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Radio Mafiopoli 23 – Salvatore Borsellino e che Stato è stato

Ascolta la 23a puntata: Salvatore Borsellino e che stato è stato

Salvatore Borsellino è uno di quei fiori rari di memoria attiva, di quelli per cui una perdita è soprattutto il dovere di un inizio. Lo incontro che è mattina già matura, nel suo ufficio, dove sorridono in foto suo fratello Paolo insieme a Giovanni Falcone.

Salvatore, in uno stato civile i famigliari delle vittime che sono morte per servire lo stato non dovrebbero avere l’obbligo e l’emergenza di continuare a lottare ma dovrebbero avere il diritto semplicemente di preservarne la memoria. Invece questo con tuo fratello Paolo Borsellino non è successo…

– Non è successo anche perché, purtroppo, quello che si tenta di fare in Italia è di limitare la commemorazione di Paolo, facendola diventare proprio commemorazione, cioè pensando a Paolo come una persona morta. Invece la verità è tutt’altra: io vado tanto in giro in Italia e mi accorgo che la figura di Paolo è una figura ancora estremamente attuale, una figura estremamente viva. La gente la sente proprio come qualcosa che gli manca e che vorrebbe. E allora noi ci siamo dovuti prendere questo compito soprattutto per un fatto: per il fatto che di quella strage non è stata fatta giustizia, cioè non si sa ancora nulla, i processi vengono bloccati e le indagini su alcuni punti chiave come quello dell’agenda rossa [l’agenda su cui Paolo Borsellino segnava gli sviluppi e le ipotesi sulle sue indagini, misteriosamente sparita dalla borsa del giudice prelevata subito dopo l’attentato di via D’Amelio ndr]o del Castello Utveggio non vanno avanti.

E c’è proprio un patto a qualche livello che sancisce che queste cose devono essere dimenticate dall’opinione pubblica. Di queste cose non si deve parlare, le deve coprire il silenzio. A fronte di questo atteggiamento è nostro dovere, dei famigliari di Paolo, cercare di tenere viva nelle persone la memoria che qualcuno invece cerca di occultare.

Secondo te, perché c’è questa sonnolenza di gran parte della società civile, per cui ogni tanto, anche andando in giro parlandone, facendo incontri, ci si accorge che, inconsciamente, la gente sembra che dia per chiuso o per risolto il problema dei colpevoli della morte di Paolo?

– Perché quello che è stato fatto è proprio cercare di fare passare l’assassinio di Paolo e di quei ragazzi che sono morti in via D’Amelio come una strage di mafia. E purtroppo credo che a livello di opinione pubblica si sia abbastanza riusciti in questo intento. Hanno messo in galera un po’ di persone – tra l’altro condannate per altri motivi e per altre stragi – e in questa maniera ritengono di avere messo una pietra tombale sull’argomento. Devo dire che purtroppo una buona parte dell’opinione pubblica, cioè quella parte che assume le proprie informazioni semplicemente dai canali di massa – televisione e giornali – è caduta in questa chiamiamola “trappola” ed è stata, potremmo dire, partecipe inconsapevole di questo disegno. Quello che noi invece cerchiamo in tutti i modi di far capire alla gente – e un certo numero di persone, cioè quelle che assumono informazioni anche dai libri e dalla rete, questa cosa la capiscono sicuramente e c’è anche una forte attività sul voler dire la verità – è che questa è una strage di stato, nient’altro che una strage di stato. E vogliamo far capire anche che esiste un disegno ben preciso che non fa andare avanti certe indagini, non fa andare avanti questi processi, che mira a coprire di oblio agli occhi dell’opinione pubblica questa verità, una verità tragica perché mina i fondamenti di questa nostra repubblica. Oggi questa nostra seconda repubblica è una diretta conseguenza delle stragi del ’92.

Al di là degli esiti processuali (che in realtà non ci sono nemmeno poiché qui si procede per archiviazione) ci sono degli elementi incontrovertibili che fanno credere che ci sia una relazione tra la strage di via d’Amelio e una certa parte di Stato in quel tempo?

– È vero che si procede per archiviazione, ma la gente si dovrebbe rendere conto che archiviazione non vuol dire che una persona o delle persone sono state assolte, ma semplicemente che le indagini non hanno potuto nei tempi necessari arrivare al punto in cui avrebbero dovuto arrivare. E se la gente si andasse a leggere tutti i procedimenti di archiviazione, per esempio di Caltanissetta, che tra l’altro spesso sono archiviazioni magari forzate dal capo della procura – come per esempio nel caso dei Tescaroli come ben si legge nel recente libro “I colletti sporchi” di Tescaroli e di Ferruccio Pinotti – si capirebbe che l’archiviazione non è un’assoluzione e nemmeno significa che le indagini ad un certo punto si sono fermate perché non c’erano elementi. Spesso gli elementi ci sono ma non hanno potuto essere sviluppati a sufficienza oppure addirittura qualcuno ha fatto sì che il processo ad un certo punto venisse bloccato. Quindi gli elementi ci sono sicuramente: basta andare per esempio a leggere negli atti del Processo ‘Borsellino Bis’ la relazione di Gioacchino Genchi quando scrive quale può essere stato l’unico punto da cui può essere stato attivato il telecomando che ha fatto esplodere l’esplosivo preparato in via D’Amelio, basta andare a vedere – sempre nella stessa relazione – quali telefonate sono partite in un senso e nell’altro da Castel Utveggio verso numeri intestati a componenti dei Servizi Segreti, per capire come gli elementi ci sono e sono fortissimi. Basta andare a vedere le fotografie dell’Arcangioli [colonnello dei carabinieri ndr ] che si allontana dalla macchina esplosa con la borsa dell’agenda rossa in mano e chiedere come davanti ad una prova incontrovertibile come questa le indagini siano state nuovamente bloccate per capire come sia evidente come non è che non ci siano elementi sui quali avviare dei procedimenti, ma c’è la precisa volontà di bloccarli nel momento in cui arrivano a toccare certi fili che non devono essere toccati, quando arrivano a certe persone che sono – adesso anche per legge dello Stato, anche se è una legge incostituzionale – intoccabili.

Ho letto quello che hai scritto sul procedimento di archiviazione legato alla vicenda della sottrazione della borsa e mi sono chiesto qual è stata la tua sensazione da famigliare nel vedere la borsa contenente la famosa agenda rossa (una delle memorie più importanti di Paolo) in mano ad una persona che nella fotografia è ritratta con piglio molto sicuro in una situazione assolutamente tragica, in mezzo a cadaveri, con tutto quello che stava succedendo in quel momento: ti ha scoraggiato o ti ha dato nuova linfa per continuare a pretendere la verità?

– In un primo tempo – l’ho anche scritto sul mio sito – è stata di scoraggiamento. Addirittura, scrissi: “non so se riuscirò a resistere a questo ulteriore colpo”. Poi purtroppo mi sono accorto di non potermi permettere questi atteggiamenti, anche se momentanei, perché la gente che mi segue e che segue la mia lotta è rimasta un po’ smarrita rispetto a questa mia affermazione e ha pensato che allora non ci fosse più niente da fare. Io mi sono ripreso immediatamente e ho preso anzi da questa vicenda ulteriore linfa come faccio da sempre. Ormai mi sono imposto un’operazione mentale quasi cosciente: a fronte di questi scoraggiamenti ne adopero i motivi per buttarli dentro la fornace e far sì che producano ulteriore rabbia. Ed è quello che mi è successo anche in questo caso: a fronte di questo ennesimo insabbiamento addirittura in questo caso di una prova assolutamente evidente. Prima tu dicevi che basta guardare la fotografia per vedere con che faccia sicura si muove. È proprio questo che mi fa rabbia, che mi ha provocato prima scoraggiamento e adesso ha aumentato la mia rabbia: l’ambiente in cui si trovava e il fatto che l’Arcangioli si muovesse calpestando cadaveri, camminando in mezzo a pozzanghere di sangue. Questo al contrario è stato adoperato nella sentenza di archiviazione del GUP proprio per giustificare il fatto che si assolveva l’Arcangioli che ha giustificato le dieci versioni diverse sui suoi movimenti e sulle persone a cui avrebbe consegnato la borsa, dicendo proprio che era così sconvolto dall’aver dovuto calpestare pezzi degli agenti della scorta di Paolo e dello stesso Paolo, che in quella condizione non può ricordare. E io credo che basti che una qualsiasi persona guardi l’atteggiamento dell’ Arcangioli che si allontana con passo sicuro guardandosi intorno tranquillamente – forse per verificare se qualcuno lo stesse osservando – per capire che questa motivazione della sentenza è addirittura assurda e che in base a quella motivazione Arcangioli non può essere assolto e non si può bloccare il processo. Io questa motivazione – benché non l’accetto neanche da lui trattandosi di un magistrato – la posso accettare da Ayala, il quale dice di non ricordare se effettivamente quella borsa gli è stata consegnata e se l’ha presa o non l’ha presa. Ma Ayala era anche amico di Paolo e quindi aver dovuto – come ha detto lui – “scavalcare il troncone di Paolo” penso che possa avergli provocato uno shock. Arcangioli in quel caso, guardando le riprese, mi sembra una persona che sta compiendo un’operazione di guerra. In guerra di cadaveri se ne vedono e se ne calpestano, tant’è vero che Arcangioli sembra proprio che stia compiendo una missione che qualcuno gli ha affidato.

