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Il G7 agricoltura è un lunghissimo aperitivo

Siracusa, perla del Mediterraneo, si veste a festa per accogliere i grandi della Terra al G7 sull’Agricoltura. Tra degustazioni, sfilate di moda e manifestazioni equestri, sembra quasi di essere finiti in una sagra di paese anziché a un vertice internazionale. Dietro questa facciata pittoresca si cela un vuoto abissale.

Mentre i ministri del G7 si affannano a discutere di sviluppo agricolo in Africa, sovranità alimentare e pesca sostenibile, c’è un elefante nella stanza che nessuno sembra voler vedere: la natura. È paradossale, se non fosse tragico, che in un vertice dedicato all’agricoltura si ignori completamente il rapporto tra le pratiche agricole e i sistemi naturali. Come se potessimo coltivare in un vuoto, senza terra fertile, senza biodiversità, senza un ecosistema che ci sostiene.

E mentre il ministro Lollobrigida si affanna a dipingere gli agricoltori come “custodi dell’ambiente”, i dati dell’Ispra ci raccontano una storia ben diversa: l’agricoltura è la prima causa di perdita di biodiversità e responsabile di un quarto delle emissioni globali di gas serra.

Intanto, fuori dalla bolla dorata del G7, il mondo reale brucia. Letteralmente. Alluvioni, siccità, peste suina: le emergenze si susseguono a ritmo serrato ma i nostri leader preferiscono brindare con un bicchiere di vino locale piuttosto che affrontare i veri nodi della questione.

La verità è che senza un serio impegno per la transizione ecologica, senza politiche che promuovano l’agroecologia e pratiche agricole rigenerative, stiamo solo mettendo una pezza su un sistema già al collasso. Il G7 sull’agricoltura è una fiera, un lungo aperitivo. Dell’agricoltura nemmeno l’ombra. 

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Lacrime renziane

Il termometro dello stato di salute del cosiddetto campo largo sta sotto l’ascella della Liguria che si prepara alle prossime elezioni regionali per sostituire l’ex presidente dimissionario, l’innocente Giovanni Toti che ha deciso di patteggiare. La temperatura ieri ha segnato un picco di indisposizione, qualcosa di simile alla febbre, per la rottura dei pochi renziani rimasti in Italia Viva che hanno deciso di farsi da parte.

L’hanno fatto, com’era prevedibile, secondo le modalità del loro leader Matteo Renzi, uno convinto da anni di essere il mazziere nonostante in molti non lo vogliano nemmeno nei paraggi del tavolo. Dicono quelli di Italia Viva che ci sono rimasti molto male perché dalle parti del Movimento 5 stelle hanno ribadito che non hanno intenzione di spartire nulla con loro. Non hanno torto: a non fidarsi di Renzi c’è l’intero Movimento, metà del Partito democratico e tutti quelli che stanno in Sinistra italiana.

Ieri sostanzialmente non è quindi successo nulla di nuovo. Semplicemente Renzi e la sua ciurma sono convinti che la politica si muova allo schioccare di un’intervista del senatore fiorentino e invece, spiace per loro, non funziona esattamente così. Il tentativo di autoinvitarsi nel cosiddetto campo largo infilandosi di soppiatto nelle elezioni liguri come certi non invitati ai matrimoni non è stata una geniale strategia. Quelli se ne sono accorti e così ieri semplicemente Renzi ha dovuto fare i conti con la realtà. E lui, quando non gli piace la realtà, si lamenta fragorosamente.

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Lobby fossili e legislatori accondiscendenti: l’alleanza che criminalizza l’attivismo climatico

Un’inchiesta del Guardian rivela come le lobby dei combustibili fossili stiano orchestrando una campagna per inasprire le pene contro gli attivisti climatici in diversi stati americani. Il quadro che emerge è quello di una strategia coordinata per soffocare il dissenso e proteggere gli interessi dell’industria petrolifera e del gas.

Secondo i documenti ottenuti dal quotidiano britannico, i lobbisti di importanti compagnie energetiche nordamericane hanno avuto un ruolo chiave nell’elaborazione di leggi che aumentano le sanzioni penali per le proteste pacifiche contro l’espansione delle infrastrutture per petrolio e gas. In alcuni casi, queste norme prevedono pene detentive fino a 10 anni per azioni di disobbedienza civile non violenta.

L’indagine ha analizzato le comunicazioni tra lobbisti e legislatori in stati come Utah, West Virginia, Idaho e Ohio, rivelando una trama che si estende a livello nazionale. L’obiettivo appare chiaro: scoraggiare chi, frustrato dall’inazione dei governi sul fronte climatico, ricorre a forme di protesta pacifica per ostacolare l’espansione delle attività legate ai combustibili fossili.

