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Sindaco denuncia te stesso

Sul Fatto Quotidiano di ieri Thomas Mackinson scrive del sindaco di Portofino Matteo Viacava, effimero eroe del centrodestra perché fu tra i primi che voleva dedicare una via a Silvio Berlusconi, sfidando i termini di legge, con grande giubilo dei berluscones.

Il sindaco Viacava tra le altre cose è proprietario di un “tabacchi con rivendita di souvenir” a pochi passi dal palazzo comunale e a pochi metri dalla sede della polizia locale ai suoi comandi. Portofino, la località che vorrebbe essere regina del glamour è la meta di migliaia di turisti stranieri che considerano la città un simbolo dell’eleganza italiana. Solo che dentro la tabaccheria del sindaco vengono vendute borse di altisonanti marchi della moda palesemente contraffatte, a pochi euro. Se Viacava fosse nero c’è da scommettere che al prossimo Consiglio dei ministri avremmo avuto un nuovo decreto legge, dal nome “Portofino sicura”, che avrebbe inasprito le pene per la contraffazione. 

Pizzicato dal giornalista Viacava non nega, anzi rilancia. Dice che non gestisce personalmente il negozio, nonostante il giornalista l’abbia trovato proprio lì dentro, indaffarato a servire i turisti, e rilancia il grande successo turistico dell’ultima stagione. Un sindaco che è titolare di una tale attività nel centro della città che amministra godendo dell’indifferenza di chi dovrebbe controllare (giornalisti inclusi) è il paradigma del “fate quel che dico ma non fate quel che faccio”. Ora non gli resta che costituirsi parte civile per un processo contro sé stesso. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: Portofino e il sindaco Matteo Viacava (fb)

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Scandalo in Polonia. Accolti 250mila migranti in cambio di mazzette

Quando Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, aveva presentato il suo “piano” in dieci punti sull’immigrazione, il presidente polacco Mateusz Morawiecki ha immediatamente tuonato: “La Polonia non sarà spezzata! Non faremo entrare nessuno! Le donne e i bambini polacchi saranno al sicuro!”. Vedendo l’indagine che sta coinvolgendo il suo governo si direbbe il contrario: in Polonia si entra eccome, basta pagare le persone giuste.

In Polonia bufera sul governo sovranista guidato da Mateusz Morawiecki. Che giurava: qui non entra lo straniero

Secondo i media polacchi dal 2021 a oggi i funzionari del governo di Varsavia sparsi per il mondo (soprattutto in Africa e Asia) avrebbero distribuito qualcosa come 250mila visti previo pagamento di una mazzetta di 5mila euro. Quando qualche mese fa si cominciò a parlare dell’indagine, il premier Morawiecki bollò le accuse come un “complotto” ordito dal suo principale oppositore (Donald Tusk) cha si sarebbe sgonfiato in fretta. Non è andata così. A oggi tre funzionari del governo si ritrovano in carcere e l’ex vice ministro degli Esteri Piotr Wawrzyk è stato rimosso dal suo ruolo lo scorso agosto. Ufficialmente il motivo del licenziamento di Wawrzyk è “la mancanza di collaborazione soddisfacente”.

“Sì, mancanza di collaborazione con il governo”, è stato il velenoso titolo dell’agenzia di stampa polacca Pap. Wawrzykm secondo fonti del ministero avrebbe parlato di un vero e proprio “sistema” che avrebbe garantito l’ingresso in Europa. A settembre l’ex vice ministro ha provato a suicidarsi senza successo. I pubblici ministeri polacchi spiegano che le domande di visto riguardavano gli stranieri che presentavano domande alle missioni diplomatiche polacche a Hong Kong, Taiwan, Emirati Arabi Uniti, India, Arabia Saudita, Singapore, Filippine e Qatar.

Il giornale Gazeta Wyborcza ha scritto la scorsa settimana che il ministero degli Esteri polacco avrebbe potuto consentire l’ingresso in Europa addirittura a “centinaia di migliaia di migranti”. “Il commercio di visti negli uffici in Africa, l’ammissione di migliaia di migranti, gli arresti di funzionari, nastri compromettenti, un ministro in clandestinità, il tentativo di suicidio del suo vice, gli Stati Uniti e l’Ue sotto shock”, ha twittato Tusk, leader del principale gruppo di opposizione polacco, la Civic Coalition (KO). La vicenda arriva in un momento delicatissimo per il presidente Morawiecki. Le elezioni sono fissate per il prossimo 15 ottobre e la guerra dura ai migranti rimane il punto principale della propaganda di estrema destra del partito del premier, il PiS, fedele alleato di Giorgia Meloni in Europa.

