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Indagato un carabiniere. Lo scandalo Tidei esalta i falsi garantisti

Garantisti pettegoli, giornalisti benpensanti ma pruriginosi e strumentalizzatori a fasi alterne: c’è dentro l’intero bestiario dei finti garantisti nella vicenda che coinvolge il sindaco di Santa Marinella, nella città metropolitana di Roma, che è caduto in uno scandalo sessuale ripreso dalle telecamere installate nel palazzo del Comune dopo una sua denuncia. Pietro Tidei, 77 anni, ex Pci, poi nei Ds, oggi nel Pd, due volte deputato, due volte primo cittadino di Civitavecchia e al secondo mandato a Santa Marinella, ha denunciato per corruzione due consiglieri e il titolare dell’Isola del Pescatore, famoso ristorante della zona.

Il sindaco Pd di Santa Marinella, Pietro Tidei, nel tritacarne da giorni. E strumentalizzato per attaccare le toghe

Il sistema di sorveglianza degli investigatori però registra il sindaco che in una sala vicino all’Aula consigliare consuma un rapporto sessuale con una donna. Quando le indagini si chiudono il consigliere comunale Roberto Angeletti acquisisce tramite il suo avvocato quasi tutte le registrazioni. Il video dell’episodio pruriginoso era stato classificato come “irrilevante”, ma gli avvocati contestano la classificazione e decidono di acquisirlo. Il video comincia a circolare. Il sospetto dei magistrati, che nel frattempo hanno aperto un’indagine per revenge porn, è che sia stato proprio Angeletti a farlo circolare.

Ovviamente l’adulterio del sindaco scatena la curiosità e le voci in città. La stampa locale e nazionale parte alla caccia della presunta amante di Tidei che rilascia anche interviste. Al sindaco finito tra le maglie della sua stessa denuncia si aggiunge quindi lo sconforto del presunto marito tradito che chiede (ai giornalisti) di avere conferme sull’infedeltà della moglie. Un romanzetto boccaccesco di provincia che imbarazza i dirigenti del Partito democratico laziale che per ora non hanno preso posizione. È a questo punto che spuntano i garantisti pettegoli. Vedendo la possibilità di usare la fornicazione del sindaco per martellare magistratura e intercettazioni i “garantisti” si sprecano in lunghi editoriali in cui lamentano “la privacy violata” di Tidei, “il disfacimento di due famiglie” e “la vergogna della giustizia italiana”.

A nessuno viene in mente che chi ha compiuto le indagini non avesse nessun interesse per quella vicenda minore rispetto ai fatti che stavano approfondendo. Come capita spesso in questo Paese di martellatori della magistratura travestiti da garantisti sulle stesse pagine che raccolgono i loro lamenti ci sono anche gli articoli pruriginosi. Tutto sullo stesso giornale. Qualche giorno fa anche Matteo Renzi si cimenta in un editoriale in cui esprime “solidarietà più totale alla nostra amica Marietta Tidei”, consigliera regionale di IV, “e alla sua famiglia, costretta da giorni a subire una vergognosa aggressione mediatica”.

La vicenda personale degli incontri hot del primo cittadino del comune romano trasformata in battaglia politica contro i magistrati

Sul quotidiano Il Foglio, Giuliano Ferrara ne approfitta per difendere il defunto Silvio Berlusconi con un editoriale dal titolo “Dal Cav. al sindaco di Santa Marinella, la morbosa e villana caccia al sesso degli altri”: “Le battaglie sessuali di Pietro Tidei e delle Marinelline in suolo pubblico sono frizzi e lazzi. E i moralisti?”, si chiede Ferrara. Ieri però la Procura ha disposto il sequestro dei dispositivi elettronici di una poliziotta sorella dell’indagato Angeletti e di un carabiniere.

Ricapitolando: chi attacca la magistratura e le intercettazioni finge di non accorgersi che il “caso Tidei” è molto probabilmente figlio di qualche uomo di Stato infedele e di un giornalismo guardone. Ma i garantisti fingono di non accorgersene poiché sarebbero costretti a riconoscere che le leggi ci sono e funzionano. Sono proprio loro a trasformare una “vicenda personale” in una battaglia politica contro la magistratura. E sono sempre loro a lamentarsene.

