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Da Meloni Pinocchio un anno di balle

La comparsa dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha sospeso ufficialmente la festa di Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia per i primi dodici mesi al governo. La propaganda invece può tranquillamente continuare sui giornali allineati e sulle televisioni pubbliche e private (uguali nella linea editoriale) che da ore cannoneggiano a rotative e televisioni unificate risultati straordinari.

Meloni ha rilasciato un’intervista al Tg1 che è un condensato di bugie, come ha sottolineato anche il sito di fact checking Pagella politica

La presidente Meloni ha rilasciato un’intervista al Tg1 che è un condensato di bugie, come ha sottolineato anche il sito di fact checking politico Pagella politica. Si comincia con la solita balla per giustificare la demolizione del reddito di cittadinanza: “Chi non può lavorare mantiene il sussidio, chi può lavorare è giusto che abbia lavoro e formazione”, dice Meloni fingendo di non avere letto le stime dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), un organismo indipendente che vigila sulla spesa pubblica, che ci dicono come quasi 100mila famiglie che prima prendevano il reddito di cittadinanza, con all’interno un disabile, un minorenne o un over 60, non potranno accedere all’assegno di inclusione “per effetto dei vincoli di natura economica”.

L’ALIBI DEL 110%
È sempre la solita bugia anche quella sul Superbonus, con la presidente del Consiglio ora in veste di moralizzatrice a spiegare che sono soldi “tolti alla sanità, all’istruzione e alle persone”. Confidando nella memoria corta degli italiani, Meloni omette che Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia hanno chiesto a più riprese addirittura un allargamento della platea dei beneficiari del bonus. Ma ora che hanno cambiato idea, vorrebbero anche cambiare faccia.

ITALIA LOCOMOTIVA UE
La barzelletta dell’Italia “fanalino di coda” in Europa in campo economico e ora “tornata protagonista” (altro slogan molto amato dai meloniani) è tutto nei numeri del Più italiano calato tra aprile e giugno dello 0,4% (al contrario di Francia e Germania) e un’occupazione in calo certificata dall’Istat. Per quanto riguarda i lavoratori poveri il governo ha pensato bene a un’operazione di “cosmesi matematica” dell’Inps per farli scomparire dalle statistiche.

RIFORMA FISCALE
Dice Meloni di avere anche “concentrato le risorse su chi era in difficoltà e sui redditi medio-bassi”. Questa bugia viene difficile smentirla perché davvero si fatica a capire a cosa si riferisca. Di certo questo governo ha mantenuto la flat tax che non premia i redditi più bassi, come dimostrato più volte, e che ha anche qualche problema di costituzionalità. La riforma fiscale che prevede il passaggio da quattro a tre aliquote Irpef è un’idea generica nella legge delega che al momento non trova nessun riscontro. Forse al governo vorrebbero farla, questo è legittimo, ma dove troveranno i soldi è ancora tutto da capire.

LOTTA ALLA MAFIA
Era prevista anche la strumentalizzazione dell’arresto di mafiosi, compreso il latitante Matteo Messina Denaro, del quale è stata diffusa ieri la notizia della morte. Prendersi il merito di operazioni delicate portate avanti dalla magistratura (che quando torna comodo è un “potere separato” e quando serve diventa un “potere politico”) significa non avere idea di quanto tempo e quanti governi occorrano per arrivare a un risultato.

FARINA… DEL SUO SACCO
“Grazie a Fratelli d’Italia la legislazione italiana (sui rave party, ndr) si è allineata a quella di molti altri Stati europei”, scrive il partito di Meloni sul suo opuscolo celebrativo. Falso: nessuno degli altri quattro grandi Paesi europei (Francia, Regno Unito, Germania e Spagna) prevede pene così dure come quelle introdotte dal governo Meloni. Anche lo “stop alle farine di insetti” è un messaggio bugiardo: già quattro regolamenti europei avevano autorizzato la vendita della polvere di grillo domestico, del verme della farina minore, della larva gialla della farina essiccata e della locusta migratoria, stabilendo la quantità massima di insetti che può essere presente negli alimenti.

