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È l’uomo il peggiore degli animali. Presa a fucilate l’orsa Amarena. L’autore del gesto ha detto di aver agito per paura ma il clima è da safari

L’orsa Amarena ha incontrato un lupo. Solo che questa volta il lupo è un bestiale essere umano che l’ha uccisa a fucilate la sera del 31 agosto, alla periferia di San Benedetto dei Marsi, fuori dal Parco e dall’Area Contigua. La notizia è stata postata dal Parco Nazionale sulla sua pagina Facebook, sottolineando come a sparare sia stato un residente della zona, subito identificato.

Risale a pochi giorni fa il video in cui l’orsa appariva con i suoi cuccioli nel centro del paese, passeggiando incurante delle persone intorno. Quell’immagine sembrava suggerire una serena convivenza tra uomini e orsi, smentendo le pretestuose polemiche innescate dalla Provincia autonoma di Trento che aveva deciso di bloccare l’abbattimento dell’orsa JJ4 poi bloccato dal Consiglio di Stato.

“La notizia dell’uccisione a colpi di fucile dell’orsa Amarena rappresenta un atto gravissimo nei confronti dell’intera Regione che lascia dolore e rabbia per un gesto incomprensibile”, ha detto il governatore dell’Abruzzo, Marco Marsilio. “In tutti questi anni le comunità fuori e dentro ai parchi hanno sempre dimostrato di saper convivere con gli orsi senza mai interferire con le loro abitudini. Mai un orso ha rappresentato in Abruzzo un qualunque pericolo per l’uomo, neanche quando si è trovato a frequentare i centri abitati”, ha sottolineando il presidente, condannando duramente l’”atto violento” nei confronti di mamma orsa.

Si sono venduti la pelle

L’uomo che ha sparato si è giustificato dicendo di averlo fatto per paura, senza intenzione di uccidere. La Procura ha già aperto un fascicolo nei suoi confronti per il reato 544bis del codice penale, ossia chiunque procuri per crudeltà o senza necessità la morte di animali. Il WWF ha già annunciato id volersi costituire parte civile.

Per parte loro, Forza Italia, Fratelli d’Italia, M5S, Pd e Alleanza Verdi Sinistra hanno condannato in coro l’accaduto. Per la dem Pina Picierno si tratta di “un gesto di una violenza inaudita e ingiustificabile, che arriva al culmine di un’estate in cui una certa parte di politica ha voluto esacerbare e terrorizzare i cittadini”.

Per il M5S il fatto “ci dice molto di quanto deleterie possano essere le campagne mediatiche e politiche portate avanti per l’uccisione degli orsi, come ad esempio quella di Fugatti in Trentino. Dobbiamo continuare – scrivono in una nota congiunta Senatori e Deputati del Movimento 5 Stelle in Commissione Agricoltura – a lavorare nel segno del rispetto degli animali e della convivenza con la fauna selvatica, cui spesso siamo noi ad arrecare problemi, ed evitare di creare un clima da far west e da grilletti facili”.

Di “responsabilità morale del governo” parla la deputata di Alleanza Verdi e Sinistra Eleonora Evi, co-portavoce di Europa Verde: “Ecco le conseguenze drammatiche di questo governo che ha dato il via alla caccia libera come fossimo nel far west, consentendo di uccidere animali selvatici anche in aree urbane e protette”, ha detto. Più duro Massimo Vetturi, responsabile dell’Area Animali Selvatici della LAV (Lega Anti Vivisezione) che a fanpage.it ha fatto riferimento alla responsabilità politica “di coloro che hanno creato un clima d’odio nella confronti della fauna selvatica in generale e degli orsi in particolare.

Il territorio del parco d’Abruzzo, Lazio e Molise è sempre stato portato come esempio della convivenza con gli orsi a differenza di quanto succede in Trentino e questo dimostra che il clima d’odio di cui parlavamo attecchisce ovunque”. L’orsa Amarena non aveva mai mostrato segni di aggressività né aveva mai arrecato problemi ai residenti della zona del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.

