarli per finalità di carattere sociale è fondamentale se si vuol portare avanti una seria e concreta lotta alle mafie da parte di uno Stato credibile e autorevole. Fondamentale perché si sottrae quella ricchezza illecita e quel consenso sociale che sono due pilastri portanti della forza e della prepotenza mafiosa.

L’uso sociale dei beni confiscati è uno strumento formidabile di grande valore e impatto simbolico, utile sia per costruire un tessuto sociale e istituzionale capace di riconoscere realmente i diritti dei cittadini, liberandoli dall’oppressione mafiosa, sia per porre le basi di uno sviluppo economico legale concreto, come testimonia il lavoro delle Cooperative sociali del circuito Libera – Terra.

La vendita dei beni confiscati alle cosche, così come prevista dal provvedimento approvato oggi al Senato, non garantisce pienamente che ad impossessarsene non saranno più i mafiosi. È notorio, infatti, come da tempo queste organizzazioni criminali, dotate di ingenti risorse finanziarie, si avvalgano di prestanome incensurati per infiltrarsi nel tessuto economico-produttivo-finanziario legale: questo non solo nel Mezzogiorno ma a livello nazionale.

Avviso Pubblico ritiene che un concreto sostegno economico-finanziario alla magistratura e alle Forze dell’ordine può derivare da un serio contrasto alla corruzione, alle mafie e all’evasione e all’elusione fiscale, non dalla vendita dei beni confiscati alla criminalità organizzata.

In tema di beni confiscati è necessaria la costituzione di un’apposita Agenzia nazionale che si occupi in modo specifico della materia, riducendo sensibilmente i tempi che intercorrono tra la fase di sequestro, confisca, assegnazione e destinazione dei beni, favorendone il loro uso sociale, così come dichiarato anche nel Manifesto finale di Contromafie 2009.

Avviso Pubblico si dichiara contraria alla scelta legislativa approvata oggi dal Senato e chiede che alla Camera dei deputati il provvedimento sia ritirato. Affinché questo si realizzi l’Associazione si mobiliterà pubblicamente nelle forme e nelle sedi che riterrà più opportune.

Andrea Campinoti
Presidente di Avviso Pubblico

Cosmo Damiano Stufano
Coordinatore Gruppo di lavoro su
beni confiscati di Avviso Pubblico

Domenica 29 novembre Giulio Cavalli con Carlo Lucarelli a POLITICAMENTE SCORRETTO

Dal 27 al 29 novembre 2009, torna a Casalecchio di Reno la sfida civile di Politicamente Scorretto.
Dibattiti, testimonianze, reading, proiezioni, laboratori, bookshop per affrontare le vicende più oscure della nostra storia con la sola arma della cultura.
Tra i partecipanti: Don Luigi Ciotti, Concita De Gregorio, Giulio Cavalli, Lella Costa, Gianrico Carofiglio, Pina Maisano Grassi, Gian Carlo Caselli, Roberto Scarpinato, Claudio Gioè, Alberto Spampinato.
In collaborazione con Carlo Lucarelli e Libera Associazioni, Nomi e Numeri contro le mafie.
Disponibile il programma completo della tre giorni di eventi


Venerdì 27 novembre

Teatro Comunale A. Testoni – ore 9.30

Ha un futuro la memoria?

Incontro con Pina Maisano Grassi (vedova di Libero Grassi)
Introduce Paola Parenti (Presidente Casalecchio delle Culture
Appuntamento riservato agli studenti delle scuole secondarie

Il primo piatto della legalità

Venerdì 27 novembre
Melamangio e Concerta prepareranno per oltre 10.000 bambini e ragazzi di Casalecchio di Reno, Zola Predosa e altri 9 comuni delle provincie di Bologna, Modena e Ferrara, un piatto esclusivamente a base di prodotti di Libera Terra.
In collaborazione con Melamangio e Concerta