Varsavia fa asse con Budapest. Risoluzione congiunta per archiviare la proposta della von der Leyen

Proprio ieri Morawiecki ha definito “disastroso” il piano di von der Leyen (salutato come “rivoluzionario” dalla sua alleata Meloni) annunciando una “risoluzione speciale” per dimostrare la sua opposizione all’immigrazione illegale: “I burocrati europei non hanno considerazione per la sicurezza dei cittadini del continente e quindi anche per la sicurezza delle famiglie, delle donne e dei bambini polacchi”, ha detto il capo dell’esecutivo. Una cosa è certa: quando Meloni promise guerra “in tutto l’orbe terracqueo” agli scafisti che si arricchiscono con l’immigrazione illegale, non avrebbe mai potuto immaginare che la sua indagine senza sconti finisse nei cassetti del suo principale alleato in Europa.

Ieri a New York il ministro degli Esteri polacco, Zbigniew Rau ha detto: “Non mi sento complice, non sto pensando di presentare le mie dimissioni e non c’è nessuno scandalo dei visti… Guardare i dati è sufficiente per dimostrare che in Polonia nel 2022 abbiamo rilasciato visti Schengen secondo le proporzioni”. Resta da vedere come abbiano scelto chi fare entrare.

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Salvini leader di partito con licenza di mentire

Chissà se il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si è reso conto di cosa ha detto ieri intervenendo alla trasmissione “Ping Pong” su Radio1. A chi gli chiedeva di quella squinternata idea di Matteo Salvini secondo cui esisterebbe una “regia bellica” dietro agli sbarchi, il ministro Piantedosi ha risposto così: “Una regia dietro gli sbarchi? Io non ho prove, se Salvini l’ha detto, le sue supposizioni avranno sicuramente qualche fondamento. Lui da leader politico può dirlo, io da ministro dell’Interno devo avere prove concrete”.

Chissà se il ministro dell’Interno Piantedosi si è reso conto di cosa ha detto ieri intervenendo alla trasmissione “Ping Pong” su Radio1

Non serve un’accurata esegesi del testo per comprendere che secondo Piantedosi essere “leader politici” concede il lusso di poter avanzare tesi senza nessun fondamento, purché siano utili alla propaganda. Che i leader politici utilizzino la menzogna come arma politica non è una sorpresa. Lo stesso dibattito sui migranti a cui stiamo assistendo poggia su un’invasione inesistente nei fatti e nelle cifre, nonostante sia concimata ogni ora nella percezione.

Ciò che stupisce delle parole di Piantedosi è la beata ingenuità con cui ammette la possibilità che il leader di un partito possa ricorrere alla bugia (o a una tesi non verificata e non verificabile) per governare il proprio consenso. Facciamo presente a Piantedosi però un lato della vicenda piuttosto preoccupante: il “leader di partito” Matteo Salvini è anche un suo collega ministro. Ciò significa che può usare entrambi i registri, del vero e del non vero? Anche perché se fosse così facciamo ancora presente a Piantedosi che la sua presidente del Consiglio Giorgia Meloni è incidentalmente anche “leader di partito”. Come la mettiamo?

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La campagna di von der Leyen e Le Pen

E se fossero Giorgia Meloni e Matteo Salvini gli utili idioti? A leggere la stampa nazionale sembra che la premier e il ministro abbiano, nello scorso fine settimana, posto l’Italia al centro dell’Unione europea. La narrazione prevalente è parzialmente credibile: Meloni così può manifestare la vicinanza dell’Unione europea a Lampedusa insieme alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen e Salvini può sperare di recuperare consenso ingozzandosi di Prosecco e saltellando al fianco della francese Marine Le Pen. Ma è credibile anche il contrario.