DILUVIO DI BALLE
Sull’Emilia Romagna alluvionata e quei pochi 230 milioni arrivati dopo oltre tre mesi ne abbiamo letto e scritto dappertutto. Fenomenale è il fregiarsi (sempre sull’opuscolo di partito) di “sviluppare fonti energetiche pulite, come il gas naturale e le rinnovabili”. Mettere sullo stesso piano il gas naturale e le energie rinnovabili, come il fotovoltaico e l’eolico significa non avere ancora imparato che il gas è un combustibile fossile, al pari del carbone e del petrolio. Per quanto riguarda lo “stop all’immigrazione” Meloni e compagnia ormai non hanno nemmeno più lo stomaco di riuscire a ripeterla come vittoria. Quando se ne parla da quelle parti balbettano del “Piano Mattei”. Ma almeno su quello si vede lontano un miglio che non ci credono neanche loro.

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Condoni, solo condoni

“Mercoledì saranno incardinate due proposte di Forza Italia al Senato per risistemare le città, e all’interno di questo progetto che dovrebbe portare anche alla riduzione delle emissioni si può vedere di inserire qualche aggiustamento per piccole cose fatte in violazione delle legge”: sono le parole del ministro Antonio Tajani, Forza Italia, che rilanciano l’idea del condono edilizio lanciata da Matteo Salvini. Leggendole bene si vede anche la strategia: buttarla sul green. Poiché in fondo si vergognano anche loro di quello che vorrebbero fare l’ambientalismo gli torna utile.

Ieri il governo ha tirato dritto anche sulla sanatoria per commercianti e autonomi che abbiano violato gli obblighi di certificazione dei corrispettivi e di conseguenza presentato dichiarazioni dei redditi falsate: un “ravvedimento operoso” con il quale chi tra gennaio 2022 e il 30 giugno 2023 si è reso responsabile di errori e omissioni in materia trasmissione telematica dei corrispettivi giornalieri all’Agenzia delle entrate e dunque versamenti insufficienti potrà tornare in regola versando imposta, interessi e sanzione ridotta da un decimo di quella ordinaria a un quinto di quella minima. Con il vantaggio che si riduce via via che aumenta la distanza tra pagamento omesso e regolarizzazione.

Vi ricordate quando Giorgia Meloni durante un comizio parlò delle tasse come “pizzo di Stato”? Dicevano che si era “espressa male” e che i giornalisti avevano strumentalizzato. Invece avevamo capito benissimo.

Buon martedì.

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Allarme femminicidi. L’Europa boccia l’Italia

La piaga dei femminicidi in Italia, che ieri hanno raggiunto quota 84 dall’inizio dell’anno, continua a preoccupare il Consiglio d’Europa. Il Comitato dei ministri (organo decisionale del Consiglio d’Europa) sottolinea in particolare la “risposta inefficace e tardiva” delle autorità alle denuncia di violenza domestica subite dalle donne, che hanno più volte portato la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) a condannare il nostro Paese.

La piaga dei femminicidi in Italia, che ieri hanno raggiunto quota 84 dall’inizio dell’anno, continua a preoccupare il Consiglio d’Europa

Il Consiglio d’Europa “nota con preoccupazione” che i dati forniti da Roma “mostrano una persistente alta percentuale di procedimenti per violenza domestica e sessuale archiviati nella fase delle indagini preliminari, un uso limitato degli ordini di protezione e un tasso significativo di violazione degli stessi”.

Pur riconoscendo i passi avanti compiuti dalle autorità italiane che “riflettono la loro continua determinazione a prevenire e combattere la violenza domestica e la discriminazione di genere”, Strasburgo chiede di fornire entro il 30 marzo 2024 informazioni dettagliate sui procedimenti per violenza domestica e sessuale e gli ordini di protezione, comprese le violazioni a questi ultimi.

Nonché indicazioni sulle “azioni concretamente intraprese e i progressi tangibili raggiunti” attraverso le misure supplementari previste dal piano nazionale per eradicare i pregiudizi e gli atteggiamenti che alimentano la violenza di genere e la discriminazione, che le autorità si sono impegnate ad attuare.

Cosa significa questo? Che i femminicidi non sono un’invenzione delle femministe o di qualche partito politico. Non sono nemmeno un’emergenza inventata, al contrario di altre. Quei numeri dicono molto dello Stato in cui avvengono. Si attendono risposte.

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Perché la morte di Messina Denaro non è una vittoria dello Stato – Lettera43

Alle 4 di mattina di un lunedì di settembre la saga di Matteo Messina Denaro è arrivata all’ultima puntata, tanto per confermarci che di lui e di quello che rappresenta si è capito poco o quasi niente dalle parti della politica e dei giornalisti esperti di mafia per un giorno.