Casa della Conoscenza – ore 15.00

A schiena dritta

OSSIGENO-Osservatorio nazionale sui cronisti minacciati e le notizie oscurate
Intervengono: Alberto Spampinato (giornalista, fondatore di Ossigeno), Roberto S. Rossi (giornalista, autore del documentario Avamposto sui giornalisti minacciati in Calabria), Mauro Sarti (giornalista e docente).
Workshop sui temi dell’informazione e del giornalismo civico, a cura di Blogos Web Radio e TV
Materiali di approfondimento disponibili sul sito web del Blogos
Iscrizione gratuita obbligatoria (051.598243 – info@casalecchiodelleculture.it)

Sabato 28 novembre

Teatro Comunale A. Testoni – ore 10.30

Rispettare le regole conviene?

Incontro con Giancarlo Caselli
(Procuratore della Repubblica di Torino)
Introduce Paola Parenti (Presidente Casalecchio delle Culture)
Appuntamento riservato agli studenti delle scuole secondarie di II grado

Casa della Conoscenza ore 15.00
Segui la diretta video

Bologna incontra Genova

Intervengono gli scrittori: Bruno Morchio, Antonio Caron, Giampiero Rigosi, Alfredo Colitto, Gianfranco Nerozzi, Silvano Rubino
Coordina: Marco Bettini

A seguire

Sbirri e detectives

Segui la diretta video
Intervengono gli scrittori e giornalisti: Carlo Bonini, Piergiorgio Di Cara, Simona Mammano, Giacomo Gensini, Michele Giuttari.
Coordina: Carlo Lucarelli

A seguire

Cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria di Casalecchio di Reno a Carlo Lucarelli

Intervengono: Simone Gamberini (Sindaco di Casalecchio di Reno), Antonella Micele (Presidente del Consiglio comunale)

ore 21.00
Segui la diretta video

Ce ne ricorderemo di questo maestro
Tributo a Leonardo Sciascia a vent’anni dalla scomparsa

Reading in musica a cura di Elisa Dorso e Ilaria Neppi
Interventi musicali di Carlo Lojodice e Guido Sodo
con la partecipazione straordinaria di Rita Botto Letture di: Bruno Cappagli, Michele Collina, Alfonso Cuccurullo, Giacomo Gensini, Claudio Gioè, Carlo Lucarelli, Bruno Morchio, Simona Mammano e altri…

Domenica 29 novembre

Segui la diretta video
Casa della Conoscenza ore 10:30

Musica contro le mafie

Dialogo in diretta video tra Politicamente Scorretto – Casalecchio di Reno (Bo) e MEI – Meeting Etichette indipendenti – Faenza (Ra)
Intervengono: Salvatore De Siena (Il Parto delle Nuvole Pesanti), Daniele Comberiati (scrittore), Massimo Ghiacci (Modena City Ramblers), Danilo Chirico (scrittore e fondatore Stop ‘Ndrangheta), Lucariello (musicista, autore di “Cappotto di Legno”), Loris Mazzetti (giornalista Rai)
Coordina Marco Ambrosi (Ramsazizz)

A seguire

Un appello Politicamente scorretto

Intervengono: Roberto Alfonso (magistrato), Anna Canepa (magistrato), Gianrico Carofiglio (scrittore e parlamentare), Giulio Cavalli (attore), Don Luigi Ciotti (presidente Libera), Concita De Gregorio (direttore de L’Unità), Claudio Gioè (attore), Pierluigi Sacco (docente di economia della cultura)
Coordina: Carlo Lucarelli

ore 15,00

Cultura? Un bene confiscato

Intervengono: Lella Costa (attrice), Carlo Degli Esposti (produttore televisivo), Antonio Maruccia (Commissario straordinario del Governo ai beni confiscati), Carlo Lucarelli (scrittore), Sabrina Cocco (progetto MOMArt di Bari)
Coordina: Santo della Volpe (giornalista RAI)