Ursula von der Leyen punta al secondo mandato a Bruxelles. La leader del Front National Marine Le Pen a rovinarle la festa

La campagna per le prossime elezioni europee è già iniziata da un pezzo e sia von der Leyen sia Le Pen hanno bisogno di mostrarsi per confermare i propri voti e soprattutto per recuperarne di nuovi. Lo spostamento a destra di von der Leyen, alla ricerca del suo secondo mandato, è una trasformazione in atto da mesi. Nel suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione ha mandato molti messaggi alla sua parte politica: nonostante l’apparente ambientalismo per non perdere il centrosinistra con cui ha rassicurato che “non ci saranno passi indietro” dopo l’uscita di Frans Timmermans tornato in Olanda per candidarsi alla politiche von der Leyen ha voluto rassicurare innanzitutto l’industria: “Mentre entriamo nella prossima fase del Green Deal, una cosa non cambierà: continueremo a sostenere l’industria europea attraverso la transizione”, ha detto la presidente della Commissione Ue. Proponendo “dialoghi” agli industriali e agli agricoltori altamente corteggiati perché garanti della “sicurezza alimentare”.

A Bruxelles più di qualcuno ha intravisto in quelle parole un’apertura all’Ecr, il partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei guidato in Europa proprio da Meloni. Anche la guerra alle auto elettriche provenienti dalla Cina riporta a un protezionismo molto caro alla premier italiana e ai suoi elettori.

Un accordo tra Ppe e Ecr, alla luce della cavalcata delle destre in Europa, è un’ipotesi consistente e se von der Leyen vuole tentare il bis ha bisogno di piacere a Meloni ogni giorno di più. Vista da qui la visita a Lampedusa, così come il sorvolo delle zone terremotate in Emilia Romagna, assume tutt’altro contorno: non sono i problemi italiani a essere una “priorità per l’Europa”, come si legge in giro. È Giorgia Meloni a essere una priorità elettorale per Ursula von der Leyen. E a perderci, come dimostrano le novità di queste ultime ore in cui il Consiglio europeo ha demolito le promesse della presidente della Commissione, sono sempre gli italiani.

Giorgia Meloni a Lampedusa e Matteo Salvini a Pontida hanno recitato la parte degli utili idioti al servizio delle due leader

Discorso identico per Marine Le Pen che alle prossime elezioni europee tenterà di spingere l’eurogruppo di Id a raccogliere i voti necessari per diventare indispensabile nella formazione di una possibile maggioranza a Bruxelles, nonostante i ripetuti attacchi del Ppe (di cui fa parte Forza Italia). Il gruppo Identità e Democrazia ha eurodeputati provenienti da dieci Paesi, la maggior parte dei quali provengono dal partito italiano della Lega, dal Rassemblement National francese e dall’Afd tedesco e Le Pen è senza dubbio il nome più rappresentativo in termini elettorali.

Essere al fianco di Matteo Salvini proprio nei giorni in cui l’Italia è sui giornali di tutto il mondo per la crisi migratoria è un’occasione ghiottissima per logorare la credibilità delle destre europeiste (Giorgia Meloni, per intendersi) che soffrono le mancate promesse dell’Ue. Le Pen vuole incarnare il “coraggio che manca” a von der Leyen, proprio come sta cercando di fare Salvini. Ecco perché l’Italia è diventata un’appetitosa terra di propaganda.

Leggi anche: Carta straccia l’intesa con Tunisi sui migranti. Ora lo dice pure il Consiglio Ue. Sconfessato il Memorandum firmato dalla von der Leyen. “Procedura violata, serve l’Ok di tutti gli Stati membri”

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Carta straccia l’intesa con la Tunisia sui migranti

Dice la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che “la presenza della Presidente Ursula von der Leyen a Lampedusa è molto importante anche da un punto di vista simbolico”. Andrebbe corretta: la gita a Lampedusa della presidente della Commissione europea è praticamente solo simbolica. E a nulla vale il decalogo da lei lanciato che è il solito trito elenco di buoni propositi che ciclicamente ritornano. E soprattutto, l’unica vera novità di von del Leyen – l’ipotesi di una missione europea nella Mediterraneo – è ben altro rispetto a quello che Meloni e compagnia hanno malinteso.

La gita a Lampedusa di Ursula von der Leyen della presidente della Commissione europea è praticamente solo simbolica

L’Agenzia europea per l’asilo e Frontex citate dalla presidente europea già da tempo aiutano gli stati membri (Italia inclusa) su registrazioni e identificazioni. Certo l’Unione europa cercherà di esercitare più pressione sugli Stati membri per ricollocare i migranti secondo il principio di solidarietà ma l’Europa solidale – l’abbiamo già visto spesso – è tutta solo sulla carta. Ieri è stato il ministro francese Darmanin a chiarire che la Francia non prenderà persone da Lampedusa: “La Francia vuole aiutare l’Italia a controllare la sue frontiere per impedire alla gente di venire. Sarebbe un errore di giudizio considerare che i migranti, siccome arrivano in Europa, devono essere subito ripartiti in tutta Europa e in Francia, che fa ampiamente la sua parte”, ha detto il ministro.