Tornando su quell’appunto sull’agenda di Paolo in riferimento all. On. Mancino (secondo cui Paolo Borsellino sarebbe rimasto sconvolto da un incontro con Mancino proprio alcuni giorni prima dell’attentato), tu che idea ti sei fatto? Sapendo che lì è terreno minato…

– Di quell’incontro io ritengo che sia evidente – anche davanti alle giustificazioni puerili di Mancino – il fatto che ci sia stato e che in quell’incontro deve essere successo qualcosa di importante. Mancino adduce delle giustificazioni così puerili, che io chiamerei vergognose più che puerili, dicendo “io non conoscevo fisicamente Paolo Borsellino e quindi non posso ricordare se tra le altre mani che ho stretto ci fosse anche la sua”. Queste sono le frasi ignobili che adopera, come se la mano di Paolo Borsellino fosse una mano qualsiasi quando Paolo Borsellino in quei giorni era una persona della quale tutti erano sicuri che la morte fosse vicina. Che un ministro dell’interno possa non essersi interessato di chi era Paolo Borsellino e possa non aver visto neanche quel giudice che trasportava la bara di Falcone vestito della sua toga e che quindi possa affermare di non conoscerlo fisicamente è veramente una cosa che si può definire puerile, direi anche che si possa definire ignobile che un allora ministro della Repubblica parli in questa maniera nei confronti di un giudice come Paolo Borsellino. Anche le sue giustificazioni addotte tirando fuori quell’agendina in cui non c’è scritto assolutamente nulla per cercare con quella di contrastare l’agenda che io gli avevo presentato dove di pugno di Paolo c’è scritto “ore 19.30 Mancino”. A fronte di una testimonianza autografa di Paolo lui tira fuori da un cassetto un planning qualsiasi dicendo: ecco qui non c’è scritto l’appuntamento quindi io non ho avuto nessun appuntamento con Paolo. In quell’agendina non c’è scritto, e io l’ho vista molto velocemente nella ripresa televisiva, ma ci sono scritte tre righe in tre giorni diversi. Se quella è l’attività di un ministro della Repubblica, che si può concentrare in tre righe scritte in fondo all’agenda per un’intera settimana, penso che tutti devono capire che questa sia una giustificazione di una persona forse in difficoltà e che quindi cerca in qualche maniera di trovare delle prove. Io sono convinto, e tante cose me lo fanno pensare, che in quell’incontro a Paolo abbiano prospettato quella trattativa tra mafia e Stato che adesso sta emergendo in tutta la sua evidenza dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino. E se ne sta parlando in quel processo nascosto che si sta svolgendo a Palermo, proprio sulla trattativa in cui sono imputati il colonnello Mori e tutti i componenti del Ros, che hanno portato avanti questa trattativa per conto dello Stato.

Secondo te il fatto che dalle bombe si sia passati invece ad un’azione mafiosa fatta di decreti o di comunicazione “di distrazione” vuol dire che Loro hanno meno paura? si sentono più impuniti? o noi siamo meno efficaci nella nostra opera di pretesa di legalità e giustizia reale?

– Io penso che faccia parte tutto della stessa strategia, per cui da un lato la cupola mafiosa ha deciso di inabissarsi e quindi di essere meno evidente all’opinione pubblica per tornare allo status quo precedente agli anni Ottanta, quando c’era una connivenza tra stato e mafia che non balzava agli occhi, poi c’è stata la stagione stragista dei corleonesi e a questo punto si è ritornati – ed è stata una scelta ben precisa – alla situazione precedente. In più le persone che oggi detengono il potere sono molto esperte dal punto di vista della comunicazione e dell’impatto sulle persone, perché sono dei maestri a gestire la loro immagine attraverso gli organi di comunicazione che tra l’altro hanno in mano. Sono dei maestri a gestire l’impatto sull’opinione pubblica. La strategia ben precisa è stata – a fronte del fatto che la reazione della coscienza civile rispetto alle stragi di Capaci o di via D’Amelio e a fronte dell’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tutte le altre innumerevoli stragi di Stato che l’hanno preceduta è tale da costringere lo Stato a simulare una reazione e da rendere necessario il prendere, almeno di fronte all’opinione pubblica, dei provvedimenti che poi a poco a poco nei tempi successivi vengono rimangiati – quella di non adoperare più il tritolo per eliminare i giudici ma di eliminarli in maniera ancora peggiore come è stato fatto con De Magistris e come è stato fatto con la Forleo e con Apicella. Proprio perché questo tipo di azione comporta in ogni caso la messa a tacere, l’eliminazione di quella persona che deve essere eliminata. Però non provoca per contro quella reazione dell’opinione pubblica che costringe lo stato a simulare una reazione nei confronti della criminalità organizzata, visto che in effetti una reazione autonoma e una lotta autonoma dello stato nei confronti della criminalità organizzata in Italia possiamo dire a voce alta che non c’è mai stata.

Ti faccio una domanda un po’ scomoda. Falcone diceva che “per combattere la mafia serve non l’impegno straordinario di pochi ma l’impegno ordinario di tutti”. Questo fronte comune dell’antimafia sembra impossibile da realizzare: l’antimafia diventa in qualche caso uno strumento politico, magari per un’opposizione che manca di altri contenuti, e comunque sconta al suo interno alcuni dissapori per questa presunzione di qualcuno di essere il detentore unico dell’antimafia . Tu hai trovato, hai vissuto dinamiche di questo tipo? credi che ci possa essere un momento per cui l’urgenza riesca veramente ad unire tutti?

– Io non so perché mi dici che è una domanda scomoda: questo è quello che io ho sempre pensato. Il fatto è che nelle organizzazioni antimafia da un lato si insinua della gente che cerca di sfruttare questo filone anche per le proprie mire personali e dall’altro ci sono delle vere e proprie infiltrazioni nell’organizzazione antimafia di gente che arriva esattamente dall’altro lato. Faccio l’esempio del consigliere di Francesco Messina Denaro – il signor Vaccarino – che nonostante sia stato condannato a nove anni per traffico di droga sta cercando di rifarsi una verginità e addirittura di infiltrarsi, di porsi come una persona che fa parte di organismi antimafia e che promuove delle organizzazioni antimafia. Questa persona l’ho addirittura querelata perché ha cercato di infangare la memoria di mio fratello dicendo addirittura che Paolo si era presentato in carcere tre giorni prima di morire dicendo che su di lui si era sbagliato e che quindi l’avrebbe fatto mettere in libertà, cosa assolutamente assurda per un giudice come Paolo fare un’azione del genere, tant’è vero che poi ho cercato di documentarmi andando a cercare proprio nell’unica sua agenda che ci è rimasta, l’agenda grigia, e ho visto come nei movimenti di Paolo in quei giorni non sia assolutamente menzionata una visita alle carceri dove era detenuto questo personaggio. In più io ritengo che ci siano delle organizzazioni antimafia di grandi dimensioni e, io non ho paura di parlare, faccio riferimento a Libera, che potrebbero fare molto di più. Libera si presenta come l’associazione di tutte le associazioni antimafia. Io dico: non sono neanche stato invitato l’anno scorso a Bari alla manifestazione nazionale antimafia. Probabilmente non ci sarei andato proprio perché quando queste organizzazioni assumono queste dimensioni forse non fanno abbastanza attenzione a guardare chi viene invitato e se le persone invitate sono degne di stare lì dove si manifesta contro la mafia. Le posizioni che assumo da un po’ di tempo necessariamente devono andare non contro le istituzioni, ma contro chi le occupa, perché io ritengo che il più grosso vilipendio alle istituzioni sia il fatto che certe persone non degne di occupare quelle istituzioni, le occupano. Allora il fatto che io debba necessariamente, per forza di cose, per quelle che sono le mie convinzioni sulla strage del ’92, andare ad attaccare delle persone che occupano le istituzioni viene visto da certe organizzazioni come qualche cosa di dirompente, qualcosa che non può essere mostrato. E di conseguenza io non sono stato invitato a quella manifestazione ed è successo un caso quest’anno quando dopo essere stato invitato a Crema – non mi ricordo se Crema o Cremona – a parlare nell’ambito della Carovana Antimafia è arrivato il volantino senza il mio nome. Probabilmente perché non ero abbastanza presentabile, proprio per questo mio atteggiamento. Io credo che queste cose fanno veramente pensare: forse ad un certo punto le organizzazioni antimafia quando crescono troppo devono salvaguardare certi equilibri e io queste cose le ho dette anche recentemente ad un incontro che ho avuto con Nando Dalla Chiesa, e l’ho detto in maniera franca. Io mi aspetterei da Libera che assuma certi atteggiamenti molto più forti in certe situazioni a fronte di certi fatti che accadono in Italia, invece siamo sempre i soliti: io, Sonia Alfano, Benny Calasanzio, l’organizzazione Dei Georgofili, che assumono atteggiamenti netti e decisi. Non voglio dimenticare anche mia sorella, tant’è vero che non mi risulta che mia sorella attualmente sia in rapporti idilliaci con Libera.