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Renzi attacca i dem però colpisce se stesso

Matteo Renzi insiste a non capire. Nella sua newsletter settimanale il padrone di Italia Viva torna a bastonare il Partito Democratico per la sua intenzione di appoggiare il Referendum sul Jobs Act promosso dalla Cgil: “È una legge che il Pd ha votato”, scrive Renzi nell’articolo linkato de Il Riformista scritto dal Renzi giornalista e direttore che aveva promesso di non diventare il bollettino dell’altro Renzi, il politico. “Una legge voluta da un ministro del Pd, presentata nei circoli del Pd, difesa dagli amministratori del Pd diventa oggi una legge contro cui si fa un referendum organizzato dal Pd. Non è fantastico?”, s’indigna il senatore fiorentino.

In realtà di “fantastico” al limite del magico c’è l’ostinazione di Renzi nel fingere di non capire o, peggio, nel credere che qui fuori gli elettori siano un branco di scemi che brancolano nel buio. Qualcuno dovrebbe spiegare, magari con un disegnino, al senatore di Rignano che nei partiti democratici non solo nel nome ma anche nel funzionamento esiste una pratica che gli potrà apparire barbara: l’elezione della segreteria. Accade quindi, qualche suo amico glielo insegni, che con il cambio di un segretario inevitabilmente cambi anche l’indirizzo politico.

Quindi sì, si cambia idea. Esattamente come è accaduto a lui circa un milione di volte nella sua carriera politica, con la differenza che nel caso dei dem si tratta di processo democratico e non narcisismo. Quindi, caro Matteo, il Pd non vota “contro sé stesso” ma vota “contro te stesso”. Anche se ti può sembrare incredibile, con il senso di realtà che ti appartiene.

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I punti stampa di Giorgia Meloni e la cronica allergia alle domande – Lettera43

Lo strano senso di Giorgia Meloni per la stampa ha avuto l’ennesima replica. Anche a Caivano, dove ha promesso di bonificare mostrando i soliti riferimenti culturali, la presidente del Consiglio ha messo in scena una conferenza stampa senza stampa. Lo chiamano “punto stampa”, nuova omeopatia del confronto con i giornalisti in cui il potente di turno (in questo caso Meloni) ci concede il privilegio di assistere a un suo comizio in modalità più formale. Così qualsiasi legittima curiosità di un cronista diventa per forza il giorno successivo in edicola un retroscena.

Una premier che parla solo all’estero, tra Vilnius e Biden

È una Giorgia Meloni a due tempi nel suo rapporto con i giornalisti, fuori e dentro i confini nazionali. All’estero la presidente del Consiglio ci ha concesso di vederla guardare negli occhi i giornalisti dopo il vertice Nato di Vilnius e dopo avere incontrato Joe Biden. Potrebbe sorgere il dubbio che questa sua generosità in terra straniera dipenda dall’ingessatura dei giornalisti con una leader straniera e dai protocolli che difficilmente potrebbero chiederle dei deliri del compagno Andrea Giambruno o dei molteplici De Angelis che infestano i ruoli pubblici. Se ci pensate sarebbe una bella domanda da porle. Nell’impossibilità di farlo rimaniamo semplicemente dei malpensanti o peggio delle malelingue.

I punti stampa di Giorgia Meloni e la cronica allergia alle domande
Giorgia Meloni e Joe Biden (Imagoeconomica).

Il disastro comunicativo di Cutro e il karaoke con Salvini

In Italia la presidente del Consiglio ha tenuto due conferenze stampa in coppia con il suo collega tedesco, il cancelliere Olaf Scholz, l’8 giugno e il 26 luglio. Nient’altro per tutta l’estate, a meno che non si voglia considerare un “confronto con la stampa” l’intervista con Bruno Vespa il 9 giugno. Un’allergia al cuore del giornalismo (ossia le domande) che risale all’ultima conferenza della presidente del Consiglio (una conferenza stampa, mica un punto stampa) che risale addirittura al 9 marzo, quando i ministri andarono in trasferta a Cutro con i corpi ancora caldi delle vittime del naufragio. Non fu – è vero – un grande successo. Meloni si lasciò scappare evidenti segni di nervosismo, ci mise il solito pizzico di vittimismo («State dicendo che il governo è colpevole del disastro?», chiese ai giornalisti. La risposta di molti fu «sì») e giustificò il mancato omaggio alle vittime e ai parenti raccontando di una giornata densa di impegni. Il giorno dopo tutta Italia la vide cantare spensierata al karaoke per la festa di compleanno “a sorpresa” del ministro Matteo Salvini.