A seguire

Anteprima nazionale del documentario
Sconzajuoco

Intervengono: Pina Maisano Grassi (vedova di Libero Grassi), Giada Li Calzi (Direttore Fondazione Progetto Legalità), Roberto Scarpinato (magistrato), Serena Uccello (giornalista Il Sole 24ore)
Coordina: Carlo Lucarelli
In collaborazione con Fondazione Progetto Legalità
In memoria di Paolo Borsellino e di tutte le altre vittime della mafia, Associazione Oltrecittà di Marsala, Zerocento e con il patrocinio del Ministero dell’Interno

E inoltre
Sabato 28 e domenica 29 novembre
Atrio di Casa della Conoscenza

Il Bookshop
Il mercato di LiberaTerra

Il giullare antimafia: "Adesso siete collusi…"

Il coinvolgente spettacolo di Giulio Cavalli, che al teatro Nuovo ha raccontato come la mafia stia conquistando silenziosamente le nostre città lombarde. Fuori i nomi, e le facce, anche quelle, tutte sbattute sul palco, con le date, i numeri, e le accuse. So i colpevoli ma non ho le prove, diceva Pasolini. Giulio Cavalli, il teatrante che si cupa di mafia, porta invece proprio le prove: atti giudiziari, trasformati in recital; dice tutto e non omette nulla. E’ difficile in uno spettacolo teatrale, parlare della mafia, non quella epica siculoamericana, ma quella imprenditoriale, delle periferie milanesi, di gente che controlla cantieri, movimento terra, subappalti, che fa i soldi minacciando sotterraneamente sindaci e consiglieri  comunali o, come accadeva a Lonate Pozzolo, che instaura un regime di terrore nei confronti dei bar, delle piccole attività del paese, le violenta con l’intimidazione, e poi prepara il terreno alla conquista del mercato, con metodi da guerriglia.
Non è facile fare teatro così, e infatti, lo spettacolo «A cento passi dal duomo», realizzato da Giulio Cavalli, coautore Gianni Barbacetto, musica (stupenda) di Gaetano Liguori,  a tratti è difficile da seguire. Giulio Cavalli però è bravo e coraggioso, recita con passione e convince, sa rendere il clima di quello che dice, e sono dati, nomi, facce, persino, di mafiosi della ‘ndrangheta. sarà forse per questo che lo minacciano.
La sala del Cinema Nuovo, in viale dei mille, giovedì’ sera era piena, come non accadeva da tempo, dicono Giulio Rossini (Filmstudio 90) e Antonella Buonopane (Libera). Per l’appuntamento varesino dello spettacolo (nella rassegna Un posto nel mondo), in prima fila, c’erano gli agenti della questura di Lodi, la città dell’artista, 32 anni, che solo per aver messo in scena i nomi delle cosche, basandosi sui documenti giudiziari, è tenuto sotto la minaccia di attentati, costante. Eppure, «anche la mafia ha paura se arriva a minacciare Arlecchino» ha detto Cavalli in una recente intervista. La tesi dello spettacolo è che al Nord, a Milano, si fa ancora finta di non capire che la mafia esiste; anzi, che Milano è quasi una capitale, una grande lavanderia, e che le «famiglie» hanno colonizzato il territorio. Si parla di Sindona (appare sullo schermo una scritta, una dichiarazione del banchiere,  sul legame tra la mafia e una piccola banca in via Mercanti), di Calvi, dell’onestà del commissario liquidatore della banca privata Giorgio Ambrosoli, e della moralità del magistrato torinese Bruno Caccia, ucciso nel 1983, per le sue inchieste, contro i «picciotti».
La mafia c’è: Buccinasco, Corsico, Milano centro. Vengono i brividi a sentire i nomi che sono corsi nelle inchieste della squadra mobile di Varese, o della procura di Busto Arsizio. E Cavalli cita gli omicidi nei bar, Giuseppe Russo, ammazzato a Lonate, mentre giocava al videopoker, «sparato in faccia, tre volte», il 27 novembre 2005. E cita Modesto Verderio, il leghista, ex assessore provinciale, che ai carabinieri, testimoniò alla magistratura, alla direzione distrattale antimafia, che una cosca stava minacciando l’intero paese. Cavalli lo cita: l’inchiesta «bad boys», gli arresti, il legame con i Farao Marincola, san Cataldo, il santo calabrese, che scalzò Sant’Ambrogio.  Una metafora che strappa anche sorrisi, ma c’è poco da ridere. «Adesso siete collusi – dice alla fine dello spettacolo – …con la dignità».
20/11/2009
Roberto Rotondo