Di Matteo Messina Denaro in questi otto mesi abbiamo saputo tutto quello che non ci serviva sapere

Da otto mesi, dalla cattura il 16 gennaio da parte del Ros dei Carabinieri, il capomafia era detenuto nel supercarcere di Costarelle a L’Aquila. Intorno a lui abbiamo assistito alla concimazione del mito. Di Matteo Messina Denaro sapevamo quasi tutto quello che non ci serviva sapere. Conosciamo le sua abitudini sessuali, i suoi gusti cinematografici e musicali, i triangoli amorosi che lo cingevano, la parabola del figliol prodigo con la figlia che s’è presa il suo cognome poco prima che morisse. Nei giorni scorsi alcuni commentatori si erano addirittura spesi sulla condanna che il boss aveva lanciato contro la Chiesa, rifiutando il funerale religioso. Decine di righe, pagine e commenti che si interrogavano sugli strali di Matteo Messina Denaro contro il Papa pittati su quattro pizzini sputati ritrovati nel suo covo.

LEGGI ANCHE: L’arresto di U’Siccu e i misteri di Cosa nostra

Matteo Messina Denaro è stato il protagonista perfetto per la fiction dell’antimafia che odia l’antimafia e che banalizza un sistema di potere in un sistema criminale da filmato di quart’ordine. Otto mesi in cui gli interrogativi sulla rete di protezione che gli ha consentito di essere latitante per così tanto tempo non sono mai entrati nel dibattito pubblico. Otto mesi in cui il dibattito televisivo e il dibattito politico si sono arenati sulle interviste accusatorie al fruttivendolo che, incautamente, gli vendeva le banane senza accorgersi che quel’Andrea Bonafede lì era “il capo dei capi”. L’impero economico, politico e solo dopo criminale di Matteo Messina Denaro è un capitale che si costruisce con l’illegalità – certo – ma soprattutto come le competenze. Chi sono i presunti talenti finanziari e politici che hanno permesso la crescita di una superpotenza sotterranea? Non si sa. Forse dovremmo accontentarci di sapere quali calamite avesse attaccate al frigorifero e stare bene così. Dove sono gli strumenti per tenere la contabilità e le comunicazioni necessarie per il funzionamento di tal sistema? Non si sa. «Queste cose io, qualora ce le avessi, non le darei mai, non ha senso per il mio tipo di mentalità», ha dichiarato Messina Denaro ai magistrati della Procura di Palermo durante gli interrogatori.

Perché la morte di Messina Denaro non è una vittoria dello Stato
Matteo Messina Denaro (Imagoeconomica).

L’”ultimo stragista” ci è stato consegnato in versione malata, stanca e arrendevole

Matteo Messina Denaro non ha parlato. Piovono oggi gli articoli di chi celebra la morte dell’ultimo mafioso dell’epoca stagista ma il non detto sotto traccia è che con Matteo Messina Denaro è morta la mafia. Ora ci aspettano i giorni delle cronache dei funerali a Castelvetrano dove la politica locale non vede l’ora di chiudere il capitolo, che non se ne parli più. Il fatto che dell’epoca stagista e degli anni bui italiani manchino ancora i mandanti pare una fissazione di qualche complottista. Fra i tanti segreti che il capomafia deceduto si è portato nella tomba c’è soprattutto quello riguardante l’archivio di Totò Riina, che secondo il pentito Nino Giuffré dopo la cattura del capo dei capi di Cosa nostra, nel gennaio del 1993, sarebbe stato consegnato al boss di Castelvetrano. L’allora giovane rampollo delle cosche trapanesi e il padrino corleonese erano molto legati. «Riina era maniacale nel mettere insieme e conservare tutti i documenti, prendeva appunti anche alle riunioni e li metteva da parte e quelle carte sono finite a Matteo Messina Denaro», ha affermato con convinzione il pentito Giuffré. Il testamento di Matteo Messina Denaro avrebbe dovuto essere il punto di svolta per chiarire la storia politica (oltre che mafiosa) di questo Paese ma l’arresto del boss è stato solo una passerella buona da rilanciare sui social. L’uomo “dai mille segreti” ci è stato consegnato in versione arrendevole, malata e stanca.