Non ti capita mai di sentirti solo in questa battaglia?

– Ma io, probabilmente per il fatto che vado tanto in giro e incontro tanti giovani e tante persone che della lotta alla mafia hanno fatto un loro impegno ben preciso e costante – e io vengo invitato in tutta Italia non sicuramente dalle istituzioni ma da gruppi autonomi di ragazzi, da ragazzi dei licei, ragazzi delle scuole, dai meet up di Grillo – mi sento meno solo, cosa che forse se non avessi questi incontri costanti con questo tipo di persone probabilmente mi potrebbe succedere.

Quale potrebbe essere il consiglio che ti sentiresti di dare alla gente che vive di televisione , alla gente che ogni 19 luglio prova una commozione autentica nel vedere al TG, se lo faranno quest’anno, il servizio sulla morte di Paolo? Qual è lo scatto che manca per avere veramente una nuova partigianeria, nel senso di prendere in modo deciso e netto e intellettualmente onesto una parte?

– Guarda, quando faccio questi incontri con i giovani e anche con gli adulti alla fine qualcuno mi viene a dire: “mi sono commosso”. Io forse in maniera troppo brusca gli dico che se si è commosso allora io non sono riuscito a fare quello che intendevo fare. Perché io in questi incontri con la gente intendo far indignare le persone, intendo fargli suscitare una rabbia contro quello che è lo stato del nostro paese. Quello che invece qualcun altro vuole fare è proprio di limitare le memorie di Paolo alla commozione una tantum in occasione delle cerimonie di commemorazione o altro. Questo è quello contro cui mi ribello, questa è una ben precisa strategia e proprio a fronte di questo io ho organizzato questa manifestazione quest’anno in via D’Amelio il 19 luglio per impedire che la gente vada lì a commuoversi, per impedire che i soliti avvoltoi vengano lì a celebrare la morte di Paolo Borsellino. Il consiglio che posso dare alla gente è quello di spegnere la televisione e di non leggere i giornali e invece di informarsi in maniera autonoma come infatti per fortuna fanno oggi tanti giovani. È vero che esiste anche la massa di giovani che guarda il Grande Fratello e purtroppo questo mi viene detto da quei giovani impegnati che incontro, dicono di sentirsi certe volte un po’ isolati perché cercano di diffondere queste cose e si sentono rispondere: “no guarda che devo registrare il Grande Fratello”. Purtroppo è vero che questo problema esiste, però io dico che nelle nuove generazioni soprattutto c’è una tendenza a non accettare questa informazione così come viene propinata per cercare di addormentare l’opinione pubblica, per addormentare le menti, e a cercare invece di informarsi direttamente. Il consiglio che posso dare alla gente è proprio questo: leggere, leggere il più possibile, informarsi in maniera autonoma e quindi in questa maniera conoscere quella che è la verità. Poi certe cose verranno autonomamente, verranno come diretta conseguenza del fatto che la gente sa, che la gente conosce. Io mi accorgo che c’è una grossa ignoranza in giro, c’è la strategia di fare dimenticare, addirittura di cancellare le nostre memorie, che è quello che viene fatto: si cerca di cancellare la memoria della Resistenza, si cerca di cancellare la stessa Costituzione o per lo meno di stravolgerla. La strategia, purtroppo, è una strategia che sta dando i suoi frutti e che in questo momento purtroppo è vincente. Bisogna incitare la gente a reagire a questa strategia, a non perdere la propria memoria, a informarsi. Quando vado in giro a parlare oggi di agenda rossa e di Castel Utveggio spesso la gente rimane stupita. Mi confessa di non conoscere assolutamente queste cose. Se la gente conoscesse che cosa c’è dietro la strage del ’92 forse reagirebbe in maniera diversa. E forse oggi non saremmo nel terribile stato in cui siamo.

Ma tu sei ottimista?

– Io non mi posso definire ottimista, nel senso che se non altro penso che della mia lotta per la giustizia e per la verità credo che non riuscirò a vedere i risultati. Io credo che me ne andrò da questo mondo ancora continuando a lottare, e lo farò fino all’ultimo giorno, per la verità e per la giustizia. Ma credo che non riuscirò a vedere i risultati di questa mia piccola lotta che spero non sia solo mia. Però se continuo a farlo vuol dire che credo – e lo credo fermamente – che le nuove generazioni, le generazioni che verranno, riusciranno a sentire quel fresco profumo di libertà di cui Paolo parlava e per cui Paolo è morto.

A Mafiopoli aspettando gli incentivi sulla rottamazione per pigliare Matteo Messina Soldino

denaroLa crisi taglia risorse per cercare il super latitante Matteo Messina Denaro.
Il cavaliere Francesco Ingravallo è un omaccione, commissario della Squadra Mobile di Roma. Indaga su delitti e furti, e per muoversi usa una bicicletta. È riconoscibilissimo perchè indossa sempre lo stesso vestito. Non ne ha molti, uno per tutti i giorni, per quando è al lavoro, l’altro nei giorni di festa. Ogni tanto serrato in bocca tiene un mezzo toscano, per pausa pranzo nei giorni feriali un panino con la mortadella che tira fuori da una tasca della giacca. Ingravallo indaga su delitti e furti, un paio sono accaduti nello stesso condominio, quello di via Merulana. Scena e personaggio sono degli anni ’20, fanno parte di un famoso libro di Carlo Emilio Gadda, «Quer pasticciaccio brutto di via Merulana». La bicicletta invece no, potrebbe finire con il fare parte dell’immagine della Polizia di oggi.

Tutta colpa della crisi. Quella stessa che fa restare senza liquidità le famiglie italiane già quasi a metà del mese e che ha messo in difficoltà anche i poliziotti che a Trapani danno la “caccia” a Matteo Messina Denaro, il nuovo capo della “cupola” siciliana. Il badget ministeriale per pagare missioni e straordinari a questi agenti si è esaurito quando l’anno è appena iniziato. Ma il questore Giuseppe Gualtieri è fortunato, ha agenti in gamba che da tempo hanno fatto l’abitudine ai sacrifici. Lui che ha catturato Binnu Provenzano e adesso punta a Messina Denaro ha la garanzia che la ricerca non si fermerà mai, anche se ci sono pure problemi per mettere in moto le auto, e per questo viene da pensare alle due ruote, ma a pedali.

«I nostri colleghi della squadra Mobile – dice Peppe Culcasi segretario del Sap – cattureranno Matteo Messina Denaro, probabilmente ciò che non potranno “prendere” saranno le indennità per straordinari e missioni». La questione praticamente per ogni agente è questa: o fermarsi, rispettando rigorosamente gli orari di lavoro, senza però pensare a spostarsi di un solo metro dagli uffici, oppure continuare, anche senza salari accessori come si chiamano infatti i soldi guadagnati con missioni e straordinari. I sindacati locali di polizia lanciano l’allarme ma tranquillizzano  tutti: «Le indagini non si fermano, le investigazioni contro ogni genere di crimine continuano, la “caccia” al super boss, nuovo capo della “cupola” siciliana, non sarà mai interrotta». I poliziotti continueranno a muoversi in mezzo a quel sottobosco dove l’“area grigia” protegge il super boss latitante. Le ultime indagini, il sequestro di ingenti patrimoni, dicono che attorno a Messina Denaro si è fatta sempre di più «terra bruciata», ma paradossalmente succede che ciò che si sequestra non può essere impiegato a rimpinguare le risorse che lo Stato destina alla sicurezza, a Trapani rispetto al plafond messo a disposizione si sforza di due terzi.