Non ha tutti i torti: nel 2022 la Germania ha fatto i conti con 243 mila richieste di asilo, la Francia 156 mila, la Spagna 117 mila, l’Austria 108 mila. L’Italia, nonostante gli strilli di chi sta al governo, continua a essere solo un Paese di transito. Sulla stessa linea – in modo più violento – anche la Polonia, paese “amico” di Meloni che per bocca del suo primo ministro Mateusz Morawiecki dice “la Polonia non sarà spezzata! Non faremo entrare nessuno! Le donne e i bambini polacchi saranno al sicuro”.

Sconfessato il Memorandum firmato con la Tunisia dalla von der Leyen: “Procedura violata, serve l’Ok di tutti gli Stati membri”

La posizione di Berlino si desume dalle parole della ministra dell’Interno, Nancy Faeser, che come Darmanin sottolinea l’importanza di concentrarsi soprattutto sulla protezione delle frontiere esterne dell’Ue: “Non possiamo fare altro, altrimenti non avremo in pugno la situazione migratoria”, ha detto commentando i dieci punti del Piano d’azione Ue. “Cammineremo insieme per avviare un piano di azione comune per, da un lato, sostenere l’Italia a livello umanitario e, dall’altro, vedere come si ottiene più controllo“, ha concluso. Già qui un bel mazzo di promesse di von der Leyen sono evaporate.

E il memorandum con Tunisi? Anche su quello la presidente della Commissione europea sembra averla fatta troppo semplice. Ieri il difensore civico dell’Ue, l’irlandese Emily O’Reilly, ha scritto alla Commissione Europea chiedendo chiarimenti su come l’esecutivo comunitario intenda garantire il rispetto dei diritti umani in Tunisia, nel contesto del memorandum d’intesa siglato nel luglio scorso a Tunisi da Ursula von der Leyen, Giorgia Meloni e Mark Rutte.

In tutti gli accordi con Paesi terzi, incluso quello con la Turchia, scrive tra l’altro O’Reilly, “dovrebbe esserci una valutazione preventiva ed esplicita dell’impatto sui diritti umani di azioni e politiche, idealmente prima che queste azioni inizino e le politiche vengano adottate, per ovvie ragioni. Nel contesto di questa valutazione, dove vengono identificati rischi per i diritti umani, dovrebbero essere proposte azione per mitigarli”.

Dopo lo schiaffo assestato da Bruxelles le promesse in 10 punti di Ursula von der Leyen alla Meloni sono tutte in salita

A questo si aggiunge la lettera inviata dall’Alto Rappresentante per la Politica Estera, Josep Borrell, in merito alle procedure seguite dall’esecutivo europeo sul Memorandum tunisino: Borrell sottolinea che, per il Consiglio Ue, “non sono state seguite in maniera corretta le fasi della procedura d’adozione” dell’intesa e che, quindi, il Memorandum “non può fungere da modello per futuri accordi”.

Tant’è che ieri la portavoce della Commissione Ue, Dana Spinant, ha frenato su nuovi memorandum “spetta agli Stati membri decidere” mentre in un’altra stanza la portavoce della Commissione europea per il Vicinato, l’allargamento e i partenariati internazionali, Ana Pisonero ha provato a smontare le accuse mosse da alcuni Paesi membri che sostengono di essere stati esclusi dalle consultazioni. Nel giro di ventiquattr’ore le dieci promesse della presidente von del Leyen sono già carta straccia e il Memorandum con la Tunisia traballa.

Siamo all’ennesima “svolta” dell’Unione europea che rischia di essere un gioco fatuo di promesse che non si realizzeranno. Ci sarebbe la missione marittima nel Mediterraneo, un’altra promessa: ma le leggi internazionali e dell’Ue obbligano a salvare le vite in mare. Anche quella è tutt’altro rispetto a ciò che si vorrebbe lasciare intendere.

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Come “intimidire” i disperati

Tra le soluzioni che non risolveranno nulla da oggi potete aggiungere l’aumento a 18 mesi dei tempi di detenzione nei Centri permanenza per il rimpatrio (Cpr) che il governo ha pensato per “intimidire” i disperati che partono e convincerli a non partire più.