Lo Stato vincerà davvero contro la mafia quando farà luce sulle stragi

Mentre Matteo Messina Denaro moriva un ministro diceva pubblicamente che le intercettazioni non servono alle indagini di mafia «perché i mafiosi non parlano al telefono». Mentre Matteo Messina Denaro moriva un altro ministro della Repubblica sviliva il movimento antimafia attaccando «quello con la tonaca» (don Luigi Ciotti, fondatore di Libera) per qualche pugno di voti. Ora che Matteo Messina Denaro è morto useranno la ceralacca sulla loro “vittoria contro la mafia” fingendo di non sapere che la vittoria dello Stato starebbe nel fare luce sulle stragi, non nel festeggiare la morte di un esecutore. Muore Matteo Messina Denaro e festeggiano i mafiosi e con loro quelli che hanno sperato che non parlasse. Muore Matteo Messina Denaro e la normalizzazione è sempre più semplice da attuare.

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Toglietegli le scarpe

Ospite alla trasmissione “Diritto e rovescio” su quella Rete 4 che si professa “ripulita dal trash” e invece ha rovesciato il trash nel contenitore dell’informazione l’ex ministro dell’Inferno Matteo Salvini ha svelato la natura sua e di questo governo. Alla domanda del conduttore su come potrebbero trovare 5mila euro i migranti che sbarcano in Italia per poter pagare il racket di Stato previsto nella nuova mortifera norma, Salvini ha risposto letteralmente: molti arrivano con «telefonino, scarpe, catenina, orologino».

La frase è tecnicamente razzista – ovviamente – poiché chiede a una specifica “razza” di dimostrare la propria povertà adattandosi alla narrazione che la vorrebbe descrivere. Come ogni frase razzista pronunciata dai componenti di questo governo è anche profondamente ignorante: se Salvini si ritrovasse in condizioni di disperazione che lo costringono a partire per un lungo viaggio siamo sicuri che si procurerebbe delle scarpe per attraversare il deserto, per scavalcare i muri e le reti che i Salvini come lui gli farebbero trovare per strada e per scappare da cani e bastoni. Siamo anche sicuri che avrebbe un telefono per fare sapere alla sua fidanzata o alle sue ex mogli o ai suoi figli di essere ancora vivo e per verificare in quale parte d’Europa si trovi. Siamo anche sicuri che non lascerebbe a casa il suo rosario a cui è feticisticamente attaccato e che considera un portafortuna elettorale.

Siamo sicuri anche che se avesse studiato un po’ di Storia saprebbe che ai deportati della Shoah venivano tolte le scarpe come primo atto di spoliazione. Ciò che gli possiamo augurare è di non incontrare un ministro come lui.

Buon lunedì.

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Scafismo di Stato

Poiché questo non è un Paese con il cuore duro come certa stampa e certa politica si ostinano a raccontare ha suscitato un indignato clamore l’idea di inserire un pizzo di 4938 euro come “cauzione” per il richiedente asilo che non vuole essere trattenuto in un Cpr, almeno fino all’esito dell’esame del suo ricorso contro il rigetto della domanda.

Meloni aveva promesso di stanare gli scafisti e alla fine c’è riuscita: gli scafisti sono loro, senza bisogno di andare per tutto l’orbe terracqueo

L’hanno scritto all’interno di uno schifoso decreto che si ostinano a chiamare con il nome di una città in cui sanguinano ancora i corpi colpevolizzati da un ministro per il disturbo che hanno arrecato morendo. Quando si crede che non possano essere più disumani di così questa banda di sgherri che stanno al governo riescono a immaginarsi norme ancora più feroci.

La scelta oltre che disumana è anche stupida – come tutte le cose disumane – perché dimostra di non sapere assolutamente nulla di ciò che si promettono di governare: dover dimostrare la sostenibilità dell’accoglienza da parte di chi dovrebbe essere accolto è un imbecillità smisurata.

Ci sono poi alcune consonanze da sottolineare. Chiedere i soldi a un disperato perché possa pagarsi la speranza di salvezza è il modo dei trafficanti e degli scafisti. Richiedere il pagamento per ottenere un diritto è il modo tipico del racket mafioso.

Valutare l’accoglienza di qualcuno in base ai soldi che ha in tasca è la modalità tipica degli sfruttatori. Presumere che qualcuno possa sopravvivere alle violenze e alle sevizie di quei viaggi con dei soldi in tasca è da coglioni. Tutte caratteristiche condensate in una sola norma, un capolavoro. Giorgia Meloni aveva promesso di stanare gli scafisti e alla fine c’è riuscita: gli scafisti sono loro, senza bisogno di andare per tutto l’orbe terracqueo.