DA VARESENEWS L’ARTICOLO QUI

Al via la quinta edizione di "Politicamente scorretto" a Casalecchio. La rassegna è dedicata alla mafia vista attraverso le pagine della letteratura

C´è un forziere, uno scrigno pieno di soldi pronto a finanziare teatri in crisi, rassegne senza fondi e assessorati dai portafogli vuoti. Sulle tracce del tesoro c´è Carlo Lucarelli, il giallista, lo scrittore che ha raccontato in televisione i misfatti irrisolti della storia italiana. La prossima settimana, in occasione di «Politicamente scorretto», la mafia vista attraverso le pagine della letteratura nella quinta edizione della rassegna organizzata dalla Casa delle Culture di Casalecchio (dal 27 al 29 novembre), sarà lui a lanciare un appello ad utilizzare i soldi confiscati alla mafia per finanziare la cultura nell´Italia di oggi, sempre più avara nel sostenerla.

«Tutte le volte che nel nostro Paese c´è un momento di crisi – spiega Lucarelli – la prima cosa che si fa è quella di tagliare i finanziamenti alla cultura. Tutti, in questo settore, dicono che sia naturale fare così, mentre in altri mondi produttivi ogni taglio scatena proteste ferocissime». Da qui, l´invito a vedere la cultura come una produzione italiana, motivo d´attrazione per il resto del mondo, `prodotto´ importante tanto quanto quelli dei settori industriali o artigianali. «La cultura fa occupazione, fa girare la ricerca scientifica – prosegue Lucarelli – . La consapevolezza del bello è un antidoto contro il degrado delle nostre città».

Domenica 29 novembre, in mattinata, alla Casa delle Conoscenze, Carlo Lucarelli mostrerà i punti della proposta in un incontro che vedrà la partecipazione di don Luigi Ciotti, Concita De Gregorio, Giulio Cavalli e Giancarlo Carofiglio. Ma l´appello, dal titolo «Nei forzieri della mafia, un tesoro per la cultura», ha già raccolto numerose adesioni, circa duemila in poche settimane di pubblicazione sul sito www. politicamentescorretto. org. Lo hanno firmato, tra gli altri, Vincenzo Cerami, Alessandro Bergonzoni, Alessandro Baricco, Lella Costa, Marcello Fois, Sergio Staino, Mimmo Calopresti e Ottavia Piccolo, oltre a molti giornalisti e magistrati.

Ci sono precedenti avviati con successo a cui si rifà l´idea di Lucarelli: la Casa del jazz di Roma, per esempio, ospitata in una palazzina che fu di boss mafiosi, o le terre in Sicilia e in altre regioni del sud Italia che, confiscate alle organizzazioni criminali, accolgono oggi le aziende agricole aderenti alla rete «Libera» di don Ciotti. «Vendere i terreni e le ville dei mafiosi e coi soldi ricavati finanziare la cultura potrebbe essere un´operazione rischiosa – è la consapevolezza di Lucarelli – . C´è il pericolo che la mafia si ricompri i suoi beni. Perchè se c´è una cosa che non le manca, sono i mezzi economici e la capacità organizzativa. Ma tra i beni confiscati, vi sono anche soldi veri. E su quelli che si può agire. La cultura nel nostro Paese non è secondaria rispetto ad altre produzioni. E un´arma per sconfiggere la mafia».