La macchina del lobbying: così l’industria fossile plasma le leggi

Un caso emblematico è quello del West Virginia, dove nel gennaio 2020 un lobbista rappresentante di due influenti gruppi del settore inviò una bozza di legge al consulente legale della commissione energia statale. Quella norma, che prevede pene fino a 10 anni di carcere, è stata poi utilizzata per incriminare almeno otto manifestanti pacifici, tra cui sei anziani.

In Utah, i legislatori hanno approvato una legge anti-protesta con pene fino a cinque anni di reclusione dopo aver discusso della necessità di proteggere l’industria del gas naturale, definita “sotto attacco”. Le e-mail ottenute dal Guardian mostrano come i rappresentanti delle compagnie energetiche abbiano partecipato attivamente alla stesura del testo legislativo, suggerendo modifiche e integrazioni.

Il fenomeno non è nuovo: dal 2017, 45 stati americani hanno preso in considerazione nuove leggi anti-protesta, con 22 stati che hanno effettivamente approvato norme per proteggere le “infrastrutture critiche”. Queste leggi sono state promosse dall’American Legislative Exchange Council (Alec), un’organizzazione di destra finanziata dall’industria fossile che mette in contatto aziende e legislatori per elaborare proposte di legge su vari temi, tra cui gli standard ambientali.

Lobby fossili, le conseguenze: attivisti nel mirino e diritti civili sotto attacco

Le conseguenze di questa offensiva legislativa sono già tangibili: decine di attivisti e giornalisti sono stati incriminati in stati come Louisiana, Texas e West Virginia per aver protestato pacificamente contro progetti come l’oleodotto Dakota Access o il gasdotto Mountain Valley.

Critica è la voce di Rico Sisney, attivista incriminato nel 2019 in Texas: “Queste leggi trasformano quello che sarebbe un semplice reato di violazione di proprietà in un crimine. È essenzialmente un modo con cui l’industria dei combustibili fossili sta facendo pressioni per rendere sempre più difficile esercitare la libertà di parola o partecipare a questo tipo di manifestazioni”.

Gli esperti di diritti umani condannano questa tendenza. Mary Lawlor, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui difensori dei diritti umani, ha definito “inaccettabile” la criminalizzazione di azioni pacifiche volte a richiamare l’attenzione sul riscaldamento globale.

L’ambientalista Bill McKibben non usa mezzi termini: “È disgustoso, profondamente anti-americano e alla fine non fermerà la transizione verso un mondo più pulito, ma causerà gravi danni a persone e organizzazioni meritevoli nei prossimi anni”.

Mentre il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato e gli eventi meteorologici estremi colpiscono comunità in tutto il Nord America, l’amministrazione Biden ha concesso oltre 1.450 nuove licenze per petrolio e gas, il 20% in più rispetto a Trump. In questo contesto, la repressione del dissenso appare come un tentativo disperato dell’industria fossile di prolungare la propria esistenza, nonostante l’urgenza della crisi climatica.

L’inchiesta del Guardian getta luce su un preoccupante attacco al diritto di protesta pacifica negli Stati Uniti, rivelando come gli interessi economici stiano prevalendo sui diritti democratici e sull’imperativo di affrontare l’emergenza climatica. Un monito inquietante sulla necessità di vigilare e difendere gli spazi di dissenso, cruciali per spingere verso un’azione climatica più incisiva. Resta da capire se anche in questo campo gli Usa siano pionieri. In Italia le leggi restrittive corrono a piè veloce. I suggeritori non si conoscono ancora. 

Leggi anche: Combustibili fossili, 900 incontri in quattro anni a Bruxelles tra lobbisti e decisori Ue

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Seguite i soldi

«Follow the money – dice Giorgia Meloni – Una intuizione di due grandi giudici italiani, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che è diventata un modello, anche a livello internazionale, per contrastare le organizzazioni criminali». 

Di fronte all’assemblea generale dell’Onu la presidente del Consiglio tira fuori dal cassetto i giudici antimafia per parlare di contrasto all’immigrazione. I due nomi – meglio ancora se in coppia – sono un feticcio comodo e funzionale. Sono comodi perché non possono più parlare e funzionano perché hanno l’impatto del mito. 

Ci permettiamo quindi di “seguire i soldi” come suggerisce Meloni per capire chi siano e dove siano gli scafisti che lei aveva promesso di inseguire per tutto l’orbe terraqueo.