Al di là dell’infantile credenza che qualcuno che scappa dalla fame e dal piombo possa essere minimamente scoraggiato dall’indurirsi delle nostre regole ci sarebbe da studiare con attenzione che fine abbiano fatto negli ultimi due anni i 50 milioni di appalti per la gestione che hanno foraggiato multinazionali e cooperative a discapito di qualsiasi diritto umano che dovrebbe essere garantito.

Si potrebbe rileggere l’ultimo rapporto per il Garante dei diritti che racconta come nel 2022 sia stato effettivamente rimpatriato in media il 49,4% delle persone trattenute (dal Cpr di Macomer, ad esempio, solo il 23%) in media con gli ultimi 25 anni. Si potrebbe rileggere anche il Garante quando scrive che quel tipo di detenzione è a tutti gli effetti illegittima: “tale privazione sia giustificata da una percorribile ipotesi di rimpatrio: ciò rende illegittima la restrizione della libertà quando non ci siano accordi con il Paese di destinazione che rendano questa ipotesi concretamente realizzabile”.

Come ricorda Cild (coalizione italiana per i diritti civili) «i Cpr esistono ormai da 25 anni, un periodo di tempo sufficiente per sapere che le persone o vengono riconosciute o rimpatriate nelle prime settimane, oppure non si riuscirà più a farlo. Già in passato i tempi di permanenza erano di 18 mesi e i rimpatri erano percentualmente come negli anni successivi in cui i tempi erano stati ridotti drasticamente».

Siamo pronti, quindi, all’ennesimo fallimento sulla pelle dei disperati.

Bravi.
Buon martedì.

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Valditara dimentica l’Anpi. E pure la Costituzione

Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara non ha ancora trovato un minuto per incontrare l’Anpi e rinnovare il protocollo che permette di organizzare nelle scuole (gratuitamente) lezioni su Costituzione e Resistenza. Il protocollo ha una scadenza triennale e la riconferma andrebbe fatta entro il mese di settembre.

Il ministro Valditara non ha ancora trovato un minuto per rinnovare il protocollo che permette all’Anpi di organizzare nelle scuole lezioni su Costituzione e Resistenza

Lo racconta il presidente dell’Associazione nazionale partigiani, Gianfranco Pagliarulo, che in una lettera-appello inviata al presidente della Repubblica e alla presidente del Consiglio, esprime “sincero rammarico” per la situazione di stallo. Il protocollo vuole “promuovere e sviluppare iniziative di collaborazione e di consultazione permanente al fine di realizzare attività programmatiche nelle scuole e per le scuole volte a divulgare i valori espressi nella Costituzione repubblicana e gli ideali di democrazia, libertà, solidarietà e pluralismo culturale”, ma le tre lettere con cui l’Anpi sollecitava un incontro non hanno ottenuto risposta.

Mentre per un anno i ministri ci hanno tenuto con il fiato sospeso col dibattito su Dante di destra o di sinistra, la nuova matrice culturale è chiara: eliminare ciò che viene considerato avverso o pericoloso per la loro propaganda. Non avendo idee e culture da proporre (quando lo fanno sono un fiasco, citofonare in Rai) si accontentano di distruggere l’esistente.

L’antiantifascismo è l’ultimo sotto-prodotto di questa cultura, come gli altri “anti” di questi mesi. Zero proposte, solo demolizione. Tanto col coraggio e l’ignoranza che hanno dimostrato finora riusciranno a indicare le macerie e a rivendercele come un Rinascimento.

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Il merito e la laurea del presidente di Confindustria

Da qualche settimana l’economista e professore universitario (e quindi laureato) Riccardo Puglisi si domanda e domanda se l’esperto di geopolitica Dario Fabbri sia laureato. La sua legittima domanda ha aperto un dibattito su X (ex Twitter) che verte soprattutto sulla presentazione di Fabbri come “dottore” in diverse occasioni. La platea del dibattito si divide tra chi sottolinea che Fabbri non ricopra ruoli pubblici e abbia già ampiamente dimostrato il suo valore con le sue analisi e chi invece ritiene che la trasparenza sul proprio percorso di studi sia responsabilità di un personaggio pubblico. 