E anche per questo suo impegno che nel corso della manifestazione di «Politicamente scorretto» il Comune di Casalecchio conferirà a Lucarelli la cittadinanza onoraria. «Per essere portatore attraverso i linguaggi della comunicazione di una cultura al servizio della verità», recita la motivazione. «Sono contento di fare idealmente da ponte tra il nord e il sud dell´Italia nella lotta alla mafia – conclude Lucarelli – . Qualche mese fa, infatti, ho ricevuto dal Comune di Corleone, in Sicilia, un´altra cittadinanza onoraria».
(21 novembre 2009)

http://bologna.repubblica.it/dettaglio/lucarelli-e-il-tesoretto-dei-boss-diamo-quei-soldi-alla-cultura/1784733

Linate secondo Giulio Cavalli

Giulio Cavalli è un attore teatrale che si districa in modo eccellente tra i temi della mafia, che lo ha condannato a morte costringendolo a vivere sotto scorta dopo lo spettacolo «Do ut des» in cui ridicolizzava cosa nostra e i suoi riti, e il grande teatro civile impegnato nella ricerca della verità di cui il nostro Paese molte volte rimane orfano. L’altra sera al teatro Camploy è stata la volta del disastro di Linate, raccontato dall’attore nello spettacolo «Linate. 8 ottobre 2001: la strage», scritto a quattro mani con Fabrizio Tummolillo e arrangiato dalle musiche di Davide Savarè. Uno spettacolo nato grazie alla collaborazione di oltre 20 comuni, tra i quali Verona, che cerca di far luce sull’abnorme tragedia che è costata la vita a 114 passeggeri, tra i quali anche un veronese, e a quattro addetti allo smistamento bagagli al lavoro nel deposito centrato in pieno dal boeing. Una narrazione divisa in due tronconi paralleli: da una parte la fiaba raccontata da nonno Cleto, dell’avioporto di Bengodi, un paese di fantasia che celebrava il suo nuovo porto aereo fatto in fretta e furia da abitanti quali «Lustramarmitte» e «Culodigomma», all’insegna dell’approssimazione e delle leggerezze burocratiche. Dall’altra metà del palco invece l’incubo reale, la tragedia vissuta nei suoi momenti immediatamente precedenti. Cavalli da giullare si fa ora pilota, ora controllore del traffico aereo, ora pompiere in quella mattina in cui la nebbia non consentiva di vedere oltre 100 metri e in cui l’unico mezzo per vedere dall’alto, il radar di terra che in tutti gli aeroporti del mondo segue gli spostamenti degli aereomobili sulla pista, era un ammasso di ferraglia tenuto assieme da semplice spago. E allora eccolo seguire il piccolo Cessna che per errore si immette nella corsia di rullaggio sbagliata, tradito dalla segnaletica insufficiente e che allo stesso momento dava lo stop e il via libera. Poi, con un balzo attraverso le cuffie, lo troviamo sull’altro aereo, quello maestoso, il boeing della Scandinavian Airline diretto a Copenaghen, che mentre sta per prendere il volo verso il cielo plumbeo si trova il piccolo velivolo fermo sulla pista, in perfetta rotta di collisione. Poi l’urto, l’incendio e lo schianto fatale contro il toboga; uno scenario di cui i controllori si accorgono solo dopo mezz’ora l’impatto, in virtù della più totale confusione ed imbarazzante impreparazione. Negli stessi momenti a Bengodi nonno Cleto e «Maria faccia da stria» brindavano all’inaugurazione dell’avioporto, ma i professori che avevano dato il via libera, per sicurezza tornano indietro in treno. E dopo una breve, ultima immersione tra gli atti processuali, l’attore che da circa sei anni deve guardarsi le spalle dai mafiosi offre al pubblico, tra cui sedeva anche il presidente del Comitato 8 Ottobre, Paolo Pettinaroli, la triste verità: a pagare per quelle negligenze e assurde superficialità sono stati solo quei 118 corpi straziati. Per il resto, dopo otto anni, ancora e solo nebbia.