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Sulla decretazione d’urgenza ha perso la pazienza perfino la maggioranza. Immaginatevi noi

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si era raccomandato: basta con i decreti omnibus. Il governo quindi ieri ha pensato di farne votare uno. Non solo: in una Repubblica fiaccata da anni da una decretazione d’urgenza che utilizza le maggioranze parlamentari come pulsantificio il governo Meloni è riuscita a battere un record arrivando a sette decreti nell’ultimo mese sfondando il primato precedente che si era fermato a cinque.

Ieri al Senato s’è votata una legge che avrebbe dovuto occuparsi di processi penali e civili in cui si parla anche di tossicodipendenze, di interventi sulla cultura, di pubblica amministrazione e, per non farsi mancare nulla, anche di piromani.

Ha perso la pazienza perfino il presidente della Commissione Affari Istituzionali Alberto Balboni che fa parte del gruppo di Fratelli d’Italia, partito di maggioranza e della presidente del Consiglio. E’ facile immaginare cosa ne pensino gli altri, quelli che dall’opposizione hanno come unica possibilità l’opporsi via stampa o in piazza poiché in questo Parlamento non c’è spazio per parlarne. 

«Qui ripetiamo la solita nenia e così anche la nenia diventa prassi. Propongo a tutte le opposizioni di andare tutti insieme da Mattarella, magari il 22 ottobre, quando il governo compie un anno», ha detto ieri Riccardo Magi di +Europa invitando tutti i leader dell’opposizione a bussare al presidente della Repubblica perché intervenga. Ci andranno, certo, con qualche imbarazzo poiché anche loro al governo hanno seguito la stessa solfa. Qui la prima pietra non la scaglia nessuno. 

Buon giovedì.

Nella foto: la presidente del Consiglio firma il patto anti inflazione, 28 settembre 2023 (governo.it)

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Ventuno morti sull’asfalto. Ma Salvini si occupa di altro

Nel giorno in cui tutta Italia segue con apprensione la tragedia accaduta a Mestre, con l’incidente di un pullman che ha provocato 21 morti e 18 feriti, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini ha altro di cui occuparsi. Più delle pessime condizioni del guardrail, a disturbare il leader leghista è un “mi piace” messo su Facebook dalla giudice Iolanda Apostolico, colei che rispettando la legge ha smontato in men che non si dica il cosiddetto “Decreto migranti” licenziato dal governo.

Nel giorno in cui tutta Italia segue con apprensione la tragedia accaduta a Mestre il ministro dei Trasporti Salvini ha altro di cui occuparsi

Riprendendo un articolo del sito affaritaliani.it in cui si legge che la giudice avrebbe apprezzato un post del marito con considerazioni non benevole nei suoi confronti, Salvini scrive sui suoi social: “Domando a voi: ma è normale che un magistrato di Catania metta “mi piace” a post – del marito – che insultano il sottoscritto quando ero ministro dell’Interno, e poi decida di smentire i decreti del governo in materia di immigrazione?”. Gli rispondiamo prontamente.

Sì, è normale che un magistrato abbia delle legittime idee politiche. È normale che nel privato disistimi questo o quel leader politico al di fuori dell’esercizio della propria funzione. Un po’ meno normale è questa abitudine tutta italiana di frugare nei “mi piace” su Facebook e nel privato dei magistrati per infangarli nelle loro funzioni. Ancora meno normale è un ministro che si occupa del proprio ego nel giorno di una tragedia che riguarda le competenze del suo ministero. Dalle parti del governo sono fatti così. Per loro è “libertà di espressione” un generale che sputa odio contro stranieri e gay, ma è un peccato mortale un giudice che liberamente li disistimi. Torni a lavorare, ministro.

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La Meloni a capo chino. Pronta al mea culpa dopo gli insulti a Scholz

In questi giorni la diplomazia italiana è indaffarata per organizzare un incontro bilaterale, domani a Granada, in Spagna, quando la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il cancelliere tedesco Olaf Scholz parteciperanno al Consiglio europeo. Lo scopo, dicono da Palazzo Chigi, è quello di provare a appianare lo scontro tra Italia e Germania di questi ultimi giorni: ricomporre i rapporti per l’Italia è fondamentale per sbrogliare la matassa europea sull’immigrazione e soprattutto per non correre rischi a Bruxelles in occasione della prossima Legge di Bilancio che il governo si prepara a varare.