Il primo bonifico ormai storico parte dal conto corrente dello Stato italiano e va diretto in Libia. A ben vedere sono più bonifici, spezzettati, come accade quando si vogliono confondere le tracce: vanno ai diversi sindaci che abitano la finta democrazia libica e vanno a truppe che si confondono con pezzi di cosiddetta Guardia costiera libica. Seguite il percorso dei soldi e troverete mandanti ed esecutori. 

Il secondo bonifico parte sempre dallo Stato italiano e va a finire sul conto corrente (e nelle tasche?) di Kaïs Saïed, presidente tunisino che sta apparecchiando finte elezioni. Anche in questo caso, come accade con la Libia, insieme ai soldi c’è una cessione di saperi e di attrezzature. Per fare un “lavoro pulito”, come avrebbero detto quelli che sfuggivano a Falcone e Borsellino.

I reati minori – i cosiddetti reati spia –  sono tutti sul tavolo: violazione dei diritti umani, violenza, schiavitù e sfruttamento all’osso delle vittime.

Seguire i soldi, è così semplice. 

Buon venerdì. 

Nella foto: La presidente del Consiglio Giorgia Meloni in visita in Libia con il maresciallo Haftar, 7 maggio 2024 (governo.it)

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Storia della cittadinanza italiana, perfino i fascisti erano più liberali

Amano la storia solo quando gli fa comodo. La storia della cittadinanza italiana, ad esempio, è un racconto di cambiamenti graduali e, talvolta, repentini che andrebbe studiata per bene. Un’analisi di Pagella politica rivela come, nel corso di oltre un secolo, l’Italia abbia modificato significativamente i criteri per concedere la cittadinanza, passando da un approccio relativamente aperto a uno decisamente più restrittivo.

Da Giolitti al Fascismo: un secolo di apertura

Inizia tutto nel 1912, quando l’Italia era ancora un regno e Giovanni Giolitti guidava il governo. In quell’anno venne emanata una legge che avrebbe regolato la concessione della cittadinanza per i successivi ottant’anni. Le sue disposizioni erano sorprendentemente liberali per l’epoca: bastava risiedere in Italia per soli cinque anni per poter richiedere la cittadinanza. Anzi, in alcuni casi speciali, come per chi avesse reso “notevoli servigi all’Italia” o avesse sposato una cittadina italiana questo periodo si riduceva addirittura a tre anni. La legge sopravvive pressoché intatta anche durante il ventennio fascista. Nel 1934, il regime apportò alcune modifiche, ma i criteri fondamentali rimasero invariati.

Gli anni ’70 e ’80 videro alcuni aggiustamenti alla legge, più che altro di natura tecnica. Nel 1977, con l’abbassamento della maggiore età a 18 anni, si adeguò anche l’età in cui i nati in Italia da genitori stranieri potevano richiedere la cittadinanza. Un cambiamento più sostanziale avvenne nel 1983, quando una sentenza della Corte costituzionale estese il diritto alla cittadinanza per nascita anche ai figli di madre italiana, correggendo una disparità di genere che durava da decenni.

1992: la svolta restrittiva nell’era dell’immigrazione

La vera svolta, tuttavia, arrivò nel 1992. In un’Italia che stava iniziando a confrontarsi con flussi migratori in aumento il Parlamento approvò una nuova legge sulla cittadinanza che avrebbe cambiato radicalmente le regole del gioco. Il requisito di residenza per gli stranieri non comunitari venne raddoppiato, passando da cinque a dieci anni. Solo per i cittadini dell’Unione Europea si mantenne il criterio dei cinque anni.

Per comprendere la portata di questo cambiamento basta guardare i numeri. Nel 1991, gli stranieri residenti in Italia erano circa 350.000, meno dell’1% della popolazione. Oggi, a distanza di tre decenni, sono quasi 5 milioni, rappresentando quasi il 9% dei residenti. Un aumento che ha trasformato il tessuto sociale del Paese innescando il gioco politico della xenofobia.

Nonostante i numerosi tentativi di riforma negli anni successivi, la legge del 1992 è rimasta sostanzialmente immutata. Ora il vento potrebbe cambiare. Il 24 settembre 2024, un comitato referendario ha annunciato di aver raccolto 500.000 firme per indire un referendum abrogativo. L’obiettivo? Riportare a cinque anni il periodo di residenza necessario per richiedere la cittadinanza, come era prima del 1992.

Se la Corte costituzionale darà il via libera, gli italiani potrebbero essere chiamati alle urne nel 2025 per decidere se tornare, in un certo senso, al passato. Un passato in cui diventare italiani era, almeno sulla carta, più semplice.

