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Fiasco Rai firmato Pino Insegno. Il mercante in fiera vende il flop delle destre

Ha trascorso gli ultimi mesi lamentandosi di una dittatura ostile che l’avrebbe escluso dalla televisione. Poi quando finalmente ha ottenuto la sua trasmissione in Rai (con l’amica Giorgia Meloni al governo) si scopre che a non guardarlo sono i telespettatori, mica i dirigenti. Lunedì 25 settembre Pino Insegno ha debuttato con la sua trasmissione Il mercante in fiera in fascia preserale su Rai2.

Ascolti a picco per Il mercante in fiera. Insegno su Rai2 è passato dal 3,4% del debutto all’1,9% della terza puntata

Il risultato è stato da brividi: il 3.4% e una media di 638mila spettatori, superato anche da Via dei Matti N. 0 con Stefano Bollani e Valentina Cenni che, su Rai3, hanno totalizzato il 4.5% di share con 904mila appassionati. Insegno è stato battuto anche dalla serie CSI Miami su Italia1 con i suoi 695mila spettatori (3.9%) e in valori assoluti anche dalla soap di Rete4 Tempesta d’Amore, che ha segnato invece 651mila affezionati (3.4%). Ancora peggio la terza puntata che ha totalizzato l’1,9% con 358.000 spettatori.

Non potendo accusare sabotatori comunisti (ormai in Rai la vicinanza con il governo è un prerequisito essenziale) Insegno ci aveva spiegato che il risultato della sua prima puntata “non è un flop”. “Gli ascolti sono buoni, – aveva commentato il conduttore nella giornata di martedì parlando con Adnkronos) in linea con la rete, un po’ più alti, la cosa bella è che finiamo il programma al 5% di share quindi il programma è andato in crescendo e ha chiuso in grande crescendo. Quello che dobbiamo fare noi ora è cercare di raddoppiare gli ascolti di quella fascia’’.

Secondo Insegno i telespettatori avrebbero bisogno di “scoprire che c’è un programma”: “andrà sempre meglio”, ha assicurato. In realtà il comico non la dice tutta: l’anno scorso, infatti, – come nota Marco Zonetti per Dagospia – il telefilm Blue Bloods, con la replica dell’episodio dal titolo Interferenza (andato in onda la prima volta il 15 maggio 2020) ottenne ben 906mila spettatori con il 4.91%.

Il telefilm precedente, Hawaii Five 0, con l’ennesima riproposizione dell’episodio Nella rete (andato in onda per la prima volta nel lontano 26 agosto 2012…), fece 519mila spettatori con il 3.72%, una percentuale di share più alta di quella di Insegno. C’è un’altra piccola differenza: lo show di Insegno costa molto più di una vecchia replica poiché è realizzato da una società esterna, la Banijay.

Vi ricordate quando la destra tuonava contro il programma di Fabio Fazio perché si avvaleva di esterni? Ecco, esattamente così. Solo che Fazio in Rai raccoglieva numeri che ingolosivano gli inserzionisti e si ripagava da solo. Il giorno successivo, martedì 26, la trasmissione si preparava quindi per veleggiare verso il raddoppio. Com’è andata La seconda puntata si è fermata al 2.0% di share con 364mila spettatori. Sostanzialmente metà delle persone che hanno seguito il debutto hanno preferito guardare altro.

Il conduttore amico della Meloni lamentava l’ostracismo della tv pubblica. Ora ha un programma ma il pubblico latita

Ora in Rai cominciano a preoccuparsi sul serio. Se è vero che il format della trasmissione è la brutta copia di un fallimento che risale a diciassette anni fa (allora andava in onda su Italia 1) in viale Mazzini preoccupa la conduzione de L’eredità che partirà da gennaio, con Insegno al posto di Flavio Insinna. Una fallimento in quel caso peserebbe non poco sulle casse dell’azienda pubblica.

Pino Insegno negli ultimi mesi si è difeso dall’accusa di essere tornato in Rai per la sua vicinanza alla premier esibendo i suoi quarant’anni di carriera. Quando gli è stato chiesto perché fosse andato per ben due volte a Palazzo Chigi per appuntamenti privati con la presidente del Consiglio ha giustificato le sue visite con alcune iniziative per sostenere malati di Sla e perché “il caffè è buono”. “Con FdI mi sono sentito di stare vicino a un cambiamento, con la speranza che sia reale, importante”, ha detto in una recente intervista. Ora gli conviene sperare anche un po’ per se stesso.