I punti stampa di Giorgia Meloni e la cronica allergia alle domande
La conferenza stampa del governo a Cutro (Getty).

Non andò benissimo, in effetti, no e forse sarà per questo che da quel giorno Meloni ha preferito lasciare il commento delle sedute del Consiglio dei ministri a qualche suo collega di governo. Tanto, pensandoci bene, c’è sempre il modo di trovare un quotidiano disposto a impaginare una sua intervista in cui la presidente del Consiglio può dire di «avere deciso da sola», come accaduto pochi giorni fa con Il Sole 24 Ore.

Mandare avanti Mantovani e Donzelli per non rispondere in prima persona

Il 28 agosto era stato il sottosegretario all presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano a dover affrontare i giornalisti per provare a convincerli che l’aumento del 103 per cento degli sbarchi sulle coste italiane possa essere visto come un importante risultato raggiunto dal governo. Allo stesso modo Meloni non ha ritenuto di dover dare spiegazioni ai giornalisti dopo l’alluvione in Emilia-Romagna e dopo le proteste dei sindacati il Primo maggio. La strategia di Giorgia Meloni è quella di mandare avanti i suoi colleghi per le comunicazione istituzionale oppure imboccare i suoi compagni di partito per dire quello che sarebbe sconveniente dire in abiti di governo (Giovanni Donzelli in primis). Così l’immagine della presidente del Consiglio è una sensazione rarefatta che arriva dall’estero oppure è quella plasticamente confezionata che appare nei suoi saltuari videomessaggi scritti, prodotti e confezionati a Palazzo Chigi e spediti già cotti alle redazioni dei giornali per sbobinarli in un articolo. E pensare che Giorgia Meloni tra le altre cose è anche  giornalista.

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Il Parlamento Ue guarda a destra. Ecco le proiezioni sui seggi: a FdI 27 eletti, 9 alla Lega, 6 a FI. Poi 19 Pd e 15 M5S. Senza quorum la sinistra, Calenda e tutti gli altri

Con l’avvicinarsi delle elezioni per il Parlamento europeo rimane in campo un serio problema per alcuni partiti italiani: entrarci. Ieri Europe Elects, il più importante studio sui sondaggi esistenti in vista delle urne per Bruxelles, ha pubblicato la proiezione dei seggi sulla base delle attuali intenzioni di voto, così da cominciare a immaginare il Parlamento che verrà.

Il gruppo più grande, come quasi sempre dalle ultime elezioni, è il Partito popolare europeo (PPE) di centro-destra con 160 seggi, un plus di tre seggi rispetto al mese precedente. Sono seguiti dal loro concorrente più vicino, l’Alleanza progressista di centro-sinistra tra socialisti e democratici (S&D), che ha 146 seggi, aggiungendo pure in questo caso tre seggi da luglio. Il terzo gruppo centrista, il liberale Renew Europe (RE) rispetto ai mesi precedenti perde un seggio, assestandosi a 89 eurodeputati. Questi tre partiti, che formano una coalizione informale al Parlamento Ue hanno ora 395 seggi su 705, una comoda maggioranza assoluta.

I conservatori e i riformatori europei (ECR) dovrebbero avere 82 seggi, gli stessi del mese precedente, e Identity and Democracy (ID) guadagna un seggio, fino a 73: il loro quinto guadagno consecutivo e un aumento di dieci seggi da marzo. A sinistra, si prevede che i Verdi/Alleanza libera europea (G/EFA) porteranno a casa 52 seggi, tre in più rispetto al mese scorso, mentre il gruppo di sinistra al Parlamento europeo – GUE/NGL (SINISTRA) subisce la sua terza grande perdita consecutiva e ora si prevede che avrà appena 38 seggi, con un calo di ben sette posti.