Il confronto è lampante: per ottant’anni, dal 1912 al 1992, bastavano cinque anni di residenza per poter chiedere di diventare italiani. Oggi ne servono dieci. Un raddoppio che riflette non solo un cambio di politica ma anche una diversa concezione dell’identità nazionale e dell’integrazione.

La storia della cittadinanza italiana è, in fondo, la storia di come il Paese si è visto e si vede nel contesto globale. Da nazione di emigranti a terra di immigrazione l’Italia ha dovuto e dovrà ancora confrontarsi con la questione di chi può chiamarsi italiano. Un dato è incontestabile: perfino i fascisti appaiono più liberali di qualcuno del giorno d’oggi. 

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Fallite le politiche migratorie, ora le vite in mare le salvano i turisti

Il governo Meloni esulta per il calo degli sbarchi di migranti sulle coste italiane ma la realtà dietro questi numeri è ben più complessa e drammatica. Mentre le statistiche ufficiali mostrano una diminuzione degli arrivi, emergono continuamente preoccupanti segnali di un aumento delle morti in mare e sulla terraferma.

Ieri al largo di Lampedusa, si è verificato l’ennesimo naufragio che ha messo in luce la gravità della situazione. Un’imbarcazione con 58 migranti a bordo, partita da Sfax in Tunisia, si è ribaltata a pochi metri dalla costa di Capo Ponente. Il tempestivo intervento di alcuni turisti su uno yacht e di alcuni lampedusani ha permesso di salvare 55 persone, mentre tre risultano ancora disperse. Salvati dai turisti, mica dallo Stato. 

Una drammatica realtà dietro i numeri

È solo l’ultimo episodio che racconta come dietro il presunto successo delle politiche di contenimento degli sbarchi la tragedia umanitaria nel Mediterraneo continui a consumarsi quotidianamente. I migranti, provenienti da paesi come Camerun, Guinea, Liberia, Mali, Senegal e Sierra Leone, rischiano la vita pagando somme ingenti (fino a 3.000 dinari a testa) per tentare la traversata verso l’Europa. Il governo italiano di fronte a queste tragedie è immobile delegando di fatto i soccorsi a turisti e cittadini.

Ma il dramma non si esaurisce con gli sbarchi. Secondo recenti inchieste la collaborazione tra Italia, Unione europea e paesi come la Tunisia sta portando a una situazione allarmante. L’accordo siglato nel giugno 2023 tra Ue e Tunisia, che prevedeva lo stanziamento di 100 milioni di euro per operazioni di “ricerca e soccorso”, “gestione delle frontiere” e “lotta contro il traffico di esseri umani” sta mostrando il suo lato oscuro.

Già nell’agosto dell’anno scorso l’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani (Unhcr) sollevava dubbi sulla possibilità che tale accordo potesse facilitare violazioni dei diritti umani a danno dei migranti, soprattutto quelli provenienti dall’Africa sub-sahariana. Le politiche repressive del presidente tunisino Kais Saied nei confronti dei migranti neri hanno infatti acuito le tensioni e le violenze. Nonostante queste denunce, l’Ue sembra chiudere un occhio, puntando a esternalizzare il confine meridionale dell’Europa all’Africa. Si prevede addirittura di inviare alla Tunisia più denaro di quanto ammesso pubblicamente.

Migranti: numeri in calo e respingimenti illegittimi

Il risultato di queste politiche è un calo degli sbarchi in Italia a un prezzo umano inaccettabile. La guardia nazionale marittima della Tunisia, utilizzando motovedette fornite dall’Europa, ha impedito a più di 50mila persone di attraversare il Mediterraneo. Ma queste persone non scompaiono: vengono respinte illegalmente, abbandonate nel deserto al confine con l’Algeria, o subiscono violenze e abusi.

In questo contesto, emerge un paradosso: mentre si cerca di impedire l’arrivo dei migranti, coloro che riescono a raggiungere l’Italia mostrano una forte volontà di integrazione e di contributo alla società.

Migranti, il sondaggio UInhcr/Lumsa

Un questionario condotto dall’Unhcr in collaborazione con l’Università Lumsa rivela che la maggioranza dei rifugiati e richiedenti asilo iscritti nelle università italiane desidera integrarsi nel tessuto lavorativo del paese. Il 35% degli intervistati aspira a lavorare in Italia dopo la laurea, mentre il 26% vorrebbe conciliare lo studio con un’attività professionale. Questi dati sfatano il mito del migrante come “peso” per la società, mostrando invece una forte volontà di contribuire attivamente all’economia e alla società italiana.