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L’Italia affonda, Meloni esalta la pesca dell’Esselunga

Giorgia Meloni, così indaffarata come ama raccontarsi e così schiva quando c’è da rispondere alle domande ieri ha trovato il tempo di affrontare un tema che affligge il Paese: l’ultimo spot pubblicitario della catena di supermercati Esselunga, da sempre molto vicina ai partiti di governo.

Protagonista della réclame della catena di supermercati Esselunga la figlia di genitori separati. Alla faccia della famiglia tradizionale

La protagonista del cortometraggio è una bambina – Emma – figlia di genitori che solo alla fine si scopre essere separati. Compera una pesca assieme alla mamma e la regala poi al papà, dicendo però che gliela manda la mamma. Sui social c’è chi confronta il nuovo spot ai classici del Mulino Bianco, sottolineando che “finalmente viene raffigurata una famiglia reale e non immaginaria” e c’è chi invece si mette dalla parte dei bambini sostenendo che la vicenda di Emma “risveglia sofferenze in chi ha provato l’esperienza della separazione”.

Una cosa è certa: il feticcio della famiglia tradizionale (e quindi indissolubile) ha mandato in solluchero gente come l’ex senatore Pillon e i tradizionalisti più convinti. Ieri è arrivato anche l’agognato parere della presidente del Consiglio: “Leggo che questo spot avrebbe generato diverse polemiche e contestazioni. Io lo trovo molto bello e toccante”, ha scritto sui social Meloni.

Che mentre il Paese affonda dietro a decine di emergenze ha ritenuto fondamentale esprimere la propria opinione politicizzando uno spot pubblicitario di un imprenditorie privato (amico suo) sul solco della migliore politica figliastra delle televendite. Del resto Meloni non ha il problema di separarsi, non essendo ancora sposata come pretenderebbe la famiglia tradizionale che insistentemente propugna.

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L’ipocrisia (ancora) su Giulio Regeni

L’Egitto non può impedire che l’Italia processi gli imputati per il sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni, e il giudizio nei loro confronti potrà celebrarsi anche in loro assenza. Lo ha stabilito la Corte costituzionale che ha annunciato oggi la sua decisione.

La Consulta ha raccolto la richiesta avanzata dalla Procura di Roma per sbloccare il processo contro quattro appartenenti alle forze di sicurezza della Repubblica araba d’Egitto: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Mohamed Athar Kamel e Helmy Uhsam, il maggiore Magdi Ibrahim Sharif. Sono accusati di aver rapito al Cairo, la sera del 25 gennaio 2016, il ricercatore italiano Giulio Regeni, ritrovato cadavere lungo la strada per Alessandria il 3 febbraio successivo. Il maggiore Sharif è accusato anche delle percorse e dell’omicidio di Giulio.

Il processo si è incagliato per la reticenza dell’Egtto e del suo presidente al Sisi. Verrebbe da pensare che un atteggiamento del genere da parte delle autorità egiziane abbia fatto perdere la pazienza anche alla politica, soprattutto con un governo che si professa sovranista, in difesa “della Patria” e occupato a fare ottenere giustizia “prima agli italiani”.

Niente di tutto questo. Alice Franchini, responsabile campagne di EgyptWide, ieri ci ha fatto sapere che «l’export di armi italiane all’Egitto non solo non si è ridotto, come qualcuno sostiene, ma dal 2018 osserviamo un trend di crescita costante»: il volume è passato dai 35 milioni di euro del 2021 ai 72 milioni del 2022. Praticamente il doppio.

Buon giovedì. 

foto del Comune di Torino – Comune di Torino, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=48032436

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Italiani alla canna del gas. Santanchè li vuole in vacanza

Allergica alle interviste come la sua presidente del Consiglio Giorgia Meloni, la ministra del Turismo Daniela Santanchè ha scritto una lettera al quotidiano Libero per spiegarci che “chi viaggia esce dal suo ambiente per andare verso un altro, ed è qui che avviene l’incontro tra culture, tradizioni e stili di vita differenti, che genera un patrimonio di ricchezza, immateriale ed economico, che contribuisce alla crescita di una Nazione. Il valore del turismo – dice la ministra -, quale motore culturale e acceleratore economico, è alla base del lavoro che governo e ministero stanno facendo per portare il comparto a essere la prima industria italiana e traino del Pil”.