I «tagli» sono il tema. Nessun settore della nostra vita pubblica è oramai indenne, anche le forze dell’ordine non si «salvano», nemmeno quelle che lavorano nel trapanese, territorio che ad ogni occasione si riconosce, a parole, essere lo «zoccolo duro» di Cosa Nostra e dove chi indaga ha da affrontare una mafia oltremodo «sommersa» e quindi indagare non è facile. «I tagli sono qualcosa che si ripetono da almeno 10 anni – dice Giacomo Ilari dirigente sindacale del Siap – oggi sono più evidenti ci dicono che è colpa della crisi, ma di fatto anno dopo anno le risorse messe a disposizione dal ministero per il pagamento di straordinari e missioni vanno via via diminuendo».

Per il 2009 il badget è di 50 mila euro. Ecco un po’ di conti: nel 2008 l’ammontare delle spese per le missioni dei poliziotti trapanesi ha sfiorato i 180 mila euro, solo 80 mila impiegati per la ricerca del latitante Matteo Messina Denaro; le norme prevedono che ogni mese un investigatore ha a disposizione 20 ore di straordinario, quelli che si trovano impegnati nel fronte della lotta alla mafia, ma non solo loro, ci sono anche i poliziotti che si occupano di immigrazione clandestina per esempio, già al 10 di ogni mese hanno già superato il limite; le unità della squadra nautica hanno avuto notificato un badget annuale di 2 mila euro per carburante e manutenzione dei mezzi, significa che per buona parte dell’anno non potranno staccarsi dagli ormeggi.

L’ultimo dei problemi è quello delle autovetture. In questi giorni si è scritto che manca il carburante, a sentire i sindacati a non esserci sono le automobili. «È vero – dice Francesco Miceli segretario provinciale del Siap – c’è a proposito di risorse una coperta troppo corta». «Ma è altrettanto vero – aggiunge Ilari – che potrebbero essere trovate soluzioni. È di pochi giorni addietro la notizia che non possiamo immatricolare un paio di auto di grossa cilindrata sequestrate, per il ministero i costi sono esorbitanti, noi abbiamo dimostrato che una “supercar” che viene impiegata solo in determinate occasioni, per pedinamenti particolari, non incide più di tanto sui bilanci proprio perchè l’uso non è quotidiano».

Paradossale quello che accadrà. Le auto fino a quando non saranno confiscate dovranno stare ferme in un garage, quando si potranno vendere all’asta varranno poco o nulla perchè nel frattempo sarà trascorso almeno un decennio. E il ministero non spende e non può nemmeno guadagnarci.
Non tutto è però negativo. Nel trapanese le recenti norme sulla sicurezza non hanno trasformato tutti i sindaci in «sceriffi», c’è chi ha inteso interpretare in maniera diversa il ruolo. La prefettura, col prefetto Stefano Trotta, poi ha varato una sorta di «patto per la sicurezza» che coinvolge diverse amministrazioni locali, i risultati ci sono stati: il Comune di Erice ha messo a disposizione 15 mila euro per la questura, negli uffici della squadra Mobile grazie al contributo di enti pubblici, la Provincia, ancora il Comune di Erice, alcuni privati, è stata allestita e inaugurata una stanza adibita all’«ascolto» dei minori vittime di violenze.

E tra le note positive c’è da mettere anche gli agenti che senza soldi per missioni e straordinari, lavorano «gratis», forse come desidera il ministro Brunetta tanto severo nel pretendere sempre e comunque dipendenti pubblici all’altezza del momento.

di Rino Giacalone

Tratto da: liberainformazione.org

Cascina Caccia: scippiamogli l’onore

cascinacacciaCiondolando in tourné ogni tanto si rimbalza non solo in qualche via del centro in contromano. Ciondolando in tourné si cade dentro un tombino che è una meraviglia. Sono passati due giorni dall’aria che sapeva di ferro di Torino e Chivasso ma ancora mi tengo forte la carezza al miele della “Cascina Carla e Bruno Caccia” intitolata alla memoria del lavoro di Bruno Caccia: magistrato a Torino ucciso sparato dalla ‘Ndrangheta. Uno di quei nei che il Nord riesce (bene) a dimenticare in fretta come per le antiestetiche macchie di caffè sulla camicetta. Alla ‘ndrina dei Belfiore (mandanti dell’omicidio) hanno strappato un casolare giallo che sorride di malinconia mentre sta arrampicata a San Sebastiano Po (TO). Scippare i luoghi e la memoria alle mafie dovrebbe essere un reato insegnato nelle scuole: è una resurrezione civile. Adesso Cascina Caccia sorride con la solita gialla malinconia ma in buona compagnia. Davide Pecorelli, Anastasia, Sara e Roberto la presidiano con la cura e la manìa dei guardiani del faro mentre strofinano per togliere l’odore della vergogna. “Sarà una nova Barbiana” si è augurato Don Ciotti durante l’inaugurazione del bene confiscato e riassegnato al Gruppo Abele. E’ un abbraccio forte da portarsi a casa mentre alla cascina Caccia evapora la malinconia.

Radio Mafiopoli 22 – Pino Maniaci per fortuna non c’ha la camorra

ASCOLTA LA PUNTATA
Pino è un Don Quijote  ma i mulini sono cambiati come cambiano i tempi: hanno facce, mani, testa, voce, ferro in tasca, soldi in borsa e avvocati. avvocati bravi, pagati bene. Il mulino che gli è rimasto più di traverso è la Distilleria Bertolino: una distilleria che inquina come vomito di Polifemo sopra Partinico.
Pino è come il calcare, ostinato fino ad indurirsi tanto da fargli male. Di quelli che sorseggiano il gusto di “battersi” come all’inizio di un aperitivo che probabilmente finirà male. Pino appena fuori dal cancello della Bertolino, a fotografarlo dall’alto, è piccolo come un tombino.
Pino è un rubinetto rotto: lavora per erosione, ai fianchi e alle spalle con una televisione larga come un cesso ma che suona martellate di artigianato fino e continuo.
Pino è un immoderabile: nel dubbio getta l’amo ma sempre con la sua faccia in mano.
Pino è la zucca di Cenerentola: si veste sguincio da cerimonia ma non si appiattisce al diktat del valzer della moderocrazìa.
Pino è mezzo nei guai, per una condanna che aggiunta alle altre lo fa arrivare lungo. Ma nei guai ci nuota bene. Perché a mare ci buttiamo in tanti che, poco poco, organizziamo un quadrangolare di pallanuoto.
Perché a raccogliere palle in rete ci abbiamo fatto il callo, ma siamo forti nel contropiede.
Pino qualcuno vorrebbe farlo stare zitto. Coprirlo, magari con le ingiurie o magari con il cemento.
[CEMENTO dal libro di Sergio Nazzaro IO, PER FORTUNA C’HO LA CAMORRA Fazi Editore]

INFO

http://www.antimafiaduemila.com/content/view/13264/48/

http://www.fazieditore.it/scheda_libro.aspx?l=1070

Pino Maniaci

arton4198-d4320Pino è un Don Quijote  ma i mulini sono cambiati come cambiano i tempi: hanno facce, mani, testa, voce, ferro in tasca, soldi in borsa e avvocati. avvocati bravi, pagati bene. Il mulino che gli è rimasto più di traverso è la Distilleria Bertolino: una distilleria che inquina come vomito di Polifemo sopra Partinico.

Pino è come il calcare, ostinato fino ad indurirsi tanto da fargli male. Di quelli che sorseggiano il gusto di “battersi” come all’inizio di un aperitivo che probabilmente finirà male. Pino appena fuori dal cancello della Bertolino, a fotografarlo dall’alto, è piccolo come un tombino.

Pino è un rubinetto rotto: lavora per erosione, ai fianchi e alle spalle con una televisione larga come un cesso ma che suona martellate di artigianato fino e continuo.

Pino è un immoderabile: nel dubbio getta l’amo ma sempre con la sua faccia in mano.

Pino è la zucca di Cenerentola: si veste sguincio da cerimonia ma non si appiattisce al diktat del valzer della moderocrazìa.