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La famiglia tradizionale in Rai e l’ossessione della destra per la cultura dominante – Lettera43

Il giornalista de L’Espresso Simone Alliva con mastodontica pazienza ha spulciato gli oltre 400 emendamenti piovuti sul nuovo contratto di servizio della Rai depositato in Vigilanza e ne ha trovato uno – pericolosamente curioso – firmato dai parlamentari di Forza Italia Roberto Rosso, Maurizio Gasparri, Rita Dalla Chiesa, Andrea Orsini. Si legge che la Rai dovrebbe impegnarsi, tra le altre cose, a dare «una rappresentazione positiva dei legami familiari secondo il modello di famiglia indicato dall’articolo 29 della Costituzione». Il modello di famiglia evocato tra le righe non è nient’altro che la cosiddetta “famiglia naturale” che Giorgia Meloni ormai da anni ci propina in ogni uscita pubblica immaginando un’istituzione messa in pericolo dal libertinaggio moderno, dagli omosessuali e dall’ideologia “gender” che nessuno della maggioranza è mai riuscito a spiegare cosa sia, ma che viene ossessivamente ripetuta come un mantra.

La famiglia tradizionale in Rai e l'ossessione della destra per la cultura dominante
Maurizio Gasparri (Imagoeconomica).

Definire il perimetro dei diritti per poterne escludere di nuovi

La “famiglia naturale e fondata sul matrimonio” sventolata dai prodi parlamentari è ovviamente usata nella sua natura escludente. Alla maggioranza non interessa dire concetti che già sappiamo e che sono incardinati nella storia del nostro Paese; a loro interessa rifiutare la modernità e definire il perimetro dei diritti per poterne escludere di nuovi, come hanno già ampiamente fatto con i figli della gestazione assistita che si sono ritrovati orfani per decreto o con le cosiddette “famiglie arcobaleno” ghettizzate nel cassetto dei respingenti contro natura che devono essere additati.

La televisione vista come mezzo principale della concimazione

L’emendamento però dice anche molto di più. Ci dice, per esempio, che come insegnò Silvio Berlusconi la televisione (soprattutto quella pubblica) viene vista come mezzo principale della concimazione di un comune sentire. Se “lo dice la televisione” che le famiglie buone sono quelle “naturali”, allora sarà vero. La pensano così al governo, ancorati alla credibilità della tivù come se non fossero passati questi ultimi 15 anni che hanno (con la collaborazione di partiti di tutti gli schieramenti) fracassato l’autorevolezza dei media. L’emendamento ci dice anche che la prima preoccupazione di questi che governano è quella di riuscire a instillare una cultura dominante, che è la loro vera ossessione, forse per un mai sopito complesso di inferiorità oppure perché la considerano una garanzia per preservare le proprie posizioni.

La famiglia tradizionale in Rai e l'ossessione della destra per la cultura dominante
Bruno Vespa durante una puntata dedicata a Silvio Berlusconi dopo la sua morte (Imagoeconomica).

Propaganda, guarda caso, come quella di Putin nel 2013

Come giustamente sottolinea Alliva, la proposta ha un’orribile consonanza con la legge che Vladimir Putin volle in Russia nel 2013, quando lo zar era ancora un mito per la presidente del Consiglio e per i suoi ministri. In quel caso Putin vietò la propaganda di qualsiasi forma di famiglia “non tradizionale”, non solo in televisione ma anche nelle produzioni cinematografiche e letterarie. In questo caso i parlamentari di Forza Italia devono avere pensato che i libri e i film siano arti troppo spicce per essere toccate. In effetti cominciare dalla televisione di Stato garantisce minori polemiche. L’importante è iniziare piano piano.

La famiglia tradizionale in Rai e l'ossessione della destra per la cultura dominante
La propaganda putiniana in tivù (Getty).

La vicinanza con i più retrogradi capi di governo in Europa

Si arriva così all’ultimo e più preoccupante lato della medaglia, cioè la vicinanza di Giorgia Meloni con i peggiori e più retrogradi capi di governo in Europa (e non solo). L’asse con Viktor Orban o con il premier polacco non è una gustosa scenetta da rilanciare sui social o, per gli avversari, da attaccare con il sorriso sulle labbra. Giorgia Meloni ha sempre ripetuto di ammirare quel tipo di politici per le loro politiche, per le loro scelte, per la durezza con cui circoscrivono i diritti. Non è una barzelletta. Meloni sa benissimo che non potrebbe da un giorno con l’altro imporre decisioni che solleverebbero una protesta popolare che finirebbe per travolgerla, ma sa benissimo anche che occorre un logorio lento e paziente che possa rendere potabile ciò che oggi apparirebbe scandaloso. Imporre alla Rai di suggerirlo è un granello di un progetto molto più ampio, che passa dall’indignazione per il libro del generale Vannacci alla sostituzione etnica del cognato ministro e alla lunga sequela di improvvide uscite dei suoi compagni di partito e di governo. Non sarà facile, non sarà breve, ma sono convinti di poterci riuscire. Anche con un emendamento sul contratto Rai che di fatto mette fuori dal perimetro la stessa Meloni, che incidentalmente non è sposata. Quindi non “naturale”.