Il problema secondo la ministra del Turismo Daniela Santanchè è che gli italiani vanno in vacanza troppo poco

Il problema secondo ministra che ha promesso di portare “l’azienda Italia” ai vertici mondiali del turismo è che gli italiani vanno in vacanza troppo poco. “Dobbiamo emanciparci dal concetto di stagionalità”, dice Santanchè, inorridita dal fatto che questi bifolchi degli italiani visitino il mare per qualche settimana d’estate e solo alcuni di loro anche la montagna d’inverno.

Deve esserle sfuggita – come spesso le accade – la realtà dei cittadini che dovrebbe governare: a mancare agli italiani non sono i soldi per le vacanze ma molto più prosaicamente i soldi per arrivare a fine mese, più che per arrivare in una località turistica. Se avesse trovato il tempo di leggere i dati avrebbe scoperto – immaginiamo con stupore – che oggi in Italia sono le spese per mangiare, per scaldarsi e per riempire il serbatoio dell’auto a impedire “l’incontro tra culture” degli italiani. Di una cosa siamo sicuri: per la ministra qualsiasi eventuale fallimento sarà, come sempre, colpa dei cittadini.

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Migranti, la Tunisia ridicolizza Meloni e Bruxelles

Ci sono molti modi per fallire e il governo Meloni sull’immigrazione ha scelto il peggiore: rendendosi ridicolo. Nella lettera della presidente del Consiglio Giorgia Meloni al cancelliere tedesco Scholz, ad esempio, torna in auge la teoria del cosiddetto “pull factor”, ovvero delle Ong che spingerebbero i migranti a imbarcarsi nel Mediterraneo aumentando sensibilmente le partenze.

Intanto Carroccio e Fratelli d’Italia continuano a diffondere la falsa teoria del pull factor

È questo il motivo per cui il ministro alle Infrastrutture Matteo Salvini da due giorni insiste a denunciare un “atto ostile” da parte della Germania che ha deciso di finanziare alcune organizzazione non governative che operano anche in Italia. Il loro ragionamento è semplice, persino banale: se le Ong aumentano gli sbarchi pagare le Ong significa mettere l’Italia nella condizione di subire una pressione migratoria maggiore. Ma se non fosse così? Se non fosse così saremmo di fronte all’ennesima patetica bugia di chi cerca lo scontro istituzionale per alzare i toni e fare incetta di qualche manciata di voti. E infatti non è così.

Come osserva Pagella politica che ha analizzato i numeri (e su quelli non si può mentire) dall’inizio del 2023 sono sbarcati sulle coste italiane oltre 133 mila migranti, quasi il doppio rispetto allo stesso periodo del 2022 e il triplo rispetto allo stesso periodo del 2021. In compenso la percentuale di migranti salvati dalle navi Ong nel Mar Mediterraneo è diminuita sia in valore assoluto sia in percentuale. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, nei primi sette mesi di quest’anno le Ong hanno salvato meno di 4 mila migranti, circa il 4 per cento sul totale di quelli soccorsi in mare.

Così i sovranisti cercano di scaricare sulle Ong la colpa del loro fallimento sugli sbarchi

Nei primi sette mesi del 2022 questi numeri erano stati pari rispettivamente a oltre 6 mila e al 15 per cento. In totale i migranti soccorsi tra gennaio e luglio 2023 sono stati quasi 65 mila, nello stesso periodo del 2022 erano stati circa un terzo. Basta una semplice occhiata ai numeri per capire già di primo acchito quindi che non ci sia nessun collegamento. A settembre 2020 è stata pubblicata una ricerca realizzata da Eugenio Cusumano, ricercatore in Relazioni internazionali dell’Università di Leiden, nei Paesi Bassi, e da Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).

I due ricercatori, aggiornando un loro studio del 2019, si sono chiesti, numeri alla mano, quanto fosse solida la teoria del pull factor. Per rispondere a questa domanda, hanno analizzato i dati delle partenze dei migranti dalle coste della Libia avvenute tra gennaio 2014 e l’inizio di gennaio 2020. Le fonti di questi dati sono la Guardia costiera italiana, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr).

Secondo lo studio, gli unici fattori che nell’arco di tempo analizzato hanno avuto un impatto nell’aumento del numero delle partenze sono stati le condizioni meteo (quelle favorevoli incentivano le traversate in mare) e il livello di instabilità politica (calcolato usando l’andamento della produzione di petrolio in Libia). A conclusioni simili è arrivata una ricerca più recente, pubblicata a inizio agosto di quest’anno sulla rivista scientifica Scientific Reports, che fa parte del gruppo che pubblica anche Nature. Perfino l’Agenzia dell’Ue Fronte ha smesso di votare il “pull factor” nei suoi documenti.