Domani a Granada il bilaterale Italia-Germania. Meloni deve ricucire con il cancelliere Scholz per evitare guai

È la consueta Meloni bifronte, sovranista in Italia e mansueta in Europa, che corre a riparare i danni che lei stessa provoca e rintuzza per non rimanere isolata sul fronte europeo. Solo lo scorso 25 settembre Meloni aveva scritto a Scholz per esprimere i suoi dubbi sui finanziamenti tedeschi alle navi umanitarie. “Ho appreso con stupore che il Tuo Governo – in modo non coordinato con il Governo italiano – avrebbe deciso di sostenere con fondi rilevanti organizzazioni non governative impegnate nell’accoglienza ai migranti irregolari sul territorio italiano e in salvataggi nel Mare Mediterraneo”, scriveva nella missiva la presidente del Consiglio. Alle rimostranze di Meloni si aggiunsero quelle del ministro della Difesa Guido Crosetto, che in un’intervista aveva definito “molto grave” il finanziamento di Berlino.

Anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha parlato di “atteggiamento strano” e ha annunciato un viaggio per chiedere chiarimenti alla collega Annalena Baerbock. La Germania rispose – piuttosto piccata – di avere informato già da un anno l’ambasciata italiana dell’intenzione di finanziare alcune Ong poiché ritiene indispensabile “salvare vite umane”. Il giorno successivo ad aggiungere benzina sul fuoco ci pensò il vicesegretario della Lega Andrea Crippa parlando con Affaritaliani: “Ottant’anni fa il governo tedesco decise di invadere gli stati con l’esercito ma gli andò male, ora finanziano l’invasione dei clandestini per destabilizzare i governi che non piacciono ai socialdemocratici”, aveva tagliato corto Crippa, dicendo probabilmente quello che il suo segretario Matteo Salvini avrebbe voluto ma non poteva dire.

Dopo gli attacchi al cancelliere tedesco sui migranti la nostra presidente del Consiglio teme la bocciatura della Manovra

La strampalata teoria di Crippa si basa sull’idea che “sicuramente in Germania non vogliono ne Salvini ne Meloni e vorrebbero o un governo tecnico, Monti o Draghi o chicchessia, o di sinistra, Schlein o altri”. Il 28 settembre è toccato al ministro agli Esteri Tajani provare ad abbassare i toni. Incontrando a Berlino, come detto, la sua omologa in Germania, la responsabile degli Esteri Annalena Baerebok, Alla quale chiarì che “nessuno fa la guerra alle ong però non possono essere una sorta di calamita per attrarre migranti irregolari che poi, guarda caso, vengono portati sempre e soltanto in Italia perché è il porto più vicino” invitando la Germania a sforzi finanziari “su soluzioni strutturali della questione migratoria”. “La Germania è un Paese amico – ha detto in quell’occasione Tajani – ma l’amicizia non impedisce di sottolineare che ci sono dei problemi che comunque non intaccano l’amicizia storica”.

La responsabile degli Esteri in Germania Baerebok ha stemperato i toni spiegando ai giornalisti che “se una lettera e la questione del finanziamento delle ong costituiscono l’unico problema tra due Paesi, saremmo ben lieti che i problemi si riducessero a questo”. Le dichiarazioni di Crippa vennero derubricate a “opinioni personali di un parlamentare, non del governo” ma probabilmente la Germania non ne è completamente convinta. Arrivati a questo punto a Giorgia Meloni non resta che fare ciò che da un anno le viene meglio: ripresentarsi con le orecchie basse di fronte ai capi di Stato dei Paesi europei fingendo che le parole con cui concima il consenso in patria siano semplici “errori” di qualcuno dei suoi. Ottenute le scuse ricomincerà – c’è da scommetterci – a farlo di nuovo.

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La balla dell’emergenza sbarchi. I numeri affossano la propaganda delle destre

A riportare la discussione sulle migrazioni nei binari delle giuste proporzioni è stato ieri Flavio di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) nel decimo anniversario della strage di Lampedusa: “Non c’è nessuna emergenza, i numeri sono gestibili”. Forse bisognerebbe partire da qui per ricostruire un dibattito scevro da populismi xenofobi e da confusioni. “La politica continua a raccontare come fosse un’emergenza un fenomeno strutturale”, ha spiegato di Giacomo ieri in occasione del decimo anniversario della strage di Lampedusa, costata la vita a 368 persone morte nel naufragio del barcone su cui viaggiavano a poche miglia dalle coste dell’isola.