In Italia a oggi sarebbero 27 i seggi conquistati da Fratelli d’Italia nel gruppo dei conservatori (ECR). Solo la Polonia, oltre al nostro Paese, è lo Stato in cui il gruppo europeo dei conservatori risulta il più rappresentato a livello nazionale. Diciannove sono i posti nel gruppo S&D, che a oggi guadagnerebbe il Partito Democratico, seguito dai 15 eurodeputati del Movimento Cinque Stelle. La Lega di Matteo Salvini al momento si fermerebbe a 9 europarlamentari (per il gruppo ID) mentre sarebbero solo 6 i seggi che Forza Italia porterebbe in dote al PPE.

Niente centro

Secondo queste proiezioni, per la terza volta consecutiva nessun partito affiliato al gruppo liberale entrerebbe in Parlamento. L’ultimo partito iscritto ad ALDE/RE a farcela tramite elezioni (e non adesioni successive) è stato Italia dei Valori, nel 2009. La forza elettorale minima del cosiddetto Terzo polo dei liberali italiani, ora frazionata nel dissidio tra i due capipopolo Renzi e Calenda, scompare in Europa. L’unica speranza per Calenda è di riuscire a ottenere un “passaggio” dal Pd, come già avvenne nel 2019.

Ma è difficile che con la nuova segretaria Schlein ricaschi nell’errore di Enrico Letta. Secondo le proiezioni di Europe Elects, per la quarta volta consecutiva non toccherebbe palla neppure alcun partito affiliato al gruppo verde. L’ultimo partito iscritto ai Verdi ad entrare in Parlamento tramite elezioni è stata la Federazione dei Verdi nel 2004, guidati da Pecoraro Scanio. Anche in questo caso solo il Pd potrebbe farsi carico di qualcuno dei Verdi (che alle politiche si sono presentati in coalizioni proprio con i dem).

Niente da fare anche a sinistra (escludendo il Pd): secondo le proiezioni Europe Elects, per la seconda volta consecutiva nessun partito di sinistra entrerebbe nell’Europarlamento. L’ultimo a riuscirci fu L’Altra Europa con Tsipras, nel 2014. In ogni caso, il nuovo Parlamento europeo si prospetta sempre di più a destra. Ora resta da vedere se – com’è nei piani della Meloni – sarà abbastanza per costruire una nuova maggioranza tra popolari e sovranisti, escludendo per la prima volta i socialisti.

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Ustica, la storia la sapevano in molti. Ora serve la pistola fumante

Antonio Tajani, leader di Forza Italia, vorrebbe chiudere la questione perché si trarrebbero di “parole di un privato cittadino”, come se la verità assumesse credibilità in base alla provenienza. Le parole di Giuliano Amato che in un’intervista a Repubblica sostiene che il DC-9 precipitato il 27 giugno 1980 durante il volo di linea Bologna-Palermo fu distrutto da un missile francese che avrebbe dovuto colpire il leader libico Gheddaffi confermano la testimonianza resa nel 2007 dall’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e validano la tesi di un altro “privato cittadino” che ci aveva visto giusto: il giornalista Andrea Purgatori.

Raccontano comunque un pezzo di storia già nota. La politica e la magistratura non sono riuscite a rompere il muro di gomma dell’apparato militare italiano che dopo i depistaggio del cedimento strutturale è stato tutt’altro che collaborativo con la magistratura italiana, mettendosi al servizio più delle difese degli imputati che dell’accertamento della verità.

La Francia da canto suo ha sostenuto per anni che che l’aeroporto di Solenzara in Corsica quel 27 giugno sarebbe stato “chiuso”. Una falsità porta aventi per anni prima di essere smascherata nelle indagini successive. L’unica bomba sull’aereo Itavia era il coagularsi di interessi militari che ha affondato 81 passeggeri e milioni di cittadini.