La Tunisia mette alla porta i delegati Ue. Finora Saied non ha visto un euro. E snobba ancora gli inviati europei

Si ritorna quindi alla domanda iniziale: se si accusa la Germania per un condizionamento che nei fatti non esiste che figura si fa Pessima, appunto. Anche perché nel frattempo il cosiddetto “Stato amico” – ovvero la Tunisia – elemento fondante del Piano Mattei sventolato da Giorgia Meloni continua a smentire tutte le promesse. Il presidente tunisino Saied ha deciso, nel corso di una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale tenutasi al Palazzo di Cartagine, di incaricare il ministero degli Esteri, della migrazione e dei tunisini all’estero di informare Bruxelles della “decisione di rinviare la visita di una delegazione del Consiglio europeo” che aveva previsto di “recarsi in Tunisia, a una data successiva da concordare tra le due parti”. Ci sono molti modi di fallire, loro hanno scelto il peggiore.

Leggi anche: Carta straccia l’intesa con la Tunisia sui migranti

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Giulio Cavalli | Fanpage

Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Collaboro dal 2013 con Fanpage.it, curando le rubriche “Le uova nel paniere” e “L’eroe del giorno” e realizzando il format video “RadioMafiopoli“. Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.

Il governo apparecchia il bottino per le mafie

Può andare sempre peggio, possono sempre fare peggio. La bozza dell’ennesimo decreto migrazione che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si prepara a discutere con i suoi ministri è un ulteriore passo sul sentiero della disumanità e della cretineria politica.

Svetta tra gli orrori la modifica che riguarda i “minori stranieri non accompagnati”. Sono in sostanza – vale la pena di dirlo – bambini e ragazzini che attraversano l’Africa, passano tra i denti della Libia e sbarcano (se non annegano) sulle coste italiane. Purtroppo per loro sono neri e non hanno una pesca con cui intenerire il pubblico televisivo italiano in un lacrimevole spot pubblicitario.

Dalle parti del governo hanno deciso che d’ora in poi l’età potrà essere “apparente”, al pari della temperatura percepita, affidata a un non specificato “sesto senso di Stato”. Quelli “apparentemente” sedicenni potranno essere controllati su mandato “orale” della Procura senza più doversi preoccupare che gli esami avvengano in “un luogo idoneo” e con tutte le cautele “rispettose dell’età presunta, del sesso e dell’integrità fisica e psichica della persona”  come accadeva fino a oggi.

A questo punto i minori percepiti potranno essere gettati in mezzo agli adulti, fingendo che i migranti minorenni siano i più vulnerabili. Accadrà quindi che questi ragazzi con ancora meno tutele diventeranno il bottino perfetto per ingrossare la manovalanza della criminalità organizzata più di quanto già avvenga. A quel punto certi giornalacci di destra potranno strillare contro la mancata integrazione e la propensione criminale e Meloni e Salvini potranno riproporsi per risolvere il problema che hanno ceato.

Buon mercoledì.

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Una legge per annacquare il reato di tortura. FdI non perde il vizio

A marzo di quest’anno le opposizioni avevano lanciato l’allarme: il recondito sogno della maggioranza di rivedere il reato di tortura era un pericolo reale. Oggetto della discussione fu un disegno di legge per abrogare il reato di tortura introdotto nell’ordinamento italiano nel 2017 dopo un tormentato iter parlamentare. A presentarla, alcuni esponenti di Fratelli d’Italia, prima firmataria Imma Vietri.

Il ddl Vietri che punta a rivedere il reato di tortura arriva in Commissione al Senato. Maglie più larghe per gli agenti violenti

Con il provvedimento, assegnato in Commissione Giustizia del Senato, si intendono di fatto abrogare gli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale che introducevano il reato e si lascia in piedi solo una sorta di aggravante all’articolo 61 del codice penale. “L’incertezza applicativa in cui è lasciato l’interprete” con le norme introdotte nel 2017, “potrebbe comportare la pericolosa attrazione nella nuova fattispecie penale di tutte le condotte dei soggetti preposti all’applicazione della legge, in particolare del personale delle Forze di polizia che per l’esercizio delle proprie funzioni – spiegano i firmatari nella relazione al ddl – è autorizzato a ricorrere legittimamente anche a mezzi di coazione fisica”.