Da qualche giorno il nodo della laurea è emerso anche per il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Bonomi non è laureato eppure viene presentato come “dottore” e non ha mai smentito la propria laurea. La sua pagina Wikipedia, che lo indicava come laureato in economia, è stata corretta in fretta e furia dopo l’uscita di primi articoli giornalistici sulla questione. Si sa che Bonomi, esaurito il mandato in Confindustria, vorrebbe sedersi sulla poltrona di presidente del cda della Luiss, l’università confindustriale. Peccato che serva una laurea. Il decreto legge numero 13 del 24 febbraio scorso, quello per l’attuazione del Pnrr, al comma 9 dell’articolo 26 introduce quale requisito per la carica di presidente di un’università il possesso di un titolo di studio non inferiore alla laurea. C’è di più: Bonomi (imprenditore che imprende con il 4,5 per cento di un’azienda che distribuisce apparecchi “elettromedicali”) è colui che tutti i giorni ci dà lezioni di “merito” e di “fatica per guadagnarsi un lavoro”. Qualcuno dice che siano questioni di lana caprina. Forse sì, siamo in un tempo in cui la credibilità è caprina. 

Buon lunedì. 

Nella foto: Carlo Bonomi (Wikipedia)

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Dal Terzo polo al terzopopulismo. L’inarrestabile metamorfosi di Renzi

Aveva promesso di affrancarsi dal populismo di destra e dal populismo di sinistra e così alla fine Matteo Renzi è riuscito nel capolavoro di inventarne un terzo per scendere in battaglia: il terzopopulismo.

Renzi è riuscito nel capolavoro di inventarne un nuovo populismo per scendere in battaglia: il terzopopulismo.

Il terzopopulismo è facilmente riscontrabile nell’isterica perseveranza con cui da quelle parti hanno continuato a chiamare “terzo polo” un’alleanza politica che in realtà era la quarta – certificata anche dai risultati elettorali – e che alla fine non era nemmeno un polo, visto che si è sciolto come neve al sole di fronte ai narcisismi. Il terzopopulismo lo riconosci quando Matteo Renzi, che da segretario del Pd detestava “i piccoli partiti personali” si è messo a costruire un suo “piccolo partito personale” e tutti i giorni si lamenta perché il Pd da cui se n’è andato non è il partito che avrebbe voluto lui.

Il terzopopulismo lo riconosci perché il padrone di Italia Viva sta passando gli ultimi mesi a fare scouting di personaggi politici (a volte piuttosto improbabili) sia a destra sia a sinistra (come tutti i populisti ha lo stomaco forte) ma ieri si è lamentato perché la sua ex ministra Elena Bonetti ha deciso di lasciare Italia Viva annunciando una collaborazione con l’odiatissimo Calenda.

L’ex ministra è stata subissata dal fango degli italioti vivi sui social (com’è abitudine) e Renzi ha recitato invece la parte del poliziotto buono spiegandoci che la “gratitudine non esiste in politica”. Lo sappiamo bene, caro terzopopulista, che il populismo grida sempre e comunque vendetta. Basta chiederlo a un tuo ex compagno di viaggio, uno qualsiasi.

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Perché nessuno in Italia parla di Khaled El Qaisi

Perché nessuno in Italia parla di Khaled El Qaisi, cittadino italiano arrestato lo scorso 31 agosto dalle autorità amministrative israeliane dei Territori Occupati? Khaled è a tutti gli effetti un cittadino italiano, oltre ad essere traduttore e impegnato nel Centro di Documentazione Palestinese, di cui è uno dei fondatori, e studente del corso di laurea triennale in Lingue e civiltà orientali dell’Università La Sapienza di Roma.

Non si sa perché sia stato arrestato, non si sa per quali ragioni venga trattenuto. A oggi Khaled El Qaisi è un cittadino italiano innocente, che ha trascorso con la famiglia parte delle sue vacanze presso i suoi partenti e amici in Cisgiordania, dov’è nato. La corte del Tribunale di Rishon Lezion, non lontano da Tel Aviv, si è limitata a confermare e prolungare l’arresto fino al 14 settembre, mentre le ragioni del medesimo restano ignote.

Khaleld non è solo. Israele detiene in flagrante violazione del diritto internazionale e del giusto processo 5000 palestinesi, di cui oltre 1200 senza accusa né processo. Amnesty Inyernational ripete che “serve una risposta forte a livello internazionale”.

Dov’è il Governo italiano sempre pronto a difendere “prima gli italiani”? Non vorremmo pensare che qualcuno sia meno italiano per il suono del cognome o per la pelle scura. Dove sono i presunti intellettuali pronti a immolarsi per difendere i compatrioti? Così sembra proprio il mondo al contrario, come scrive quel fine scrittore del generale Vannacci. No?

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