DA http://bennycalasanzio.blogspot.com/2009/11/linate-secondo-giulio-cavalli.html

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19 novembre A CENTO PASSI DAL DUOMO a Varese

In occasione della “Carovana antimafia 2009”, Coop Lombardia e il coordinamento provinciale di Libera propongono il nuovo spettacolo teatrale di Giulio Cavalli “A cento passi dal Duomo”.
La rappresentazione, scritta in collaborazione con il giornalista Gianni Barbacetto, si terrà giovedì 19 novembre alle 21, presso il cinema teatro Nuovo di Varese (via dei Mille 39), e si concentrerà sulla presenza delle famiglie mafiose al Nord. Al pianoforte Gaetano Liguori.

Ascolta si fa serio

Dopo il modello di teatro civile “alla Paolini”, oggi il concetto comprende esperienze e modalità espressive diverse. Roberto Saviano, Giulio Cavalli, Belarus Free Theatre, tre esperienze accomunate dal fatto di rinunciare in vario modo alla raffinatezza dello stile per puntare all’evidenza dei contenuti

Della definizione di “teatro civile” si è a tal punto abusato da farla diventare vagamente stucchevole: ed è un vero peccato, perché questa categoria espressiva, che ha di per sé delle risonanze intellettualmente nobili – un’idea antica di polis, di collettività che si raccoglie attorno ai propri riti comunicativi – contiene al suo interno una varietà di forme e di stili diversi, una vasta gamma di possibili e spesso affascinanti declinazioni. C’è un teatro civile praticato da un solo attore monologante e c’è un teatro civile proposto da interi gruppi, c’è un teatro civile incentrato sul puro racconto e c’è un teatro civile che rappresenta delle vicende di senso compiuto costruite su dialoghi, azioni, personaggi.

Anni fa, dopo il successo del Vajont, si era imposta diffusamente – grazie anche alla bravura e al carisma del suo principale interprete – la tipologia preponderante della narrazione “alla Paolini”, che in qualche modo aveva finito per imporre uno schema, un modello costante che aveva dei ritmi, delle intonazioni, degli argomenti quasi fissi a cui ispirarsi: ed è stato quel modello che a un certo punto, applicato da troppi volonterosi epigoni, ha finito col diventare fatalmente ripetitivo, saturando il mercato. Oggi il concetto, per fortuna, si è esteso, comprende esperienze e modalità espressive diverse, unicamente accomunate dal fatto di rinunciare in vario modo alla raffinatezza dello stile per puntare soprattutto all’immediatezza, all’evidenza dei contenuti.

Così, in virtù di questa ritrovata energia creativa, il cosiddetto teatro civile – nelle sue molteplici articolazioni – sta vivendo un momento di grande vitalità, con un gran numero di proposte che lasciano il segno. Ed è un bene che sia così: non perché l’altro teatro, quello dotato di una più ambiziosa costruzione registica e drammaturgica, abbia in sé qualcosa di sbagliato, anzi anch’esso sta sempre più eliminando gli orpelli, riducendosi all’essenziale, ma perché il confronto, la dialettica tra questi due poli opposti del linguaggio scenico li stimola e li arricchisce entrambi. E il pubblico, in questo momento, ha bisogno tanto di suggestioni artistiche quanto di momenti di più ampia riflessione.

Lo si è colto, ad esempio, dalla prolungata standing ovation che ha accolto, al Teatro Studio di Milano, La bellezza e l’inferno, lo spettacolo scritto e interpretato da Roberto Saviano, e prodotto dal Piccolo Teatro. In senso stretto, si tratta di un teatro civile sui generis, perché l’autore di Gomorra, con una scelta che fa altamente onore al suo bisogno di non irrigidirsi in un cliché ormai scontato – di camorra e malavita organizzata parla di fatto pochissimo, e preferisce illustrare il destino di una serie di personaggi che hanno superato e vinto l’inferno di estreme difficoltà fisiche, psicologiche o ambientali in virtù della loro fede nella bellezza della vita, nella pienezza della creazione artistica, nella necessità di testimoniare una condizione di sofferenza e di disagio dei propri simili o del proprio popolo.