Se non si abrogassero gli articoli 613-bis e 613-ter, si legge ancora “potrebbero finire nelle maglie del reato in esame comportamenti chiaramente estranei al suo ambito d’applicazione classico, tra cui un rigoroso uso della forza da parte della polizia durante un arresto o in operazioni di ordine pubblico particolarmente delicate o la collocazione di un detenuto in una cella sovraffollata”.

Negli ultimi mesi il governo si è affrettato a sminuire l’allarme spiegando che l’abolizione o la modifica del reato di tortura non era all’ordine del giorno, ma ieri in commissione Giustizia del Senato c’è stato l’esame di due disegni di legge che propongono di allargare le maglie della legge vigente fino a renderla omeopatica. Uno prevede la modifica (M5S) e l’altro (FdI) l’abrogazione, declassando la tortura ad aggravante comune. Con l’abolizione prevista dalla proposta di Fratelli d’Italia, che sottintende di conseguenza la derubricazione ad aggravante comune, si elimina la punibilità di chi utilizza la tortura come uno strumento di sopraffazione e, quindi, ciò risulta rischioso e non conforme con l’etica collettiva.

Un risultato simile potrebbe presentarsi anche con una modifica, definita “migliorativa”, della disciplina attualmente in vigore. Il rischio, qui, è quello di rallentare o eliminare i processi e le procedure già in corso e di far cadere in prescrizione i reati, come dichiarato anche dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale.

Presentato un testo che riduce il reato per i pubblici ufficiali. Amnesty scrive a La Russa per fermare il blitz

Sul tentativo di abrogazione nei giorni scorsi è intervenuta anche Amnesty International con un appello al presidente del Senato Ignazio La Russa in cui si sottolinea che dopo quasi trent’anni dalla ratifica della Convenzione Onu contro la tortura da parte dell’Italia (nel 1989), finalmente, nel 2017 il Parlamento ha adempiuto all’obbligo di introdurre nell’ordinamento penale il reato di tortura punendo in maniera adeguata gravissime violazioni della dignità umana e dell’integrità psichica e fisica delle persone compiute da pubblici ufficiali.

“È pertanto motivo di grande preoccupazione che a soli sei anni dall’introduzione del reato, il parlamento si appresti a discuterne la possibile abrogazione e la sua derubricazione ad aggravante comune. – scrive l’organizzazione – In questi sei anni, nelle carceri e in altri luoghi di detenzione, non sono purtroppo mancati episodi di violenza perpetrati da pubblici ufficiali di gravità e caratteristiche tali da essere perseguiti come atti di tortura”. Per questo Amnesty chiede di respingere “ogni ipotesi di abrogazione del reato di tortura” e di adoperarsi piuttosto “per il suo rafforzamento”.

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Fascina è ancora in lutto

Tra i molti privilegi di essere la vedova (per finta) del marito (per finta) Silvio Berlusconi c’è anche quello di potersi permettere un ricco lutto che nessun altro lavoratore potrebbe permettersi, richiamato al dovere dal suo capo. Nel caso della parlamentare di Forza Italia Marta Fascina, i datori di lavoro sarebbero gli italiani, il che rende la questione ancora più delicata.

Dopo avere accumulato il 74% di assenze nella scorsa legislatura, catapultata in un seggio sicuro in Campania, Fascina non si vede in Parlamento dal giorno della morte del suo convivente Silvio Berlusconi, nonché proprietario di fatto di quel partito. Ieri a perdere la pazienza è stato il fratello di Silvio, Paolo Berlusconi, che durante un evento elettorale per le elezioni suppletive al Senato in cui corre il fedele amico Adriano Galliani, ha tuonato: “Basta con le lacrime, l’ho detto anche a Marta, che è inconsolabile, ma che deve trovare la forza di tornare in Parlamento perché è un suo diritto ma soprattutto un suo dovere”.

Il messaggio “è smettere di piangere e dirci e dirvi che dobbiamo essere sereni e addirittura felici, perché abbiamo avuto la fortuna di conoscere” Silvio Berlusconi, “di amarlo e di viverlo”. Nel suo intervento Paolo Berlusconi definisce Galliani “un pezzo di Silvio“. E poi annuncia che il prossimo 29 settembre, giorno in cui l’ex premier avrebbe compiuto 87 anni, “in Regione Lombardia il governatore Attilio Fontana dedicherà la sala Belvedere a Silvio Berlusconi”. Il richiamo al dovere suona perfino sinistro. Per rispettare gli italiani, come dice Paolo Berlusconi, Marta Fascina dovrebbe spiegare anche il motivo per cui dovrebbe essere utile lì, se ci pensate bene.