Pino è mezzo nei guai, per una condanna che aggiunta alle altre lo fa arrivare lungo. Ma nei guai ci nuota bene. Perché a mare ci buttiamo in tanti che, poco poco, organizziamo un quadrangolare di pallanuoto.

Perché a raccogliere palle in rete ci abbiamo fatto il callo, ma siamo forti nel contropiede.

Acqua, un affare che scotta

Il business del secolo in Sicilia

Come gruppi economici e consorterie territoriali stanno appropriandosi delle risorse idriche di una regione che possiede tanta acqua mentre, per paradosso, ne patisce endemicamente la mancanza. La presenza discreta della multinazionale spagnola Aqualia. Le strategie della società catanese Acoset. L’anomalia del sudest.

In Sicilia i processi di privatizzazione dell’acqua che vanno dipanandosi negli ultimi anni si raccordano con una tradizione composita. Se si dà uno sguardo alla storia post-unitaria, si constata infatti che l’accaparramento delle fonti, delle favare per usare il termine di derivazione araba, ha scandito con regolarità l’evoluzione legale e illegale dei ceti che hanno esercitato dominio sull’isola. Il controllo delle acque ha consentito di lucrare rendite economiche e posizionali importanti, di capitalizzare, di chiamare a patti le autorità pubbliche, di condizionare quindi gli atti dei municipi, degli enti di bonifica, di altre istituzioni. E il canovaccio di tale affare, di rilievo appunto strategico, ancora oggi rimane tale, benché si faccia uso di strumenti e progettazioni non più a misura di un mondo agrario più o meno statico, ma di una realtà in profonda evoluzione, sullo sfondo delle economie globali. Si tratta di comprendere allora i modi in cui si coniugano oggi i due elementi, innovazione e tradizione, a partire comunque dal dato che anche in Sicilia si vive al riguardo un passaggio epocale, dopo il lungo tragitto delle aziende municipalizzate, che sempre e comunque hanno dovuto fare i conti con i signori delle fonti.
Nel quadro dei processi generali che hanno reso l’acqua una risorsa economica, una merce, che chiama in causa multinazionali potenti come Suez, Vivendi, Impresilo, RWE, la legge Galli del 5 gennaio1994 sugli ambiti territoriali ottimali, ATO, ha segnato una svolta rispetto al passato, puntando a eliminare la frammentazione che fino a quel momento aveva caratterizzato la gestione idrica nel territorio nazionale. Pur sottolineando sin dall’incipit il rilievo dell’acqua quale bene pubblico, ha posto nondimeno le basi per l’irruzione dell’interesse privato nella gestione dei servizi idrici degli ATO, con il ricalcolo di tale risorsa sotto il profilo economico. E tutto questo, se, come si diceva, non poteva non sommuovere, in senso lato, l’interesse della grande finanza, come testimonia negli ultimi anni il coinvolgimento di banche come l’Antonveneta, la Fideruram e altre ancora, ha finito con il sollecitare una pluralità di interessi, con l’esaltare anomalie esistenti e generarne di nuove, specie nel sud della penisola e in Sicilia, dove l’economia più di altrove è inficiata da mali strutturali, dove vigono appunto tradizioni tipiche, che rendono ineludibile l’ipoteca delle consorterie.
La posta in gioco in Italia è ovviamente altissima, potendo comprendere, fra l’altro, gli ingenti finanziamenti a fondo perduto che l’Unione Europea ha destinato a tali ambiti, perché vengano eliminati i gap che interessano il paese. Tanto più lo è comunque in regioni in cui le strutture e gli impianti esistenti scontano deficit strutturali, consolidatisi lungo i decenni. È il caso della Sicilia, dove l’EAS e le municipalizzate hanno gestito regolarmente impianti obsoleti, dove quasi tutti gli invasi recano vistosi segni d’incuria, le infrastrutture restano esigue, le condutture fatiscenti e in una certa misura da rifare. Il progetto di privatizzazione nell’isola ha potuto quindi fregiarsi di un obiettivo seducente, quello della modernizzazione dei servizi idrici che, dopo anni di attesa interlocutoria, è stato agitato come una sorta di rivoluzione dal governo regionale di Salvatore Cuffaro. E dal decisionismo, sufficientemente mirato, del ceto politico di cui l’ex presidente conserva in una certa misura la rappresentatività, corroborato comunque dai trasversalismi che insistono a connotare la vicenda pubblica nella regione, ha preso le mosse, negli ultimi anni, una sorta di caccia all’oro.
L’affare dell’acqua reca in Sicilia dimensioni inedite. Sono in gioco infatti 5,8 miliardi di euro, da amministrare in trenta anni, con interventi a fondo perduto dell’Unione Europea per più di un miliardo di euro. Dopo un primo indugio, dettato presumibilmente da ragioni di cautela, che ha visto comunque diverse gare andare a vuoto, la scena si è quindi movimentata, con l’irruzione di importanti realtà economiche, interne all’isola ed esterne. Una fetta cospicua dell’affare è stata avocata dalla multinazionale francese Vivendi, socia di maggioranza della Sicilacque spa, che, dopo la liquidazione dell’Ente Acquedotti Siciliani, ha ereditato la gestione di 11 acquedotti, 3 invasi artificiali, 175 impianti di pompaggio, 210 serbatoi idrici, circa 1.160 km di condotte e circa 40 km di gallerie. In diverse ATO si è già provveduto, altresì, alle assegnazioni. Nell’area di Caltanissetta si è imposta Caltaqua, guidata dalla spagnola Aqualia. A Palermo e provincia ha vinto il cartello Acque potabili siciliane, di cui è capofila Acque potabili spa, controllata dal gruppo Smat di Torino. Nell’area etnea la guida del Consorzio Ato Acque è stata assunta dalla catanese Acoset. Ad Enna ha vinto Acqua Enna spa, comprendente Enìa, GGR, Sicilia Ambiente e Smeco. A Siracusa vige la gestione mista della Sogeas, che vede presenti, con l’ente municipale, la Crea-Sigesa di Milano e la Saceccav di Desio. Ad Agrigento è risultata aggiudicataria la compagine Agrigento Acque che fa capo ancora ad Acoset. Negli altri ATO le gare rimangono sospese.
È la prima fase ovviamente, quella dei grandi appalti, che è preoccupante non solo per la virulenza con cui i poteri economici incalzano e mettono in discussione le istanze della democrazia, degradando un bene comune qual è l’acqua a merce, ma, di già, per i modi in cui evolvono le cose, in ossequio appunto a una data tradizione. In relazione più o meno diretta con grandi società estere e italiane interessate all’affare Sicilia, vanno muovendosi infatti ambienti economici discussi, a partire dai Pisante, le cui imprese risultano inquisite dalle procure di Milano, Monza, Savona e Catania per una varietà di reati: dal pagamento di tangenti all’associazione mafiosa.
Già coinvolta nell’isola in vicende legate agli inceneritori, tale famiglia si è mossa con intenti strategici. Si è inserita, tramite la controllata Galva spa, nel raggruppamento guidato da Aqualia, per la gestione idrica nel Nisseno. Partecipa con un buon 8,4 per cento alla società aggiudicataria nel Palermitano, Acque potabili siciliane spa. Tramite le società Acqua, Emit, e Siba detiene una discreta quota azionaria di Sicilacque che, come detto, ha rilevato dall’EAS il controllo delle grandi risorse idriche regionali. Ancora per mezzo della Galva partecipa altresì alla compagine vincente nell’Agrigentino, Girgenti Acque, di cui è capofila Acoset, che con Aqualia ha concorso in varie province. Ha invece perso nel Catanese, perché, l’AMGA spa, capofila della compagine entro cui correva, in competizione con Acoset, per l’aggiudicazione dell’ATO 2, è stata esclusa dalla gara.