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Doccia fredda da Berlino & C. su Urso e i motori termici

Povero Adolfo Urso, ministro dello Sviluppo economico che da mesi ha un chiodo fisso: consentire che la produzione di auto a benzina e diesel spossa continuare anche dopo il 2035. Qualche giorno fa tutto festante il ministro ha presentato a Bruxelles il suo piano chiedendo di rivedere la scadenza. Del resto, nella propaganda della maggioranza, il tema mondiale dell’inquinamento e del cambiamento climatico si scontra con il bullismo di cilindrata. Così è tutto più semplice e immediato per una parte dell’elettorato.

Urso era felice. Al suo fianco aveva solidi alleati come Malta e Cipro. In realtà una doccia fredda era arrivata dal ministro tedesco Robert Habeck che aveva detto di voler “mantenere la data del 2035”, ma Urso giurava che la trattative fosse aperta. Ieri la doccia fredda si è fatta gelata. “La Germania non vuole indebolire le regole climatiche, per noi gli obiettivi climatici sono fondamentali e vediamo già un pericolo che l’industria Ue non regga la competizione con veicoli elettrici provenienti da altrove. Il nostro obiettivo non è mettere in discussione l’uscita dal motore endotermico nel 2035 e non chiediamo nuovi biocarburanti, che non sono climaticamente neutrali”, ha scandito il segretario di Stato tedesco agli Affari economici, Sven Giegold, arrivando al Consiglio Ue Competitività.

A stretto giro anche la Spagna attraverso il ministro spagnolo dell’industria e del turismo, Jordi Hereu ha detto di non volere fare nessun passo indietro. E perfino l’unico produttore italiano, Stellantis, con il suo numero uno Carlos Tavares dice che “cambiare adesso le norme sarebbe surreale”. Con Urso rimangono Romania, Repubblica Ceca, Malta, Lituania e Slovacchia. Povero Urso.

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Allarme da Bruxelles, l’Ue scivola verso la xenofobia

L’Europa si sta allontanando dai suoi valori fondanti, scivolando pericolosamente verso una concezione etnica e xenofoba dell’identità europea. È questo l’allarme lanciato dall’ultimo rapporto del Consiglio europeo per le relazioni estere (ECFR) e della Fondazione europea per la cultura (ECF), che mette in luce tre principali “punti ciechi” dell’Unione Europea.

I tre punti ciechi dell’Unione europea

Il primo è la palese “bianchezza” della politica europea. Nonostante il 10% della popolazione UE appartenga a minoranze etniche, solo il 3% dei parlamentari europei non è bianco. Una sottorappresentazione evidente, che stride con la diversità mostrata in altri ambiti come lo sport o l’Eurovision. Alle ultime elezioni europee, in molti paesi le liste dei candidati non riflettevano affatto il carattere multiculturale delle società europee.

Il secondo punto critico è il tiepido europeismo dell’Europa centro-orientale. In sette paesi su undici della regione l’affluenza alle elezioni europee è stata sotto il 40%, sintomo di un entusiasmo ormai raffreddato verso il progetto comunitario. In Polonia, considerata per anni una delle società più europeiste, il 47% della popolazione ritiene ora che il paese potrebbe affrontare meglio il futuro fuori dall’UE – la percentuale più alta tra tutti gli Stati membri.

Infine, il disimpegno dei giovani. Paradossalmente, pur essendo in media più favorevoli all’UE e tolleranti sulle questioni sociali rispetto alle generazioni precedenti, molti under 35 hanno disertato le urne europee. In Polonia, solo il 26,5% dei giovani ha votato alle elezioni europee, ben al di sotto della media nazionale del 40%. In Francia, il tasso di astensione è stato più alto (53%) proprio tra gli elettori più giovani.

L’intersezione di questi tre fenomeni rischia di plasmare un sentimento europeo in contrasto con i valori originari dell’Unione. Il pericolo, avverte il rapporto, è di scivolare verso una concezione “etnica” anziché “civica” dell’europeità. I segnali sono già evidenti. Alle ultime elezioni europee, partiti di estrema destra sono arrivati primi in Francia, Italia, Belgio, Austria e Ungheria. In Germania, l’AfD è arrivata seconda tra i giovani elettori. In Polonia, il 30% dei giovani ha votato per la destra radicale della Confederazione. In Francia, un terzo dei giovani ha scelto il Rassemblement National.