Sfiorando il tema delle cosche soltanto a proposito della comunità nigeriana di Castelvolturno, che ha osato sfidare la violenza dei boss con molta più determinazione di quanto non abbia fatto la cittadinanza locale, lo spettacolo – costruito su articoli e interventi vari dello stesso Saviano – si sofferma dunque soprattutto sui casi esemplari di due ragazze iraniane – Neda Soltani e Tarameh Moussavi – che hanno subito una fine atroce in nome della possibilità di esprimere le proprie idee, dello scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa, ucciso in quanto oppositore del governo e delle multinazionali del petrolio, di un altro scrittore, l’amatissimo Varlam Salamov, sopravvissuto ai gulag staliniani, del calciatore Leo Messi, divenuto un campione a dispetto di una grave forma di nanismo, del pianista jazz Michel Petrucciani, che non ha lesinato il proprio talento malgrado una malformazione che rendeva le sue ossa fragili come vetro.

Saviano, diretto con mano leggera da Serena Sinigaglia, dimostra davvero un’insolita misura: non fa il divo, non si atteggia a tribuno, non cerca a tutti i costi di commuovere, di indignare, di suscitare la reazione più viscerale dello spettatore. Si limita a raccontare delle toccanti storie umane, ragionando su di esse pacatamente, lucidamente, sentitamente, senza inseguire l’attualità più sfacciata, senza sfoggiare proteste o recriminazioni. Persino quando, a titolo dimostrativo, fa girare in platea un autentico Kalashnikov, l’arma preferita da killer e terroristi, invitando gli astanti a passarselo di mano in mano, non compie un gesto retorico, non sembra cercare il facile effetto emotivo, come altri farebbero, ma punta semplicemente sulla scarna, oggettiva eloquenza di quella spietata macchina di morte.

Il suo modo di porsi, ovviamente, non è quello di un attore professionista, e si vede da certe piccole incertezze, da certi impercettibili espedienti per riprendere fiato e ritrovare di volta in volta il filo del discorso. Ma l’intensità dello sguardo che egli posa sulle persone e sulle cose non richiede una tecnica particolare: anzi, la naturalezza, l’assoluta assenza di artificio recitativo conferiscono alle sue parole un’ulteriore carica di autenticità, uno spessore di verità che diventa a tratti abbacinante. A garantire la profondità di questa esigenza di interloquire, ove mai ce ne fosse bisogno, c’è la presenza della scorta che deve accompagnarlo fino in palcoscenico. Si torna a casa, dopo averlo visto, con un inusitato senso di commozione e arricchimento (al Teatro Grassi di Milano dal 16 al 20 febbraio).

Un altro attore costretto a esibirsi sotto scorta è Giulio Cavalli, che però ha uno stile e delle finalità completamente diversi. Poco più che trentenne, dotato di una formazione tradizionale e di un’iniziale inclinazione “giullaresca”, forse mediata dal modello di Dario Fo, da un paio d’anni Cavalli persegue un teatro di informazione e di denuncia, che è passato attraverso lo svelamento dei retroscena del disastro di Linate del 2001 e il tema spinoso della pedofilia e del turismo sessuale per approdare, da qualche tempo a questa parte, a un impegno costante ed esclusivo nell’analisi del fenomeno mafioso e della sua penetrazione nel tessuto economico nazionale.

In un certo senso Cavalli, che dirige il Teatro Nebiolo di Tavazzano – una sala del territorio lodigiano trasformata in un centro dello spettacolo di narrazione e documentazione, dove sta anche nascendo un archivio di testi e di copioni – incarna l’evoluzione più recente e più radicale di questo genere di esperienze: il suo lavoro, più vicino alle inchieste della stampa che agli slanci dell’invenzione artistica, avviene a stretto contatto con giornalisti e magistrati, del cui operato è in qualche modo un sostegno e una prosecuzione. Non a caso il suo ultimo spettacolo, A cento passi dal Duomo, ricavato da un saggio di Gianni Barbacetto e presentato poche settimane fa al Teatro della Cooperativa di Milano, è interamente dedicato alle infiltrazioni dei padrini nei progetti per l’Expo del 2015, e in altre mille attività del capoluogo lombardo e dintorni.