Nelle mappe dell’acqua assumono altresì rilievo due noti imprenditori siciliani: l’ingegnere Pietro Di Vincenzo di Caltanissetta e l’ennese Franco Gulino, che vanno facendo non di rado gioco comune, pure di concerto con i Pisante. Il primo, cui sono stati confiscati beni per circa 300 milioni di euro, ha assunto la gestione dei dissalatori di Trapani, Gela, Porto Empedocle, Lipari e Ustica, indubbiamente strategica. È stato l’unico offerente nella gara per la gestione idrica di Trapani, poi sospesa. In competizione con le imprese di Caltaque, ha corso altresì per l’appalto ATO di Caltanissetta, dentro la compagine NissAmbiente, che comprendeva pure l’Altecoen di Franco Gulino. Quest’ultimo poi. Proprietario di un gruppo di quaranta società operanti in diverse regioni italiane, con interessi pure in Sud America, è stato rinviato a giudizio a Messina per concorso esterno in associazione mafiosa, per l’affare dei rifiuti di MessinAmbiente, che tramite l’Emit ha coinvolto pure i Pisante. Con l’Altecoen, che la stessa Corte dei Conti siciliana ha definito nell’aprile 2007 un’azienda “infiltrata dalla criminalità mafiosa”, si è introdotto nell’affare dei termovalorizzatori, per uscirne con ingenti guadagni. Ancora tramite l’Altecoen, è stato presente nella Sicil Power di Adrano, insieme con la DB Group, presente nei raggruppamenti guidati dalla catanese Acoset.
Tutto questo definisce evidentemente un ambiente, che fa da sfondo peraltro a fatti e atteggiamenti ancor più preoccupanti. Si tratta del lato più oscuro del processo di privatizzazione, di cui emergono un po’ le coordinate nelle dichiarazioni di un reo confesso, Francesco Campanella, ex presidente del consiglio municipale di Villabate, sulla costituzione del consorzio Metropoli Est, finalizzato al controllo delle acque in alcuni centri del Palermitano. Fatti sintomatici si rilevano comunque in quasi tutte le aree dell’isola: dall’Agrigentino, dove i sindaci di Bivona e Caltavuturo hanno denunciato le logiche dubbie invalse negli appalti di manutenzione, a Ragusa, dove sin dagli inizi della vicenda ATO è stato un crescendo di atti intimidatori. E si è ancora agli esordi.
In linea con le consuetudini, vanno delineandosi in sostanza due livelli: quello della gestione idrica in senso stretto, conteso da multinazionali e grandi società del settore, non prive appunto di oscurità, e quello dell’impiantistica, lasciato in palio alle consorterie territoriali, che recano ragioni aggiuntive, oggi, per porsi all’ombra di poteri estesi e ineffabili. Un quadro definito degli interessi potrà aversi comunque con l’entrata nel vivo degli ammodernamenti, nella danza di bisogni e pretese che sempre più verrà a stabilirsi fra appalti e subappalti. Solo allora l’obolo alla tradizione verrà richiesto con ampiezza: quando in profondo si tratterà di fare i conti con il privato che cova già nei territori, quando si tratterà altresì di saldare i conti con la parte pubblica, in sede municipale, provinciale, regionale.
In questa fase, in cui alcuni raggruppamenti recano caratteri di veri e propri cartelli, la logica prevalente rimane quella delle concertazioni a tutto campo, che traspare, fra l’altro, in certi movimenti mirati, prima e dopo le aggiudicazioni: tali da pregiudicare talora la linearità delle gare. Un caso esemplare, che ha avuto pure risvolti parlamentari, con una interpellanza del deputato Filippo Misuraca, è quello di Caltanissetta, dove la IBI di Pozzuoli, capofila della compagine esclusa dalla gara ATO, ha presentato ricorso contro Caltaqua, per ritirarlo appena avuta l’opportunità di inserirsi, con l’Acoset di Catania che l’affiancava, nel gruppo assegnatario, attraverso l’acquisizione di una quota cospicua dalla Galva del gruppo Pisante. Tutto questo, a dispetto delle leggi e delle direttive comunitarie, che vietano qualsiasi modificazione all’interno delle compagini vincenti.
Il processo di privatizzazione in Sicilia non sta recando comunque un decorso facile. Ha suscitato tensioni politiche, tali da rendere difficoltose le aggiudicazioni, mentre ha agitato la protesta delle popolazioni, allarmate dai rincari dell’acqua che ovunque ne sono derivati. Per tali ragioni a Trapani e Messina le gare rimangono sospese, con rischi di commissariamento dei rispettivi ATO, mentre a Ragusa si è arrivati addirittura a un ripensamento, per certi versi un dietro-front, che ha coinvolto gran parte dei sindaci dell’area. E proprio la vicenda di quest’ultima provincia segna nel processo una vistosa anomalia.
Sotto il profilo economico, il sudest, da Catania alla provincia iblea, reca tratti distinti. È la sede principale delle colture in serra, lungo i percorsi della fascia trasformata. È area d’insediamento di grandi centri commerciali, con poli importanti a Misterbianco, Siracusa, Modica e Ragusa. È territorio di una banca influente, la BAPR, che riesce a collocarsi oggi, per capitalizzazione, fra le prime venticinque banche in Italia. In virtù dell’integrazione cui può godere, sempre più va facendosi altresì un’area di forte interlocuzione economica, a tutti i livelli, con risvolti operativi non da poco. Se ne hanno riscontri nella politica concertata dei poli commerciali, quelli indicati appunto, e tanto più negli accordi strategici che vanno maturando nel mercato immobiliare, nella grande distribuzione alimentare, nel mercato ittico, nella costruzione di opere pubbliche, infine, dopo la svolta della legge Galli e le sollecitazioni dal governo regionale, nello sfruttamento privato delle acque. In quest’ultimo ambito infatti la catanese Acoset, ponendosi a capo di un raggruppamento coeso, ha deciso di guadagnare terreno oltre il territorio etneo, mentre la Sogeas di Siracusa, pur avendo introdotto soci privati, cerca di mantenere, al momento, un contegno più prudente.
Negli ultimi anni la società catanese è stata al centro di numerose contestazioni, da parte di enti e comitati di cittadini che ne hanno denunciato, oltre che i canoni esosi, le carenze di controllo. Il caso più clamoroso è emerso nel 2006 quando nell’acqua da essa erogata in diversi centri sono state rilevate concentrazioni di vanadio nocive alla salute. La Confesercenti di Catania è intervenuta con esposti ad autorità competenti e al Ministero della Salute. Il comune di Mascalucia ha aperto in quei frangenti un contenzioso, negando la potabilità dell’acqua. Per la mancata erogazione in alcuni centri, l’azienda è stata inoltre censurata dal Codacons e, in un caso almeno, è stata indagata dalla magistratura etnea. A dispetto comunque di simili “incidenti”, che definiscono il piglio dell’azienda mentre incrinano, in senso lato, le sicurezze sulle qualità del servizio privato, l’Acoset, potendo contare su alleati idonei, ha assunto i toni e le pretese di un potere forte.