Forse sarebbe il momento di tenere in mente la regola aurea per arrivare alla verità: non cadere nel gioco di giudicare il testimone ma approfondire la testimonianza. Almeno 43 anni dopo. La storia la sapevano in molti, ora serve la pistola fumante.

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Fate finta di essere felici

Fate finta di essere felici. Era questo il succo del messaggio girato tra i fedelissimi di Fratelli d’Italia disponibili a diventare claque a Caivano in occasione della discesa della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Qualcuno si è scandalizzato, molti hanno finto di essere sorpresi. Eppure che la politica oggi sia soprattutto narrazione lo sappiamo da anni, insistono a denunciarlo sparuti intellettuali e giornalisti.

Con la narrazione i disperati sono diventati usurpatori: i poveri usurpatori di dignità, i migranti usurpatori di luoghi non loro, i giovani usurpatori del futuro a carico degli anziani, gli anziani usurpatori della sanità pubblica perché pretendono cure, i lavoratori usurpatori del reddito dei capi, gli ambientalisti usurpatori della serenità del sistema produttivo. Usurpatori dappertutto bastonati da parole mendaci e quindi violente, com’è ogni falsità spacciata per vera.

Solo che le parole, si sa, generano realtà e ci costringono a dibattere di questioni che sostanzialmente non dovrebbero esistere semplicemente perché non esistono. Così ci si può permettere tutto, su tutto. Matteo Renzi può accusare gli oppositori del jobs act di non avere «mai letto la legge» fingendo che quel provvedimento non sia stato letto e smontato dalla Corte Costituzionale. Giorgia Meloni può promettere e accusare l’opposizione di non permetterle di mantenere. Chi governa si può permettere di frignare denunciando l’oppressione del “pensiero dominante” di chi sta all’opposizione. 

Chi finge meglio di essere felice vince. 

Buon lunedì.

Nella foto: il presidente del Consiglio a Caivano, 31 agosto 2023 (governo.it)

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Aumentano i giovani con manie suicide

Come va il Paese? Nel primo semestre del 2023 in Italia le richieste di aiuto per gestire pensieri suicidi sono aumentate del 37%. Per la precisione: 3.700 richieste da gennaio a giugno, per una media di oltre 20 al giorno. E questi sono solo i numeri dell’organizzazione di volontariato Telefono Amico Italia in occasione della Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio del 10 settembre.

Aumentano i giovani con manie suicide. Gli hanno tolto il diritto alla speranza. Le richieste di aiuto sono cresciute del 37%

Le segnalazioni sono arrivate prevalentemente da giovani tra i 19 e i 35 anni e da adulti tra i 46 e i 55, ma negli ultimi anni è stato registrato un aumento di contatti anche da parte di under 19 via WhatsApp ed email. Nel complesso, considerando tutti e tre gli strumenti di ascolto, il 29% delle richieste d’aiuto relative al suicidio arrivano da under 26. Giovanissimi, insomma, e già così disperati.

“Spesso l’individuo cade in ginocchio quando più fattori si mettono insieme, esacerbati dall’esposizione ad un evento avverso; ciò potrebbe rappresentare un terreno fertile per l’emergere di una crisi suicidaria; in questi casi l’individuo sperimenta ciò che chiamiamo dolore mentale, fatto di emozioni negative e di un dialogo interiore che pone sempre in risalto lo stato di sofferenza”, spiega Maurizio Pompili, professore ordinario di psichiatria presso Sapienza Università di Roma e direttore della Unità operativa complessa di psichiatria presso l’azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea di Roma.

Come va il Paese sotto la coltre della propaganda e della retorica Va così. Ed è un problema politico, perché i diritto alla speranza è politica.