La deriva xenofoba: segnali e conseguenze

La retorica anti-immigrazione dilaga, sdoganata anche da partiti mainstream. In Germania si discute apertamente di piani per deportare richiedenti asilo e cittadini di origine straniera. In Italia, la Lega ha usato slogan come “Cambiamo l’Europa prima che cambi noi”, con l’immagine di una donna velata.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha ulteriormente esacerbato le tensioni, esponendo molti europei di colore e musulmani a una vera e propria ondata di xenofobia. Secondo l’Agenzia dell’UE per i diritti fondamentali, si è registrato un forte aumento di atti di odio e violenza sia antisemiti che anti-musulmani. Un sondaggio tra i musulmani francesi ha rivelato che due terzi ritengono che i media favoriscano Israele nella copertura del conflitto.

Il rapporto evidenzia come questa deriva xenofoba sia particolarmente pronunciata nell’Europa centro-orientale. In molti paesi della regione, il discorso xenofobo incontra scarsa resistenza da parte di politici, media ed élite intellettuali. Secondo uno studio del 2019 di Pew Research, esiste una notevole differenza negli atteggiamenti verso i musulmani tra i paesi dell’Europa occidentale (Francia, Paesi Bassi, Germania e Svezia), dove prevalgono opinioni favorevoli, e l’Europa centro-orientale (Slovacchia, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Lituania), dove la maggioranza ha un’opinione sfavorevole.

Di fronte a questo scenario, il rapporto lancia un appello urgente ai politici pro-europei: diversificare la propria base elettorale, abbassare l’età del voto come fatto in Austria, Belgio e Germania, intensificare il dialogo con i giovani. Soprattutto, è necessario rompere il silenzio su temi come migrazione e diversità. Chiamare le cose con il loro nome, denunciando apertamente la xenofobia. Spiegare ai cittadini che certi atteggiamenti minano la pace sociale in società ormai inevitabilmente multietniche. L’identità civica dell’UE va rafforzata, presentando l’Unione come una forza di cambiamento positivo su economia, sicurezza, clima. Ma anche affrontando le preoccupazioni legate all’immigrazione, senza lasciare questo terreno all’estrema destra.

Il rapporto sottolinea anche alcune eccezioni positive alla tendenza generale. In Italia, i giovani sono stati l’unico gruppo d’età in cui Fratelli d’Italia non è arrivato primo, piazzandosi quarto dietro centro-sinistra, Movimento 5 Stelle e Avs. In Svezia, i giovani elettori sembrano essere stati molto meno favorevoli ai nazionalisti dei Democratici Svedesi rispetto alle generazioni più anziane. In Croazia, una lista indipendente “Gen Z” guidata da Nina Skocak, composta da 12 candidati di età compresa tra 19 e 30 anni, ha ottenuto oltre il 4% del voto popolare.

Il rapporto conclude sottolineando l’urgenza di affrontare questi “punti ciechi”. Se non si interverrà, avverte, c’è il rischio che il sentimento europeo possa collassare del tutto, o prosperare in una forma chiusa e xenofoba. L’Europa si trova dunque a un bivio, e la strada intrapresa nei prossimi anni determinerà il futuro stesso del progetto europeo.

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La scuola cade a pezzi: nell’ultimo anno registrati ben 69 crolli

Mai così tanti crolli nelle scuole italiane nell’ultimo anno. Un record di cui non andare fieri. Tra settembre 2023 e settembre 2024 ben 69 episodi di crolli hanno interessato le scuole del Belpaese, numero mai raggiunto negli ultimi 7 anni. Un triste primato equamente distribuito tra Nord e Sud (28 casi ciascuno, 40,5% del totale), con il Centro che si “accontenta” di 13 crolli (19%). 

La sicurezza è un optional: radiografia di un’emergenza

La fotografia scattata da Cittadinanzattiva nel suo XXII Rapporto sulla sicurezza scolastica è impietosa. Mostra un’edilizia scolastica in ginocchio, fatta di strutture fatiscenti che si sgretolano come biscotti inzuppati nel latte. Con buona pace della sicurezza di studenti e personale scolastico.

Ma non c’è da stupirsi più di tanto. Il 59,16% degli edifici scolastici non possiede il certificato di agibilità. Come dire: “Entrate pure, ma a vostro rischio e pericolo”. Il 57,68% è sprovvisto del certificato di prevenzione incendi. Perché in fondo, cosa mai potrebbe andare storto? E il 41,50% non ha nemmeno il collaudo statico. D’altronde, a che serve accertarsi che un edificio stia effettivamente in piedi? Su 40.133 edifici scolastici censiti, 2.876 sono collocati in zona sismica 1 (la più pericolosa) e 14.467 in zona 2.