Nata nel 1999 come azienda speciale, che ai fini della gestione idrica consorziava venti comuni pedemontani, l’impresa presieduta dal geometra Giuseppe Giuffrida si è trasformata nel 2003 in società per azioni, con capitale pubblico e privato. Nello slanciarsi lungo la Sicilia, ha stabilito rapporti con ambienti economici mossi. Nella compagine di Girgenti Acque, di cui è capofila, ha associato la Galva del gruppo Pisante e una società che fa capo alla famiglia Campione, discussa per vicende che ne hanno riguardato un componente. Nel medesimo tempo, con le movenze tenui che accomunano tante imprese dell’est siciliano, l’Acoset è riuscita ad aver voce negli ambiti decisionali che più contano nell’isola. Un test viene ancora dall’Agrigentino, dove, malgrado l’opposizione di ventuno sindaci, che avevano chiesto l’annullamento dell’aggiudicazione, la società catanese è riuscita a mettere le mani comunque sull’affare idrico, con la condivisione forte del presidente provinciale degli industriali, Giuseppe Catanzaro, del direttore generale in Sicilia dell’Agenzia regionale per i rifiuti e le acque, Felice Crosta, del presidente della regione Cuffaro.
Pure i numeri sono quindi divenuti quelli di un potere in evoluzione. Quale socio privato dell’ATO 2 di Catania, l’impresa eroga l’acqua a 20 comuni etnei, per circa 400 mila abitanti. Da capofila della società Girgenti Acque ha sbaragliato potenti società italiane ed estere, come Aqualia appunto, aggiudicandosi un affare che le farà affluire in trenta anni 600 milioni di euro, di cui circa 100 milioni dall’Unione Europea. Con una quota minima, ceduta dalla Galva dei Pisante, risulta presente nel gruppo Caltaqua, aggiudicatario della gestione idrica del Nisseno. Sin da quando si è profilato il business della privatizzazione, con un raggruppamento d’imprese che comprende pure la BAPR, ha deciso di puntare altresì a sud, gareggiando ancora con la multinazionale iberica, per assicurarsi la gestione dei servizi idrici di Ragusa, che recano una posta di oltre mezzo miliardo di euro, di cui circa 100 mila della UE. Se avesse centrato tale obiettivo oggi avrebbe in pugno un quinto circa dell’intero affare siciliano.
I giochi apparivano fatti. Delle tre società concorrenti, Saceccav, Aqualia e Acoset, la prima, che concorreva già per insediarsi all’ATO di Siracusa, è stata esclusa dalla gara per motivi che sono apparsi sospetti, tali da indurre uno dei commissari, il prof. Francesco Patania, a dimettersi e presentare un esposto alla procura di Ragusa. La seconda, che di lì a poco avrebbe avocato a sé la gestione idrica del Nisseno, per certi versi si è ritirata perché non ha risposto all’invito della commissione di dichiarare se persisteva il suo interesse alla gara. La compagine di Acoset, che al medesimo invito ha risposto affermativamente, aveva quindi ragione di sentirsi vincitrice. Le cose sono andate tuttavia in modo imprevisto. La maggioranza dei sindaci, che nel giugno 2006 si erano espressi a favore della gestione mista, pubblico-privata, nella seduta del 26 febbraio 2007 hanno deciso di avviare infatti la procedura di annullamento della gara perché difforme alle direttive dell’Unione Europea. E il 2 ottobre del medesimo anno la gara è stata annullata. Ma perché è avvenuto tale ripensamento e, soprattutto, quali giochi reggevano, e reggono tutt’ora, l’affare acqua del sud-est?
Lo schieramento di Acoset per l’ATO di Ragusa reca conferme di rilievo e qualche accesso. Rimane forte la presenza catanese, con Acque di Carcaci, Acque di Casalotto e la COESI Costruzioni Generali. Con opportuni scambi posizionali vengono altresì confermate, perché strategiche, due presenze: la IBI di Pozzuoli, con cui nel Nisseno la società catanese ha condotto l’operazione di trasbordo in Caltaqua, che ha suscitato allarme nella Sicilia tutta e prese di posizione parlamentari; la DB Group che, tramite la Sicil Power, costituisce un punto di contatto fra l’Acoset e il gruppo di imprese che fa capo alla famiglia Pisante. Inedita è invece, ma pure sintomatica, la partecipazione della BAPR, che meglio di ogni altra realtà compendia il potere finanziario del sudest. La banca iblea ha fatto una scelta anomala, per certi versi controcorrente, dal momento che nessun altro istituto di credito dell’isola ha deciso di porsi in campo. Ma l’ha fatta a ragion veduta.
Nel quadro degli scambi che vigono nell’est siciliano, la BAPR costituisce una presenza di peso, in grado di interloquire con tutte le economie, a partire comunque da quelle legate all’edilizia e all’innovazione agricola. Reca una dirigenza solida, attenta alla tradizione, non priva tuttavia di impeti modernistici, che tanto più si avvertono nell’attivismo di Santo Cutrone, consigliere di amministrazione, costruttore, componente della giunta CCIIA di Ragusa, vice presidente siciliano dell’ANCE. Forte dei ruoli rivestiti, Cutrone ha potuto stabilire relazioni da vicino con l’imprendtoria catanese, inclusa quella legata all’acqua. Con la CG Costruzioni, di cui è proprietario, ha fatto affari comuni con l’ingegnere Di Vincenzo, con la costituzione di una ATI, associazione temporanea d’impresa, che ha concorso in numerose gare, dal comune Misterbianco al porto di Pozzallo. Quale presidente provinciale dell’Associazione Nazionale Costruttori si è esposto in favore della privatizzazione dell’acqua a Ragusa, mentre, a chiusura del circolo, ha sostenuto nell’intimo della BAPR le ragioni, infine vincenti, della scesa in campo con Acoset.
In considerazione di tutto questo, i conti dell’acqua, nella declinazione del sudest, tornano con pienezza. La società guidata da Giuseppe Giuffrida, che ha accettato la sfida dei giganti europei, ha avuto buone ragioni per imbarcare la banca siciliana, ravvisando nel prestigio e nell’influenza della medesima una carta spendibile ai fini dell’aggiudicazione del mezzo miliardo di euro in palio. Dal canto suo la BAPR, sospinta dal protagonismo di Cutrone, si è risolta a rivendicare una propria ipoteca, la prima, sull’affare del secolo, sulla scia peraltro di taluni gruppi finanziari, per consolidare sotto la propria egida l’asse economico Ragusa-Siracusa-Catania. Come si evince dalle movenze, tutti i protagonisti della compagine, da Acoset a IBI, da DB Group all’istituto ibleo, hanno comunque ben chiaro che la conquista del centro-partita nella cuspide iblea può costituire un incipit per ulteriori affari, tanto più dopo lo scoccare del 2010, quando, con l’apertura dell’area di libero scambio, il territorio del sudest, in virtù dell’esposizione che reca sul Mediterraneo, diverrà strategico.
In definitiva, nella Sicilia più a sud si è giocato per vincere, a tutti i costi. Il coinvolgimento della BAPR ne è una prova. E Acoset, con le sue alleate, avrebbe vinto se, dopo la decisione assunta dai sindaci dell’ATO in favore della privatizzazione, nel giugno 2006, non fossero accaduti degli incidenti, privi di riscontro in Sicilia, per certi versi quindi imprevedibili. Un pugno di ragazzi, fondatori di un giornale in fotocopia, “Il clandestino”, hanno deciso di mettersi di traverso, suscitando una resistenza corale, che ha incrociato lungo il suo cammino Alex Zanotelli, l’Antimafia di Francesco Forgione, il Contratto Mondiale dell’acqua di Emilio Molinari, la CGIL di Carlo Podda. Dalle cronache, in Sicilia e nel paese tutto, la storia è stata registrata come una esperienza esemplare, cui si sono coinvolti dirigenti sindacali come Tommaso Fonte, Franco Notarnicola, Nicola Colombo e Aurelio Mezzasalma, esponenti politici come Marco Di Martino, esponenti dell’associazionismo come Barbara Grimaudo. La battaglia dell’acqua, nel sudest siciliano, rimane comunque aperta, con i poteri forti che insistono a lanciare i loro moniti, mentre vanno preparandosi all’ultimo decisivo assalto.