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Altro che invasione, i minori accolti in Italia sono appena 21mila. I numeri in un report del Garante. Smontata un’altra balla del governo

Tra i “terribili invasori” che spaventano il governo Meloni e attivano i suoi ministri ci sono più di 21 mila minori non accompagnati, bambini e bambine, ragazzini e ragazzine che per l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, guidata da Carla Garlatti, non sono “solo numeri, ma persone che hanno bisogni, speranze e paure” e che hanno bisogno di “un sistema di accoglienza strutturato e non emergenziale”.

La garante ha incontrato negli scorsi mesi i ragazzi ospitati nelle strutture del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) gestite dai comuni di Amelia (Terni), Aradeo (Lecce), Bologna, Cremona, Pescara e Rieti. Le visite sono state realizzate in collaborazione con l’Associazione nazionale Comuni italiani (Anci), il Servizio centrale, struttura di coordinamento del Sai, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) e Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef).

Il rapporto

Dal ciclo di incontri è scaturita la pubblicazione “Ascolto e partecipazione dei minori stranieri non accompagnati come metodologia di intervento”, che riporta il punto di vista dei ragazzi e formula nelle conclusioni una serie di raccomandazioni.

“Non c’è più tempo da attendere per completare l’attuazione della legge 47/2017 – dice Garlatti – il sistema di prima accoglienza deve essere realizzato in maniera strutturale e non più come risposta alle emergenze che di volta in volta si presentano. È inoltre urgente adottare il decreto che disciplina il primo colloquio del minorenne che fa ingresso sul suolo italiano: è un passaggio che si attende dal 2017 e che è fondamentale per assicurare i diritti del minore e per aiutarlo a raggiungere in maniera celere e sicura la sua destinazione”.

“A ogni ragazzo devono essere assicurati tre diritti: la presunzione di minore età, la collocazione in una struttura riservata esclusivamente ai minori e un tutore volontario”. Secondo il report è indispensabile velocizzare le procedure amministrative per ottenere il permesso di soggiorno e rendere uniformi le prassi su tutto il territorio nazionale.

I ragazzi oggi devono aspettare anche sei mesi prima di avviare un percorso di inserimento e questo genera ansie, timori, frustrazioni, oltre che una più generale incomprensione dei meccanismi burocratici. Occorre garantire la presenza, in ogni fase del percorso, di un mediatore culturale che possa colmare le difficoltà di comprendere le procedure e la loro “paura di tornare indietro”.

Tutore volontario

Per le stesse ragioni va assicurata la tempestiva nomina del tutore volontario. Quello della nomina del tutore resta un aspetto critico.

Dall’ascolto dei minori è emerso infatti che ci sono ancora casi nei quali, per la scarsità dei volontari, i tribunali per i minorenni attribuiscono la tutela a sindaci o ad avvocati. Si tratta di figure che, occupandosi di un numero elevato di minori, non possono costituire un reale punto di riferimento nel percorso di integrazione.

Per promuovere “un effettivo processo inclusivo è inoltre fondamentale creare occasioni di socializzazione e aggregazione con la comunità” e agevolare l’apertura di un conto corrente bancario intestato al minore straniero, nel rispetto dei limiti previsti dalle norme vigenti.

Solo due giorni fa è rimbalzata la notizia del sindaco di Muggia, in provincia di Trieste, che si è ritrovato due minorenni afghani non accompagnati che ha lasciato dormire in un ex studio medico abbandonato “Dove non c’è nemmeno l’acqua”, come ha raccontato il sindaco leghista Paolo Polidori, rimasto in auto tutta la notte per sorvegliarli. I sindaci da mesi lamentano la completa disorganizzazione e lo stato di abbandono in cui si ritrovano a gestire la delicata situazione dei minori non accompagnati.

“Il modo in cui un Paese decide di organizzarsi per proteggere i minori non accompagnati dice molto sul livello complessivo di attenzione alle fragilità e ai minori”, dice il sindaco di Prato, Matteo Biffoni, delegato Anci all’immigrazione e politiche per l’integrazione.