Flavio di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim): “Non c’è nessuna emergenza, i numeri sono gestibili”

“Quest’anno sono arrivate 130mila persone, un numero che l’Italia ha già sperimentato nel 2015-2016, un numero non altissimo se pensiamo al milione quasi arrivato in Grecia nel 2015. Numeri gestibili. Solo che nel 2016 le persone venivano salvate in mare e portate nei porti siciliani. Solo l’8 per cento arrivava a Lampedusa. Quest’anno, invece, in mancanza dello stesso sistema di soccorso chi parte dalla Libia e dalla Tunisia arriva direttamente a Lampedusa. Ci troviamo di fronte a quella che non è un’emergenza numerica, né per l’Italia né per l’Europa, ma a un’emergenza operativa e logistica per Lampedusa, e a un’emergenza umanitaria per il numero di morti in mare”.

Per il portavoce dell’Oim “da dieci anni siamo qui a dire le stesse cose”: “nel 2013 di fronte alle 368 bare i politici di tutto il mondo vennero a Lampedusa per dire ‘mai più morti in mare’. A distanza di 10 anni abbiamo 28mila vittime in tutto il Mediterraneo, 23mila circa in quello centrale e quest’anno oltre 2.093 nel Mediterraneo centrale”, aggiunge, ricordando come all’indomani della strage di Lampedusa nacque “l’operazione Mare nostrum che salvò oltre 150mila vite nel 2014”.

Dal 2016-17 – ricorda di Giacomo – le cose iniziarono a cambiare. Sono intervenute le ong che hanno colmato il vuoto lasciato dagli Stati, ma nel tempo hanno iniziato a essere ostacolate. Il salvataggio in mare, che prima era una priorità assoluta anche per chi era contrario ai flussi migratori, improvvisamente è iniziato a essere un po’ meno una priorità per l’Europa”. Di Giacomo punta il dito su “un sistema di soccorso ampiamente sufficiente” sottolineando come occorra “un sistema di pattugliamento europeo che salvi le persone e le porti in un porto sicuro.

Invece, in questi ultimi anni chi parte dalla Libia e viene intercettato in mare dalla Guardia costiera libica è riportato indietro in centri di detenzione, le cui condizioni inumane sono note a tutti”. Per il portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni “la politica non ha saputo raccontare il fenomeno migratorio. Si parla sempre di flussi via mare, ma la migrazione è molto di più. Sono i 5 milioni di migranti che vivono regolarmente in Italia e contribuiscono al 9 per cento del Pil, è una risorsa enorme”.

Per l’Organizzazione internazionale per le migrazioni le soluzioni sono l’apertura di canali regolari, salvare le vite in mare e cominciare a pensare alla migrazione come un fenomeno fondamentale per la nostra società. “L’Europa ha una crisi demografica enorme, – spiega di Giacomo – tra 20-30 anni in Italia e in Ue ci saranno quasi più persone in pensione che in età lavorativa. E’ evidente che abbiamo bisogno di immigrazione. I governi dovrebbero prendersi carico di una gestione lungimirante del fenomeno nel lungo termine, una gestione che guardi ai prossimi 15-20 anni. Bisogna cambiare la narrazione e le politiche per gestire un fenomeno da trattare come una risorsa”.

Che non ci sia nessuna “invasione” lo ripete da tempo anche l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) che conta quasi un milione di persone sbarcate in Italia negli ultimi dieci anni a fronte di una popolazione straniera italiana che non cresce. Anche i “nuovi italiani” (fino a 10 anni dall’acquisizione della cittadinanza, che già richiede in media più di 10 anni per essere ottenuta) negli ultimi due anni si sono assestati sugli stessi numeri. In Germania – per avere un’idea delle proporzioni – la popolazione nata all’estero è aumentata di 5 milioni dal 2015 al 2021 secondo Eurostat.

Nello stesso periodo in Italia l’aumento è di nemmeno mezzo milione. Anche l’impatto economico dell’invasione che non esiste è ben diverso dalle stime allarmistiche agitate dal governo: Un milione di persone in dieci anni sono 100mila l’anno. Lo 0,2% della popolazione italiana. Il costo di gestione di 100mila persone è di 1,3 miliardi di euro l’anno, ovvero lo 0,1% della spesa pubblica italiana. Soldi che, tra le altre cose, arrivano dall’Unione europea e non possono essere usati per altri capitoli di bilancio.