Quasi la metà delle scuole italiane, insomma, sorge su un territorio ad alto rischio sismico. Qualche timido passo avanti c’è stato, per carità. Il 3% degli edifici ha avuto interventi di adeguamento o miglioramento sismico. E l’11,4% è stato progettato secondo la normativa antisismica. Numeri da prefisso telefonico, ma almeno un segnale. Peccato che a questi ritmi, per mettere in sicurezza tutte le scuole ci vorrà solo qualche secolo. Sempre che nel frattempo non crollino prima.

Del resto, lo stato di salute degli edifici scolastici è sotto gli occhi di tutti. Il 64% dei 361 docenti intervistati da Cittadinanzattiva rileva la presenza di fenomeni dovuti alla manutenzione inadeguata o inesistente. Il 40,1% segnala infiltrazioni d’acqua, il 38,7% distacchi di intonaco, il 38,2% tracce di umidità. Un quadro desolante, fatto di muri che piangono e soffitti che si sbriciolano.

La metà degli insegnanti ha segnalato situazioni di inadeguatezza rispetto alla sicurezza. E in questi casi, sorprendentemente, c’è stato un intervento. Forse qualcuno si è ricordato che nelle scuole ci sono esseri umani, non topi da laboratorio.

Quanto alle prove di emergenza, il 92% dei docenti dichiara di avervi partecipato. L’8% sostiene che non siano state effettuate. Evidentemente in alcune scuole si confida nella protezione divina. Le simulazioni hanno riguardato soprattutto incendi (79%) e terremoti (70%). Alluvioni e rischio vulcanico restano fanalini di coda (5% e 1%), nonostante i disastri sempre più frequenti. Ma si sa, prevenire è meglio che evacuare.

PNRR: la grande illusione dell’edilizia scolastica

In questo scenario già poco edificante, si inserisce il pasticcio del PNRR. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza doveva essere la panacea di tutti i mali, e invece… Tagli su tagli, rimodulazioni, revisioni al ribasso. Per gli asili nido si passa da 4,6 miliardi per 264.480 nuovi posti a 3,245 miliardi per 150.480 posti. Le nuove scuole da costruire scendono da 195 a 166. Motivo? L’aumento dei costi di costruzione. Come se non lo si sapesse già quando sono stati fatti i conti la prima volta.

Stesso copione per gli interventi di ristrutturazione, messa in sicurezza e adeguamento sismico. Il budget sale da 3,9 a 4,399 miliardi, ma servirà per sistemare meno edifici. Insomma, si spende di più per fare meno. Un’equazione degna dei migliori economisti. Palestre e mense sono previste, certo. Ma molto al di sotto del fabbisogno effettivo. D’altronde, cosa sarà mai un po’ di movimento e un pasto decente per i nostri ragazzi? L’importante è che stiano seduti e zitti per ore in classi pollaio.

Adriana Bizzarri, coordinatrice nazionale scuola di Cittadinanzattiva, non nasconde la preoccupazione: “Siamo molto preoccupati per la riduzione degli interventi, soprattutto sui nidi, che non riusciranno a colmare i gap esistenti nei territori che più ne necessitano né a raggiungere gli obiettivi europei, ancora più lontani”. 

Bizzarri guarda già oltre: “È evidente che sin d’ora bisogna guardare al post Pnrr, con l’utilizzo di fondi ordinari nazionali ed europei, per garantire il funzionamento delle nuove strutture, per investimenti mirati e per assicurare continuità dei fondi all’edilizia scolastica”.

Nell’attesa, non resta che sperare nella buona sorte. E magari partecipare a “Scatti di sicurezza”, il contest fotografico promosso da Cittadinanzattiva. Almeno avremo un bel reportage su come crollano le nostre scuole.

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Combustibili fossili, 900 incontri in 4 anni a Bruxelles tra lobbisti e decisori Ue

Potrebbe essere l’inizio di una barzelletta: “Sapete quante volte si sono incontrati la Commissione europea e i lobbisti dei combustibili fossili durante l’ultimo mandato?”. Peccato che la risposta non faccia ridere per niente: quasi 900 volte in poco più di 4 anni. Praticamente ogni santo giorno lavorativo.

A rivelarlo sono due rapporti pubblicati da Transparency International e Fossil Free Politics, che hanno setacciato con pazienza certosina gli incontri ad alto livello tra i commissari Ue e i rappresentanti dell’industria fossile dal 2019 al 2024. Il risultato è un valzer frenetico fatto di strette di mano, porte girevoli e sussurri nei corridoi di Bruxelles.

Il valzer dei petrolieri: un ballo quasi quotidiano

La Shell, colosso anglo-olandese del petrolio, si è aggiudicata la palma d’oro con ben 46 incontri. Un’assiduità che farebbe invidia a molti matrimoni. Subito dietro troviamo le altre “Sette Sorelle” del settore: Eni, Total, Equinor, ExxonMobil, BP e Chevron. Una vera e propria parata di giganti.