Quello di Giulio Cavalli è un teatro dal severo taglio militante, senza mediazioni o concessioni all’intrattenimento. Esso si basa unicamente sulla nuda cronaca, su un’incalzante concatenazione di avvenimenti loschi e sanguinosi che attraversano la nostra storia da una trentina d’anni a questa parte, dall’assassinio di Giorgio Ambrosoli in poi, e non lascia certo spazio a quel tanto di sentimenti personali – come il tifo adolescenziale per le prodezze di Maradona – che comunque Saviano porta in luce. Il suo scopo non è di suscitare un atteggiamento dialettico, ma di togliere il fiato all’ascoltatore. Se ne esce sgomenti, profondamente impressionati. L’attore manipola con sapienza la sua materia, fa collegamenti, trae conclusioni, lascia in sospeso qualche ipotesi più o meno arbitraria: ma poco importa, fosse vera anche solo la metà di ciò che dice, ci sarebbe veramente da aver paura (il 7 novembre a Bolzano, il 12 novembre a Como, il 19 novembre a Varese).

Ancora diversa è l’idea di teatro civile messa in mostra dal Belarus Free Theatre, un gruppo di attivisti bielorussi che vanno in scena unicamente per far conoscere la drammatica mancanza di libertà e democrazia che affligge il loro Paese: in Discover love, lo spettacolo che ho visto al festival “Vie” di Modena, ad esempio, si occupa della piaga degli omicidi politici e dei sequestri di persona misteriosamente orchestrati dal regime. Non c’è traccia di finezze o abbellimenti in questo impianto narrativo che va dritto al cuore del problema: la vicenda, ispirata a un episodio realmente accaduto, procede lungo il filo del racconto con cui la moglie di una vittima eccellente, l’ex capo del comitato elettorale, Anatoly Krasovski, sequestrato e barbaramente ucciso nel 2000, ricostruisce la sorte del marito.

Lo spettacolo, realizzato con mezzi davvero poveri, ha l’andamento di una romantica storia d’amore: si parte dall’infanzia della donna, un’infanzia simile a tante altre, sul cui sfondo si avvertono però, come attutiti, i segni di un potere cupo, autoritario, si prosegue con l’incontro che segna la sua esistenza, preludio a un matrimonio felice e appassionato. Poi, all’improvviso, il brutale epilogo: una notte l’uomo – insieme con l’amico che lo stava accompagnando – viene inghiottito dal nulla, e su di loro calerà un’invalicabile cortina di silenzio. Diventeranno due nomi in più da aggiungere a una lunga lista di cittadini rapiti e scomparsi, per i quali è in corso una campagna dell’Unione Europea, cui il Belarus contribuisce con le proprie rappresentazioni.
Raramente, credo, mi era capitato di vedere un apparato teatrale così ingenuo e dimesso, così assolutamente ridotto ai minimi termini: la scenografia è di una semplicità disarmante, la recitazione un po’ sommaria, e non c’è margine per una qualsiasi sottigliezza d’invenzione: tutto è spoglio, tutto è focalizzato esclusivamente sull’urgenza di comunicare. Ma è chiaro dall’inizio che questo prevalere del contenuto sulla forma non toglie niente all’efficacia del messaggio, anzi lo rende ancora più vibrante.

La rinuncia alla pura dimensione estetica è compensata dallo struggente bisogno di far sentire la propria voce, l’elementarità dello stile si traduce in un’emozionante continuità fra il teatro e la vita: il vero nucleo dello spettacolo non è l’azione in sé, sono le immagini video delle proteste in una qualche città bielorussa, sono i ceri accesi che accompagnano gli spettatori all’uscita, come in un mesto cerimoniale funebre.

Renato Palazzi

DA LINUS L’ARTICOLO QUI