A metà maggio di quest’anno secondo le stime dell’agenzia Onu per i i rifugiati in Europa c’erano 8,2 milioni di profughi ucraini, scappati dalla guerra provocata dall’invasione russa. Circa 5 milioni hanno ricevuto la protezione temporanea, una forma di asilo che negli ultimi 20 anni non era mai stata implementata per altre categorie di profughi.L’Italia ha inoltre avviato un modello di accoglienza del tutto nuovo, basato sul ricorso alla pratica dell’accoglienza diffusa e al contributo di sostentamento. Il secondo ha funzionato meglio della prima e pertanto il sistema ha sicuramente dei margini di miglioramento. Forse il problema di questi banalmente è che sono neri.

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E alla fine arrivarono i manganelli

E alla fine arrivarono, previsti, anche i manganelli. Dopo la violenza che c’è nel criminalizzare i poveri, nel rivittimizzare coloro che si mettono in mare per scappare dalla fame e dal piombo e dopo quella che c’è verso chiunque non sia allineato è arrivata la violenza fisica contro gli studenti. Vale la pena ricordare che sono gli stessi studenti a cui è stato promesso un Pnrr che avrebbe sensibilmente migliorato le loro vite e le loro possibilità di studio. Non sta andando così.

Gli studenti manganellati ieri a Torino sono ragazzi giovanissimi a mani nude, non incappucciati, perfettamente riconoscibili. La loro criminalizzazione sui quotidiani di oggi sono manganellate aggiuntive, questa volta su carta. 

Si dice in queste ore che gli scontro con gli studenti ci sono sempre stati. È vero. Ma la Polizia eccede con il manganella quando è consapevole che il governo di turno tifa per le legnate e sarà disposta a difenderle se non addirittura a premiarle. Che l’Italia sia tra gli 86 Paesi che secondo Amnesty International usano illegalmente la forza come risposta a proteste pacifiche per questi è addirittura un vanto.

Ci sarebbe da capire chi difendesse la Polizia: Giorgia Meloni? La presidente del Consiglio ieri a Torino non è mai stata lontanamente in pericolo. Agitavano i manganelli perché i giovani “hanno rotto il cazzo”, come diceva quell’ispettore di Polizia ripreso in un video?

La differenza più rilevante però è l’esibizione fiera della propria insofferenza verso la piazza. «Se le contestazioni sono dei centri sociali lo considero perfettamente normale. Anzi, mi ricorda che sono dalla parte giusta della storia», ha detto Meloni. Come dire “abbiamo vinto noi e quindi dovete stare zitti”. Il senso di democrazia. 

Buon mercoledì.  

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C’è un fantasma al Senato. Quello dei diritti umani

La vicenda l’ha ricostruita Lorenzo Sangermano su Repubblica: al Senato c’è una commissione sui diritti umani che in nove mesi non è mai stata convocata, che non ha un presidente e i cui membri non sanno di farne parte. Istituita per la prima volta nel 2001, la Commissione avrebbe molto di cui occuparsi: dal processo per gli assassini di Giulio Regeni, dai diritti dei migranti e le violazioni nei Cpr in territorio italiano fino agli italiani arrestati all’estero come Khaled El-Qaisi passando per i rapporti del nostro Paese con altri Stati (come la Libia, l’Arabia Saudita e la Tunisia), la violazione dei diritti umani è un tema che interseca molta attività del governo. Però dopo la mozione che ha dato atto della formazione della commissione non ci sono più notizie.

Al Senato c’è una commissione sui diritti umani che in nove mesi non è mai stata convocata, che non ha un presidente e i cui membri non sanno di farne parte

A giugno di quest’anno i partiti avrebbero dovuto mettersi d’accordo su chi dovesse esserne il presidente ma evidentemente quella posizione è considerata di poco interesse oppure troppo scomoda. Il senatore del Partito democratico Filippo Sensi lo chiede senza troppi giri di parole: “Così per dire: la Commissione Diritti Umani del Senato, che nasce sulla carta lo scorso gennaio, non si è ancora MAI riunita. I suoi componenti sono stati indicati, ci sono. Cosa stiamo aspettando?”, ha scritto.