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Sulla sanità, tutte cazzate

Tutte cazzate. Mi si perdoni l’utilizzo di una parola greve e maleducata. Non ho trovato, pensandoci e ripensandoci, un sinonimo. I numeri dell’ultimo rapporto Gimbe sul finanziamento della sanità pubblica certificano che i buoni propositi in tempi di pandemia, quella pioggia di promesse sulla “sanità che sarebbe diventata una priorità” sono una menzogna che abbraccia l’intero arco parlamentare.

La spesa sanitaria pubblica del nostro Paese nel 2022 si attesta al 6,8% del Pil, sotto di 0,3 punti percentuali sia rispetto alla media Ocse del 7,1% che alla media europea del 7,1%. Sono 13 i Paesi dell’Europa che in percentuale del Pil investono più dell’Italia, con un gap che va dai +4,1 punti percentuali della Germania (10,9% del Pil) ai +0,3 dell’Islanda (7,1% del Pil). Impietoso il confronto con gli altri paesi del G7 sul trend della spesa pubblica 2008-2022 (figura 4), da cui emergono alcuni dati di particolare rilievo. Innanzitutto, negli altri paesi del G7 (eccetto il Regno Unito) la crisi finanziaria del 2008 non ha minimamente scalfito la spesa pubblica pro-capite per la sanità: infatti dopo il 2008 il trend di crescita si è mantenuto o ha addirittura subìto un’impennata. In Italia, invece, il trend si è sostanzialmente appiattito dal 2008, lasciando il nostro Paese sempre in ultima posizione. In secondo luogo, spiega il presidente della Fondazione Gimbe Nino Cartabellotta «l’Italia tra i Paesi del G7 è stata sempre ultima per spesa pubblica pro-capite: ma se nel 2008 le differenze con gli altri Paesi erano modeste, con il costante e progressivo definanziamento pubblico degli ultimi 15 anni sono ormai divenute incolmabili».

La prossima manovra non porterà nessun cambiamento di rotta. Non ne siamo usciti migliori dalla pandemia. Siamo quelli di prima, i sopravvissuti, con meno forze per indignarci.

Buon martedì.

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Ora pure il governo Meloni tifa per l’Arabia Saudita

Ora l’Arabia Saudita piace (quasi) a tutti. I soldi sauditi ieri sono stati al centro delle discussioni con la politica e le imprese, con il ministro Adolfo Urso entusiasta del forum Italo-Saudita sugli investimenti, a Milano.

Urso ha incontrato il ministro degli investimenti dell’Arabia Saudita. Al centro dei colloqui possibili interventi del Fondo Sovrano di Riyad

“Con il ministro degli investimenti dell’Arabia Saudita mi sono confrontato sulla possibilità che il loro Fondo Sovrano, o comunque fondi di investimento sauditi, possano partecipare agli investimenti, in partnership che saranno realizzate attraverso il fondo strategico per le filiere del made in Italy. C’è una disponibilità ad un confronto già immediato per quello che riguarda la loro partecipazione, anche attraverso la partnership di investimenti con il fondo strategico per il made in Italy, che è in corso di istituzione perché dobbiamo aspettare il voto del parlamento”. Lo ha detto il ministro delle Imprese e del Made in Italy. “Nelle scorse settimane – ha aggiunto Urso – ho parlato con altri Paesi tradizionalmente investitori attraverso fondi sovrani o altra tipologia di fondi, in Italia e in Europa e credo che ci sia molta attenzione alle possibilità esistenti proprio sulle filiere strategiche del made in Italy”.

Venti gli accordi firmati con i sauditi solo ieri

Venti gli accordi firmati solo nella giornata di ieri. Gongola ovviamente il leader di Italia Viva, Matteo Renzi: “Pare che oggi ci sia a Milano un importante summit. Mi fa piacere leggere le parole del ministro Urso sulla partnership strategica con Arabia Saudita e ricordarmi quello che diceva tre anni fa”, ha detto Renzi. I diritti umani? Non sono un problema. Proprio ieri negli USA Areej al-Sadhan, la sorella di un cooperante scomparso e poi condannato a 20 anni di carcere, ha denunciato X, l’ex Twitter, di aver aiutato l’Arabia saudita a commettere gravi abusi dei diritti umani contro i suoi utenti, rendendo disponibili, per esempio, i loro dati su richiesta delle autorità molto più frequentemente di quanto non accade negli Usa, in Gran Bretagna e in Canada.