Ma non finisce qui. Perché oltre agli incontri diretti, l’industria fossile può contare su una rete di oltre 50 organizzazioni affiliate, con un budget di lobbying complessivo di 64 milioni di euro all’anno. Una potenza di fuoco impressionante, che ha permesso di moltiplicare gli “agganci” con i decisori europei.

I rapporti rivelano inoltre che l’influenza dell’industria fossile si è intensificata dopo l’invasione russa dell’Ucraina. La Commissaria Simson ha aumentato del 50% la frequenza degli incontri con le compagnie fossili in questo periodo, passando da una media di 0,4 incontri a settimana prima dell’invasione a 0,6 dopo. Anche la presidente von der Leyen, che prima dell’invasione aveva avuto un solo incontro con l’industria fossile, ne ha poi avuti altri sette in rapida successione, di cui tre con Shell e due con Equinor, tutti incentrati sulla crisi energetica.

I rapporti mettono in luce anche il ruolo delle associazioni di categoria e dei gruppi di pressione nel moltiplicare l’influenza dell’industria fossile. Organizzazioni come BusinessEurope, l’Associazione Internazionale dei Produttori di Petrolio e Gas (IOGP) e Hydrogen Europe hanno avuto decine di incontri con i vertici della Commissione, spesso promuovendo gli interessi dei loro membri appartenenti all’industria fossile.

Particolarmente preoccupante è la presenza di rappresentanti dell’industria fossile nei consigli di amministrazione di queste organizzazioni lobbistiche. Shell e Total, per esempio, hanno ciascuna nove dipendenti in posizioni chiave all’interno di queste reti, garantendo loro un’influenza sproporzionata sulle politiche energetiche e climatiche dell’Ue.

L’idrogeno grigio: il cavallo di Troia dell’industria dei combustibili fossili

Il tema più gettonato? L’idrogeno, nuovo mantra della transizione energetica. Peccato che, come ricordano i rapporti, il 99% dell’idrogeno prodotto oggi sia “grigio”, ovvero derivato da combustibili fossili. Un cavallo di Troia per perpetuare il business as usual mascherandolo da svolta green.

La Commissaria all’Energia Kadri Simson si è rivelata la più ricercata, con 116 incontri. Seguita a ruota dall’ex Commissario al Green Deal Frans Timmermans (105) e dall’attuale titolare Maroš Šefčovič (40). Un vero e proprio assedio ai vertici della politica energetica e climatica europea.

I rapporti sottolineano come l’industria abbia spinto per soluzioni false come la cattura e lo stoccaggio del carbonio (Ccs) e l’idrogeno “blu”. Nel frattempo, le parti più progressive del Green Deal, come le restrizioni sui pesticidi e le regole sulla protezione della natura, sono state silenziosamente accantonate.

Un altro dato allarmante riguarda la presenza dell’industria fossile alle conferenze sul clima delle Nazioni Unite (COP). I rapporti evidenziano che molte delle organizzazioni che fanno lobbying a Bruxelles sono anche presenti a questi eventi cruciali. In particolare, il numero di lobbisti dell’industria fossile è aumentato del 286% tra COP27 e COP28, dimostrando come l’influenza del settore si estenda ben oltre i confini dell’Unione Europea.

Combustibili fossili, influenza pervasiva e sistematica

Certo, qualcuno obietterà che è normale che l’industria venga consultata su temi così cruciali. Ma qui non parliamo di semplici consultazioni. Stiamo parlando di un’influenza pervasiva e sistematica, che rischia di minare alla base gli sforzi per contrastare la crisi climatica.

Come sottolineano i rapporti, l’industria fossile ha una lunga storia di negazione, ritardi e sabotaggio delle politiche climatiche eppure continua ad avere un accesso privilegiato ai tavoli che contano.

Non è un caso se Transparency International e Fossil Free Politics chiedono a gran voce l’introduzione di un “firewall” tra lobbisti fossili e decisori politici, sul modello di quanto fatto per l’industria del tabacco. Una misura drastica ma necessaria se si vuole davvero mettere al centro l’interesse collettivo e non i profitti di pochi.

La nuova Commissione dovrebbe avere il compito cruciale di raddrizzare la barra. Servirebbe coraggio per chiudere le porte alla sirena dei combustibili fossili e puntare con decisione su un’economia realmente sostenibile. Le gesta della prima Commissione von der Leyen non lasciano presagire nulla di buono.

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