Occuparsi dei cittadini vittime di violenza e di sopraffazione dovrebbe essere una delle priorità di un governo, ancor di più di un governo retto da coloro che vorrebbero sembrare “forti”. Dal governo Meloni però non arriva nessuna risposta. I diritti umani per loro sono qualcosa da usare in qualche post sui social per aumentare i like o l’indignazione. O forse sono troppo impegnati a difendere le pesche.

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Il Governo fa cassa sulla salute. Colpo di grazia alla sanità

Alla fine quando c’è da tagliare si finisce sempre lì. L’incidenza della spesa per la sanità sul Pil, tra il 2020 e il 2025, scenderà dal 7,4% la 6,2%, cioè 1,2 punti in meno. È scritto nella Nadef approvata lo scorso 27 settembre dal Consiglio dei ministri. Mentre un italiano su cinque rinuncia alle cure il Governo Meloni scegli di tagliare ancora il Servizio sanitario nazionale.

Fratelli d’Italia prometteva di abbattere le liste d’attesa. Invece sta tagliando le risorse destinate alla sanità di altri due miliardi

“Un atteggiamento gravissimo e incomprensibile che non faremo passare sotto silenzio. – dice la segretaria del Partito democratico Elly Schlein -. Tutte le persone devono sapere che Meloni mentre cerca un nemico al giorno sta smontando pezzo per pezzo il nostro diritto alla salute”. Il responsabile economico del partito Antonio Misiani sottolinea come “per riportare la spesa sanitaria pubblica in rapporto al Pil al livello del 2022 (6,7%) servirebbero nel 2024 oltre 10 miliardi in più” e come lo stesso ministro Orazio Schillaci (nella foto) ne abbia richiesti almeno 4. “Ma nemmeno su questo obiettivo minimale il governo Meloni ha preso impegni concreti”, dice Misiani, che sottolinea come la scelta di rivedere il Pnrr tagliando “di oltre un quarto sia le case che gli ospedali di comunità” sia “una scelta politica precisa di disinvestimento e privatizzazione della sanità pubblica”.

Per il capogruppo dell’Alleanza Verdi e Sinistra Peppe De Cristofaro, presidente del gruppo Misto di Palazzo Madama, “per un sistema sanitario già in difficoltà per la cronica mancanza di personale sanitario dovuto a decenni di tagli lineari, con liste di attesa da paese del terzo mondo, con diseguaglianze nell’accesso alle cure e carenze strutturali questi tagli rischiano di essere la pietra tombale del servizio sanitario nazionale, pubblico e universalistico”. Il leader di Azione Carlo Calenda chiede ai partiti di opposizione di fare fare presto fronte comune: “Sanità, scuola e salari sono priorità su cui non possiamo mollare”, è il messaggio per gli altri leader di partito.

Per il Mattarella il Servizio sanitario nazionale sia “un patrimonio prezioso, da difendere e adeguare”

Sulla questione ieri è intervenuto anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella salutando i governatori riuniti a Torino per il festival delle Regioni a Palazzo Reale che ha sottolinea come il Servizio sanitario nazionale sia “un patrimonio prezioso, da difendere e adeguare” auspicando un dialogo “con il Paese e con la società”. Sono lontani i tempi in cui Giorgia Meloni prometteva in campagna elettorale una sanità che offrisse “soluzioni di prossimità, in tempi ragionevoli, e di qualità”, augurandosi perfino “un’autorità Garante della Salute, indipendente a livello amministrativo, con poteri ispettivi e di segnalazione alle autorità competenti, a cui ogni cittadino possa rivolgersi per carenze di qualità o mancato accesso ai servizi”.

Se l’avesse costituita oggi sarebbe sommersa dalle lamentele dei cittadini, gli stessi a cui promette “l’abbattimento dei tempi delle liste di attesa” e “un efficiente sistema di cura territoriale e dall’attenzione a tutte le malattie”. I tagli alla sanità scontentano tutti, dal leghista Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia, presidente della Conferenza delle Regioni) a Stefano Bonaccini, Pd, ai vertici dell’Emilia-Romagna. Del resto lo smantellamento della sanità pubblica è un percorso che parte da lontano. In dieci anni, dal 2010 al 2020, i tagli ammontano a trentasette miliardi di euro, tra ospedali, medicina territoriale, macchinari e personale – costretto alla fuga da una sanità pubblica che paga poco e fa lavorare male.