Intanto Italia Viva prepara le corsa alle Europee grazie alle destre che vogliono limare al 3% il quorum

Nel giorno dell’Arabia Saudita accolta festante in suolo italiano, Renzi ha pensato di lanciare la sua candidatura alle prossime elezioni europee. “Italia Viva non lascia ma raddoppia con Il Centro“, ha annunciato il leader del partito dato oggi sotto il 2% in conferenza stampa. Per questo l’ex premier punta sulla sponda della maggioranza, che a sorpresa ha aperto sulla riduzione del quorum per le Europee al 3%. La candidatura, comunque, è “contro” qualcuno, com’è nella natura del senatore toscano. Nella circoscrizione di Milano, in particolare, “perché voglio vedere in faccia quelli della sinistra pronti al referendum contro il Jobs Act”, ha detto Renzi, incastrato nelle sue ripicche personali. Sarà una bella occasione per pesarsi, se accadrà davvero.

Tutto ruota (solo) intorno al petrolio. L’importante è lavare l’immagine con l’aiuto di politici (Renzi in primis) e la nuova leva del calcio. Il campionato saudita si spreme per assumere calciatori che prima di tutto, prima ancora di giocare a calcio, devono promuovere l’immagine dei sauditi nel mondo. La cosiddetta “primavera araba” decantata da Renzi e Cristiano Ronaldo non è nient’altro che “sportwashing” legato al petrolio.

Ciò che conta è raccontare i sauditi come Paese democratico che non sono, a suono di petroldollari con l’aiuto di sportivi influenti (l’allenatore Mancini in primis). Sostenere il fossile costa – i sauditi lo sanno bene. Ma ciò che conta è avere i soldi per farlo. E gli appoggi politici. Così dopo Renzi hanno trovato anche il governo Meloni col ministro Urso. Perché ciò che conta è vendersi come “Made in Italy”, sponsorizzato da una delle peggiori autarchie del mondo.

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Un Parlamento muto per la destra è regolare

L’ultimo sogno dalle parti del governo è avere un Parlamento che non parla, che non perda troppo tempo per colpa delle opposizioni che maleducatamente si oppongono e che possa velocemente accontentare i desiderata di Giorgia Meloni e dei suoi ministri.

L’ultimo sogno dalle parti del governo è avere un Parlamento che non parla, che non perda troppo tempo per colpa delle opposizioni

È passata piuttosto inosservata l’intervista rilasciata al quotidiano Il Tempo del ministro per i Rapporti con il Parlamento (eh, sì) Luca Ciriani (nella foto) che prova a spiegare, non riuscendoci, l’utilizzo della fiducia per ben 27 volte del suo governo, con una media di tre al mese. Senza tenere conto dei decreti, più di trenta, usati per legiferare.

Ciriani ci spiega che “Il ricorso alla decretazione d’urgenza è dettato dalla necessità, del Paese e della politica, di avere e dare risposte celeri per rispondere ad emergenze ed esigenze impellenti. Per quanto riguarda la fiducia, il più delle volte è una questione legata ai tempi” per non fare decadere i decreti. Il ministro dice anche “cerchiamo di garantire al massimo il dibattito e l’intervento parlamentare”.

Avete capito bene: cercano di garantire, mica garantiscono. A questo si aggiunge il monocameralismo di fatto, ovvero la prassi di discutere le proposte di legge in una sola camera con l’altra che si limita a ratificare. Una pratica che, seppur ampiamente tollerata, è in contrasto con la Costituzione.

Si badi bene: per Meloni nel 2006 porre la fiducia era una “scelta oligarchica”. Un “errore drammatico” nel 2015. Una “vergogna” nel 2017. “Una mortificazione del Parlamento, una deriva democratica” nel 2021. “La democrazia è un’altra cosa”, diceva sempre nel 2021.

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