Carlo Ruta

da NARCOMAFIE – Gennaio 2009

Radio Mafiopoli 21- Nani alti e Bassezze basse

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TESTO:

Ci sono tre coccodrilli ed un orango tango, tre piccoli serpenti e tanti piccoli nani. Nani mica per l’altezza nana o per il cappello rosso blando, nani per la prevedibilità con cui li si può aspettare ogni mattina fuori da qualsiasi miniera dove succhiare un po’ di soldi sporchi e impolverati per bene perchè non si vedano per bene. E poi c’è Biancaneve. Ma non quella bianca neve che le ‘ndrine usano spolverata per bene sopra tutta la repubblica di Mafiopoli da nord a sud. No, c’è la Biancaneve quella un po’ mamma e un po’ puttana, quella che ha le gambe larghe da starci dentro tutti, una sorta di “mammasantissima”…
– Ciao a tutti sono un nano di Mafiopoli e mi chiamano Eolo. Eolo, sì, come il vento quello che ti entra nei capelli e ti esce dal ****. Io sono un nano allegro e forte e risiedo a Mazara del Vallo, vi racconto la mia storia. Allora, a Mazara volevamo io e tutti i nani piantarci una bella striscia di pale, per produrre energia, perché a Mafiopoli dal Vallo siamo bravissimi a fare girare le pale! All’appalto hanno partecipato in due, proprio come le pale. ENERPRO (per gli amici eolici ENERPROT) e SUD WIND, che in dialetto mafiopolitano vuol dire “sudo ma vinco”. E, infatti, hanno vinto loro, anche perché si dice che hanno letto il progetto dei concorrenti prima che venisse depositato! Insomma è uscito dall’ufficio del comune! Come mai? Questione di finestre aperte! Questione di venti e di correnti! Come la corrente politica di Vito Martino, che anche se non si capisce qual è il nome e quale il cognome si capisce benissimo da che parte sta. Tanto che Martino (che tra di noi chiamiamo Vitolo Martinolo) con tutto sto vento si è mica ritrovato in tasca trasportati dalla corrente 150.000 euroli per la mediazione tra i venti? Quello che si dice un politico sulla cresta dell’onda. Ma senza surf, che mammasantissima gli ha portato una Mercedes 220 fiammante e veloce come il vento. Storie da Mafiopoli. Storie di nani. Dal profilo basso come i nani. Eolo che sono io, Vitolo Martinolo il consigliere comunale e consigliore, Giovannolo Battistolo Agatolo (detto Agate) già bello che pregiudicatolo, Luigilo Franzinellilo, Melchiorre Saladinolo (che viene dalla zona di Salemi del nano buffo Sgarbolo) e poi c’è Sucamèli. Che l’architetto l’abbiamo messo al plurale perché ci sono anche i bambini. E dietro a tutto come sempre il terribile nano Obolo: per gli amici Matteo Messina Denaro detto Soldino. Evviva, evviva, urrà. Bum bum. Giù il cappello invece al sindaco gaio di Gela Rosario Crocetta, che nonostante il freddo ci crede sul serio che Mafiopoli possa essere pulita. Infatti, lui dice “l’avevo detto!”. E insieme ad un abbraccio gli affibbiamo il nome di Puffo Quattrocchi. Che anche se non è un nano è comunque all’altezza giusta per guardarli negli occhi.
– A Cerveteri ci ha lasciato le penne U Malpassotu Giuseppe Pulvirenti, il nano boss e moralizzatore detto il leone di Belpasso. Moralizzatore e leone, come i Gormiti della foresta. Leone perché si è divertito tanto a difendere il Santo Benedetto nella faida catanese. E fa niente se sono rimasti per terra morti in 100 l’anno, succede sempre nei cartoni animati. Ma Pulvirentolo era famoso per essere il nano più moralizzato della miniera: chiedere a Giuseppe Conti e Angelo Ficarra, sparati dalla pistola del nano perché adulteri. È tipico a Mafiopoli preoccuparsi delle cose serie con la serietà di nano Imbecillilo. Ed è tipico predicare bene e razzolare male. Perché U Malpassatu ci aveva un amante tanto da chiedere aiuto a nano Divorziolo. Ma Biancaneve cornuta era troppo, anche per le storie incredibili della Repubblica di Mafiopoli.
– A Messina in carcere un infermiere preso dalla sindrome di Biancaneve curava i boss del clan di Giostra e di Santa Lucia sopra Contesse con tutte le cure mafiopolitane. Infatti a Gaetano Barbera, Daniele Santovito e Luigi Gallo ci dava l’aspirina, la tachipirina e pure il telefonino per dare ordini all’esterno. Durante l’interrogatorio ha risposto: “telefono – casa”.
– Poi c’è un altro nano. Il principe dei nani. E c’è una storia che è peggio del peggiore cartone animato. Ma con uno sparo solo, in via D’Amelio e poi tutto intorno tanto silenzio. E c’è in via D’Amelio un signore, un capitano mio capitano che di nome fa Arcangioli e che cammina con una valigia in mano. La valigia è di Borsellino e dentro c’è tutto un mondo che non è più e dentro la valigia e dentro c’è tutto un mondo. E Arcangioli lui cammina con la faccia sicura della casalinga che ha assolto l’obbligo quotidiano della spesa per la famiglia. Quella con la F maiuscola. E c’è uno stato, lo stato di Mafiopoli che dice che quell’uomo non va processato. Ma Mafiopoli è uno stato che le cose le dice sotto voce. Piano piano. Con silenzio tutto intorno. Come vuole il Nano. Ma è una storia da raccontare con calma. Perché ogni tanto con i nani bisogna usare i picconi. Alla Disney.

Se ti è sfuggito qualcosa eccoti i link con le relative notizie:

Radio Mafiopoli 20 – Il sugo della settimana

Il sugo della settimana
Ci sono settimane in cui Mafiopoli dà il meglio di sè. Sono le settimana in cui accade tantissimo, se ne sparla di più e si informa molto poco; secondo l’antico proverbio mafiopolitano “succede qualcosa solo quando è scritta o al massimo sparata”. Una di quelle settimane al gusto rosso di chiasso distraente e qualche macchia di pomodoro.
A Partinico giù all’ospitale ospedale civico c’è da spanciarsi dalle risate. Ma con parsimonia. Con ordine: su un letto tutto gomitolato c’è un malato di lusso, Niccolò Salto. Chi è Salto? Facciamo un balzo indietro con un riassunto delle puntate precedenti. Niccolà Salto, per gli amici di Mafiopoli detto “la zampetta più veloce del west” per la velocità di salti, zompelli, scalate professionali in Cosa Nostra e trasferimenti. I maligni dicono sia boss della zona di Borgetto (lui si difende “sono amico di tutti, e degli amici degli amici”), dicono sia stato colpito in un agguato in pieno centro trivellato da quattro colpi, ma non morto e resuscitato in meno di tre giorni per meriti nel nome del padre, del figlio e del padre di suo zio e ci siamo capiti. Probabilmente il killer assoldato per bucherellare il leprotto Salto era il famoso Ciro “lo strabico”, che da anni studia il manuale del buon sparatore di Bum Bum Bagarella ma in compenso fà male più o meno come una dichiarazione di un ministro del governo ombra. Salto si salva, evviva!, e salta nel regno dei cieli? O no.. salta a piedi uniti con un bel tuffo a bomba dentro una condanna di carcere duro 41 bis. Quel 41 bis che nel Pirlamento di Mafiopoli pochi giorni fa tutti in coro hanno urlato di averlo inasprito. Con una goccia di limone e due foglie di rosmarino. E allora cosa fa quel grillo mattacchione del Salto? Salta di palo in frasca e si accorge che sta male, che un proiettile uno forse gli è rimasto in pancia tra la caponata e l’arancino. Curiamolo! Perchè no! – urlano i garantisti della digestione dei mafiusi – è un suo diritto. Ma a Mafiopoli i diritti sono al sugo. E allora ricoveriamolo. Dove? Il carcere duro imporrebbe lontano. E infatti lo parcheggiano lontano, lontano, lontano, lontano 2 km e mezzo fino al vicino ospedale di Partinico. Così almeno (dicono i garantisti) per impartire ordini al telefono non scatta nemmeno l’interurbana. Hip hip urrà. Bum bum. Ma il carcere duro ai domiciliari in ospedale vicino a casa? È una vergogna! – dicono i maligni. Sì, ma in terapia intensiva. Caro Niccolò, tu che ascolti (lo sappiamo per certo) questa puntata di Radiomafiopoli non prendertela nel tuo nuovo carcere a 5 stelle, altrimenti se ti arrabbi ti si sposta il catetere. Bum bum.
A Santo Domingo intanto hanno accalappiato il boss camorrista Ciro Mazzarella. Dopo il mandato di cattura era stato anche in Colombia e Costarica. I suoi legali gli hanno assicurato che se il 41 bis a Mafiopoli continua così al massimo da oggi  gli mancherà solo la fetta di lime dentro mojito.
A Mafiopoli hanno inaugurato il nuovo decreto sulle intercettazioni. In parole semplici: si potranno intercettare solo mafiusi già dichiaratamente colpevoli, solo nel momento in cui commettono un atto criminoso, in notti di luna piena, con una coda di gatto nero e mescolare tutto con la formula magica. Un successo. Nella baldoria di festeggiamenti addirittura ad Opera è stato intercettato un neurone ancora seminuovo di Zi’ Totò il capo dei capi. Evviva evviva.
Condannato definitivo Vincenzo Santapaola, figlio di Benedetto Santapaola. Benedetto Santapaola l’unico boss già nel nome votato al paradiso. Il Vaticano mafiopolitano insorge: scherzate con i fanti ma lasciate stare i santi! Applauso dei presenti. Poi consapevoli della gaffe hanno mandato la pubblicità.
A Trapani iniziato il processo Grigoli, presunto cassiere del boss Matteo Messina Denaro per gli amici Soldino. Sequestrate 12 società, 220 fabbricati, 133 appezzamenti di terreno e uno yacht di 25 metri. Grigoli dice che ha avuto culo; Matteo Messina va a letto triste come un soldo di cacio. Bum bum.
Da un sondaggio a Palermo i ragazzi mafiopolitani dichiarano al 22% di credere che Chinnici e Costa siano due mafiosi. Incredibile. In uno stato così si rischierebbe che un pregiudicato diventi presidente del consiglio.
Ieri un’azienda di calcestruzzi confiscata al virulento boss Virga, il mafiuso dalla piccola Verga, è diventata una cooperativa libera gestita dai suoi stessi operai. Hanno urlato: “bisogna liberare le aziende mafiuse per farle ritornare alla legalità e ad una gestione libera da collusioni!”. In Parlamento hanno chiuso la porta con due giri di chiavi.
Tutto il resto è noia. Alla Banale 5.