Negli ultimi dieci anni i medici ospedalieri sono quattromimlaottocento in meno, gli infermieri noovemila, i medici di famiglia e le guardie mediche ottomila. 30.492 in meno sono i posto letti nella sanità pubblica in un decennio mentre i privati convenzionati (che scelgono solo i malati più redditizi) hanno raddoppiato le strutture passate da 445 a 993, ovviamente a carico delle Regioni. Non solo: oltre l’ottanta per cento delle apparecchiature diagnostiche è obsoleto e gli over 65 assistiti a domicilio non sono nemmeno il tre per cento contro quel dieci per cento indicato come minimo sindacale dallo stesso ministero della Salute.

L’ultimo rapporto Crea-Sanità di undici mesi fa aveva lanciato l’allarme: “Il SSN – si leggeva – appare essere arrivato ad un punto di non ritorno… L’ultimo rapporto Crea-Sanità di undici mesi fa aveva lanciato l’allarme: “Il SSN – si leggeva – appare essere arrivato ad un punto di non ritorno: o cambiano le condizioni al contorno o sarebbe colpevolmente ingenuo pensare di poter mantenere il servizio così come è; una pro- gressiva e non governata riduzione dei livelli di tutela genererebbe, infatti, un opting out dei più abbienti, sancendo di fatto la fine del sistema universalistico”.

Per riallinearci alla spesa degli altri Stati membri dell’Unione europea servirebbe quindi una crescita annua del finanziamento di dieci miliardi per cinque anni, circa, più quanto necessario per garantire la stessa crescita degli altri Paesi europei presi a riferimento, ovvero altri cinque miliardi. Il Governo Meloni ha scelto la strada opposta. Un anno dopo, invece, a pagare sono sempre i più fragili.

Leggi anche: Gli italiani non riescono più a curarsi ma il governo taglia sulla sanità. Quasi un cittadino su cinque deve rinunciare alle visite mediche, ma le destre tolgono miliardi al Servizio nazionale

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I disertori di Lampedusa

Oggi di loro non ci sarà nessuno. Nessun rappresentante del governo ricorderà a Lampedusa la strage di dieci anni fa in cui morirono 368 persone al largo dell’Isola dei conigli affondati a pochi metri dalla costa che avrebbe significato la loro salvezza. 

Giorgia Meloni e i suoi hanno deciso di disertare anche il ricordo, consapevoli che il popolo di Lampedusa non ha nulla a che vedere con la narrazione di un Paese dal cuore duro che “disincentiva i salvataggi in mare”, come candidamente ha confessato il responsabile alla cultura (!) di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone.

Oggi a Lampedusa non ci sarà il ministro all’Interno Matteo Piantedosi, colui che distingue gli “africani” dai “tunisini” poiché infantilmente divide il mondo tra amici e nemici. Non ci sarà Matteo Salvini che ancora bolle per non avere guadagnato un posto al sole in questa guerra ai disperati preferibilmente neri. 

“Arrivano tutti, da ogni parte del mondo, anche dalle Nazioni Unite, ma nessuna notizia da Palazzo Chigi e dintorni”, ha commentato con amarezza al Corriere della Sera Tareke Brhane, un tempo approdato da clandestino, poi assunto come mediatore, oggi presidente del Comitato che organizza la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, istituita formalmente dal Senato nel 2016.

A Strasburgo il Parlamento europeo oggi è riunito in sessione plenaria per commemorare i morti prima della sessione di mezzogiorno. Certo, c’è molta ipocrisia. Ma almeno c’è la dignità di non scappare. 

Buon martedì. 

Nella foto: la Porta d’Europa a Lampedusa illuminata alla mezzanotte del 3 ottobre in memoria di tutte le vittime del Mediterraneo (pagina fb Comitato tre ottobre)

Per approfondire, il libro di Left “Lampedusa isola aperta” a cura di Stefano Galieni. Per acquistarlo qui

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Tutta la verità sul Jobs Act di Renzi

Sono passati quasi dieci anni eppure una parte del centrosinistra sembra ancora inchiodato lì: il Jobs Act varato dal governo Renzi tra il 2014 e il 2016 dovrebbe essere nelle intenzioni di molti il monumento dell’abilità politica del Pd renziano rispetto al Pd di oggi.