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Muro sull’accoglienza, si allarga la fronda a destra. Dopo il Veneto, pure Piemonte e Calabria in trincea. E Musumeci frena su nuove strutture al Sud

Hai voglia a dire che “la vicenda migranti non può essere sostenuta soltanto dalla Sicilia, dalla Calabria e dalle regioni meridionali”. Perché “tutti dobbiamo farci carico di questa responsabilità che deve diventare solidarietà”.

Il ministro del Mare, Nello Musumeci, ha provato ad indorare la pillola dei Centri per i rimpatri scaricati dal governo sulle Regioni, ma con scarso successo. E nonostante la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si affanni nel dipingere i Cpr e il “blocco delle partenze” come unica soluzione possibile per governare l’immigrazione in Italia e in Europa, i partiti di maggioranza non sono “compatti” sulle misure, come raccontano le fonti di Palazzo Chigi.

Il modello

Perfino il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto, in un’intervista ad Avvenire, ha riconosciuto che “serve un modello strutturato all’insegna dell’integrazione… per un Paese di 60 milioni di abitanti come l’Italia, 150-180mila arrivi in un anno non possono rappresentare sempre un problema”, smontando nel giro di poche righe la narrazione dell’invasione così cara a Meloni e al suo compagno di governo Matteo Salvini.

Occhiuto si aggiunge al lungo elenco di governatori che vedono la costruzione di nuovi Centri di permanenza e di rimpatrio come problema politico per le regioni che governano.

Un altro presidente vicinissimo al governo, Alberto Cirio (Piemonte), si è augurato un “confronto con il governo” perché i nuovi centri vengano costruiti lontano dai centri abitati. Schiaffi al governo Meloni arrivano anche dall’ex ministro Giulio Tremonti ora in Fratelli d’Italia che deride le bellicose ipotesi di un complotto: “nessuna regia” e “nessun attacco politico”, dice a Repubblica ribadendo come l’immigrazione sia un tema “strutturale” e non un’emergenza. Finita qui? Nemmeno per sogno.

“ll Cpr non risolve il problema degli arrivi, questo lo dobbiamo dire per essere corretti nei confronti dei cittadini, visto e considerato che quest’anno avremo più o meno 140-150mila persone che dovranno essere rimpatriate, e si consideri che mediamente ogni anno l’Italia riesce a far rimpatriare dalle 3.500 alle 4.000 persone, quando va bene”, ha detto il leghista presidente del Veneto Luca Zaia, che in questi giorni guida l’offensiva dei presidenti di Regione di destra. Così è fin troppo facile per l’opposizione smontare la linea del governo.

Le reazioni

Dal Pd Laura Boldrini sottolinea come l’unica vera urgente strategia sia quella suggerita dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: rivedere il Regolamento di Dublino in sede europea. “Da tempo, ormai, sosteniamo – dice Boldrini – che quel Regolamento, che attribuisce al paese europeo di primo approdo dei migranti la responsabilità di valutare le domande di asilo, va superato perché penalizza paesi come l’Italia e la Grecia”.

Angelo Bonelli (Avs) accusa Meloni “di avere isolato l’Italia” e Riccardo Magi (+Europa) parla di “fallimentare strategia di Meloni, che baratta i diritti e le vite dei migranti con l’illusione delle frontiere chiuse”. Mariolina Castellone (M5S), sottolinea come “dalla destra” arrivino solo “ricette obsolete”. Nell’opposizione l’unica voce fuori dal coro è quella di Carlo Calenda (Azione), che si dice “totalmente d’accordo” con il “pagare i regimi per bloccare i migranti”.

A stretto giro, per uno scherzo del destino, arrivano le lamentele di Egitto e Tunisia che reclamano più soldi per continuare a fare il lavoro sporco. Forse c’è davvero una regia politica, come dice Meloni: i mandanti sono i tiranni lautamente pagati che non riescono a trattenere la loro ingordigia ricattatoria.

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Nemica giurata dell’autonomia. Le Pen finta amica di Salvini

L’ex ministro alla Giustizia Roberto Castelli fa sul serio: il suo addio alla Lega è stato lungamente argomentato in una conferenza stampa tenuta ieri a Milano e no, non è uno scherzo. “Vogliamo dare la voce alla questione settentrionale, oggi più che mai c’è bisogno di un sindacato del nord”, ha detto l’ormai ex leghista, presidente di Autonomia e Libertà. Per Castelli “ci sono in giro più di 50 sigle federaliste e secessioniste in tutta l’Europa che fanno fatica a parlarsi. Lancio un appello a queste forze: se ci uniamo possiamo far sentire la nostra voce altrimenti il detto latino divide et impera sarà sempre più di attualità”.