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Ora sui migranti Meloni insegue Salvini

“Speravo meglio sull’immigrazione dove abbiamo lavorato tantissimo”. Tra i comodi guanciali del TG1 nemmeno la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha avuto il coraggio di negare la realtà. Nonostante nella disciplina sia una vera campionessa. Ogni giorno che passa la politica italiana sui migranti del governo italiano segna un ulteriore passo sul sentiero della vergogna. Così mentre il ministro Matteo Salvini spiega in televisione che la cauzione di circa 5mila euro per non essere rinchiusi in un Cpr può essere pagata con “collanine, telefono e scarpe” dal Vaticano Papa Francesco ricorda he non c’è nessuna invasione e nessuna emergenza.

Scontro Roma-Berlino sui migranti. Meloni e Salvini all’attacco di Scholz. Ma gli aiuti alle Ong erano noti da tempo

A dire il vero, che non ci sia nessuna invasione lo dicono da sempre anche i numeri ma la propaganda, si sa, ha bisogno di un pericolo, anche finto. Così ieri mentre il ministro agli Esteri Antonio Tajani si sforzava di ripetere come “il tema dell’immigrazione sia un problema storico ormai talmente complesso a causa delle varie crisi internazionali che non si può affrontare a slogan ma con la politica e la diplomazia”, il collega Salvini se n’è uscito con un altro slogan, affidato ai suoi social network: “Notizia gravissima. La Germania paga le Ong per trasferire clandestini nel nostro Paese”, scrive il leader della Lega, rilanciando l’accusa del ministro alla Difesa Guido Crosetto per i finanziamenti tedeschi a favore della Comunità di Sant’Egidio e per Sos Humanity.

La lotta nel fango contro la Germania è un tema che appassiona molto i partiti di governo e che non serve a nulla per risolvere il problema. Ma l’importante è fare cagnara. Così il ministro degli Esteri di Berlino fa sapere che i due provvedimenti traducono in pratica una decisione del Bundestag, conosciuta da tempo a Palazzo Chigi, dove erano stati debitamente informati. Alla fine anche Meloni si butta nella mischia scrivendo al cancelliere tedesco. La risposta è la stessa: sapevate già tutto.

L’Auswärtiges Amt (il ministero degli Esteri federale), in una dichiarazione all’Ansa, ricorda che “salvare le persone che annegano è dovere giuridico, umanitario e morale” e che “come le guardie costiere nazionali, in particolare quella italiana, anche i soccorritori civili nel Mediterraneo centrale svolgono un compito di salvataggio delle persone in difficoltà con le loro imbarcazioni”. Il ministero aggiunge che il governo tedesco “si sta impegnando a fondo per riformare il sistema europeo comune di asilo in modo sostenibile e solidale”.

Il ministro Crosetto, da canto suo, rilancia con l’invito a Berlino di “appoggiare il piano Mattei” (altro fumo negli occhi di una discussione ogni giorno più imbarazzante) e ci tiene a precisare che “anche l’Italia salva i migranti” e che la Germania si occupa “solo del 5% dei salvataggi”. Nessuno gli deve avere spiegato che in Germania non c’è il mare.

Dopo il flop del Memorandum per l’Africa ai sovranisti non resta che confondere le acque

A proposito del Piano Mattei. Ieri il ministro degli Esteri tunisino Nabil Ammar nel suo intervento alla 78esima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in corso a New York ha chiarito che “la Tunisia non accetterà di diventare il Paese di destinazione dei migranti irregolari” e poiché il cosiddetto “Piano Mattei” si traduce solo in quello si può serenamente dire che sia fallito ancora prima di cominciare.

Intanto in Italia a Trapani in un ex hub vaccinale che avrebbe dovuto ospitare corsi universitari ci sono invece stipati, in condizioni disumane e non adeguate, 1500 persone. Avrebbero dovuto essere al massimo 400 e “per pochi giorni”, avevano assicurato dal ministero degli Interni. Il portavoce di Unicef in missione a Lampedusa segnala come i minori non accompagnati abbiano bisogno di cure e di servizi immediati. Nel pomeriggio l’Unione europea fa sapere di volerne sapere di più sulla “cauzione” che il governo intende chiedere ai migranti. Così un’altra giornata di propaganda e nessun atto concreto è passata.

Leggi anche: Meloni sui migranti preferisce la propaganda. La guerra alle Ong è più importante di un aiuto dalla Germania in Ue: la destra all’attacco del governo tedesco

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