A dieci anni dal varo del Jobs Act il dibattito nel Partito democratico tra renziani e nuovo corso è surreale

Il fatto che nel frattempo siano passati cinque governi e ben tre legislature dalla sua approvazione indica la stagnazione e per questo forse conviene fare un po’ di chiarezza. Dicono i sostenitori renziani (quelli che ora stanno nel partito di Renzi, Italia Viva, e quelli rimasti all’interno del Partito democratico) che le riforme contenute nel pacchetto Jobs Act parlano di “un milione di posti di lavoro” da quando la riforma è entrata in vigore fino al Decreto dignità del primo governo Conte che l’ha sostituito.

Come scrive Mattia Marmasti che per Pagella Politica ha messo in fila i numeri secondo i dati Istat dall’insediamento del Governo Renzi (2014) fino alla fine del 2016 (quando Renzi rassegnò le dimissioni) il numero degli occupati è passato da 22 milioni a 22,9 milioni. Su questo si basano le dichiarazioni di chi – Renzi e Boschi in primis – elogia il provvedimento. Ma gli occupati sono posti di lavoro? Non proprio. Pagella politica sottolinea come l’Istat consideri come “occupato” chi ha tra i 15 e gli 89 anni e nella settimana in cui sono stati raccolti i dati ha dichiarato di aver svolto almeno un’ora di lavoro retribuita.

Rientrano quindi tra gli occupati anche i lavoratori in ferie, in maternità o paternità, e quelli temporaneamente assenti per un periodo inferiore ai tre mesi. Gli occupati sono quindi una categoria più ampia di quella dei posti di lavoro, un’espressione che indica invece lavori più stabili. Per comprendere quanto la riforma renziana abbia impattato sull’aumento di occupati, al di là del contesto economico nazionale e dalla generale ripresa dell’economia del 2011 torna utile lo studio pubblicato dagli economisti Pietro Garibaldi e Tito Boeri (già presidente dell’Inps all’epoca del governo Renzi) nel 2019.

Decine di studi rivelano che la misura del rottamatore ha prodotto effetti negativi sui redditi

Lo studio confronta gli effetti del Jobs Act sulla dinamica occupazionale tra le imprese con più di 15 dipendenti e quelle con meno di 15, con cambiamenti trascurabili. Si scopre quindi che il Jobs Act ha sì aumentato il numero di contratti a tempo determinato del 60 per cento, ma ha aumentato anche i licenziamenti rispetto alle aziende non trattate. Una ricerca compiuta dagli economisti Valeria Cirillo, Marta Fana e Dario Guarascio dimostra anche che l’aumento dell’occupazione è avvenuto nei settori meno specializzati.

Anche lo studio sulla Regione Veneto di Paolo Sestito ed Eliana Viviano, economisti della Banca d’Italia, mostra l’impatto significativo in termini occupazionali a fronte di una minor selezione dei lavoratori. Son diversi gli studi (tra cui quello di Michele Catalano ed Emilia Pezzola) che dimostrano come il Jobs Act abbia prodotto un aumento del Pil e un calo della disoccupazione provocando però un calo della “quota salari”, ossia della parte di reddito nazionale che va ai lavoratori.

È arcinoto l’aumento degli occupati. Ma non quello dei licenziati

Sull’obiettivo fallito della creazione di nuovi contratti a tempo indeterminato cita un’analisi del think tank economico Tortuga secondo cui la riduzione del costo del lavoro attraverso la decontribuzione, ossia un incentivo economico, avrebbe avuto i suoi effetti nella lotta alla precarietà. Ma non si potrebbe dire lo stesso dell’incentivo legislativo, ossia il contratto a tutele crescenti, che non avrebbe avuto un impatto significativo.

Il motivo, secondo vari economisti, è che il contratto a tutele crescenti non è stato correttamente incentivato, a differenza di quanto accaduto per vari tipi di contratto a tempo determinato. Quindi no, il Jobs Act non è stato salvifico e non è la pietra angolare delle riforme del lavoro negli ultimi anni. I renziani possono mettersi il cuore in pace e il centrosinistra potrebbe concentrarsi sulle riforme che servono. Sventolare un feticcio serve solo alla sopravvivenza politica del suo autore.

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