Matteo Salvini ha fatto di Marine Le Pen la stella polare della Lega. Tra i due però le distanze restano siderali

Un impegno elettorale solo rimandato: “Se l’associazione cresce – ha detto Castelli – sarà ineludibile un impegno elettorale a ogni livello”. Dipende “se si riesce a costruire una forza autonomista” ampia, allora “il mio impegno ci sarebbe, poi fare campagna elettorale è divertente”. Ma “se uno vuole andare nell’agone elettorale deve avere un sacco di forza, oggi non incidiamo e noi abbiamo l’ambizione di incidere”. La “deriva centralista” di Salvini è un’accusa che pesa sulla leadership della Lega. Anche all’ultima festa leghista di Pontida sono diverse le voci che si sono levate per contestare l’accoglienza trionfale riservata a Marine Le Pen, leader del partito di estrema destra francese Rassemblement National, definita “un’alleata e un’amica” dal segretario del Carroccio.

Dal 2015 Lega e Rassemblement National fanno parte dello stesso gruppo al Parlamento europeo, dapprima tra le file del gruppo Europa delle Nazioni e della Libertà e dal 2019 nel gruppo Identità e democrazia. I due partiti hanno portato avanti insieme battaglie contro una maggiore integrazione europea, contro l’immigrazione e per la tutela della tradizione e della sovranità delle nazioni. Sull’autonomia però i due partiti hanno pensieri molto diversi.

Come spiega il sito Pagella politica la rivendicazione iniziale del partito di Salvini, fondato nel 1991 da Umberto Bossi, era quella di una riforma costituzionale in senso federale per diminuire i poteri dello Stato centrale a vantaggio della macroregione del Nord. Nel 1995 la Lega è passata a una politica apertamente secessionista chiedendo l’indipendenza per la “Padania”, indipendenza autoproclamata da Bossi l’anno successivo. Nei primi anni 2000 l’idea della secessione è stata abbandonata in favore di un progetto costituzionale di trasferimento di competenze dallo Stato centrale alle regioni, poi bocciato da un referendum costituzionale nel 2006.

Oggi questa battaglia è portata avanti, in modo meno drastico rispetto al passato, attraverso la riforma dell’Autonomia differenziata per concedere maggiori poteri alle Regioni. Diversamente dagli alleati della Lega, il Rassemblement National non si è mai distinto per una particolare attenzione alle autonomie locali. Questa caratteristica del partito di Le Pen è stata sottolineata dall’ex europarlamentare leghista Mario Borghezio, che durante il raduno di Pontida ha definito la presenza della politica francese “una grave contraddizione”. Secondo Borghezio, infatti, Le Pen è una “nemica delle autonomie”, a cominciare da quelle di Corsica, Catalogna e Paesi Baschi.

Mentre i leghisti inseguono il sogno federalista la leader francese è la paladina del centralismo totale

Marine Le Pen si è candidata tre volte alle elezioni presidenziali francesi: nel 2012, nel 2017 e nel 2022. In nessuno dei programmi elettorali presentati in queste occasioni le autonomie locali occupavano un posto di primo piano. Anzi: Le Pen ha spesso proposto riforme per limitarle. Per esempio, a gennaio 2012, in un discorso programmatico Le Pen sosteneva che “lo Stato deve recuperare la sua piena legittimità nella gestione della politica nazionale, in particolare arrestando la deriva del decentramento”.

Per raggiungere questo obiettivo Le Pen proponeva di limitare per legge le competenze degli enti locali (che in Francia sono i comuni, i dipartimenti e le regioni) e rafforzare i poteri dei prefetti, ossia i funzionari del governo centrale che garantiscono l’ordine pubblico nei vari dipartimenti. Nel programma elettorale del 2017 Le Pen chiedeva una revisione complessiva della struttura degli enti locali. La proposta era di “mantenere tre livelli di amministrazione: comuni, dipartimenti e Stato”, eliminando dunque le regioni. Alle elezioni presidenziali del 2022 il tema delle autonomie locali non era menzionato nel programma di Le Pen. Amicizia per convenienza, senza nessuna convergenza politica. L’ipocrisia politica prima o poi emerge. Non è questione che riguarda solo Castelli.

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