Vai al contenuto

Altro che Piano Mattei, tra Libia e Tunisia parte l’asta sui migranti

Come procede il “piano Mattei” sventolato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni che dovrebbe normalizzare le coste africane, verificare il rispetto dei diritti e aiutare le bonomie locali? Per tastare il polso basta ripercorrere gli ultimi eventi in Libia e in Tunisia. Proprio la Tunisia è lo Stato su cui il governo punta con forza per farne una “nuova Libia” in tema di contenimento delle partenze e parcheggio illegale degli esseri umani. Venerdì scorso la cosiddetta Guardia costiera libica ha sparato colpi di arma da fuoco durante una operazione di soccorso della ong SOS Mediterranée in acque internazionali, al largo della costa della Libia.

La giornalista Eleonora Vasques di Euractiv che si trovava con i soccorritori racconta che la nave Ocean Viking ha cercato di stabilire una comunicazione con i libici dopo avere ottenuto il via libera dall’Italia ma il dialogo è stato molto difficoltoso poiché i libici non parlavano in inglese ma solo in arabo. Secondo il diritto marittimo essere in grado di parlare in inglese è obbligatorio per qualsiasi guardia costiera. Recuperati i naufraghi – racconta la giornalista – i libici “hanno iniziato una serie di manovre pericolose, prima tentando di bloccare il percorso dei due motoscafi a una velocità estremamente elevata prima di aprire il fuoco”.

Migranti abbandonati nel deserto

“Le operazioni di ricerca e salvataggio e uno stretto coordinamento in queste questioni sono assolutamente fondamentali, l’Ue chiederà alle competenti autorità italiane e libiche di chiarire la situazione”, ha detto una portavoce della Commissione europea durante il briefing quotidiano con la stampa. “Per noi è molto chiaro che tutte le operazioni di ricerca e salvataggio da parte di qualsiasi attore devono essere condotte nel pieno rispetto dell’assistenza internazionale”, ha aggiunto.

E la Tunisia Le organizzazioni umanitarie raccontano che migliaia di migranti siano stati abbandonati nel deserto che confina con Libia e Algeria, senza acqua né cibo. È di questi giorni il video di una donna allontanata da Sfax che ha dovuto partorire nel deserto. Si tratta di espulsi da Sfax a seguito dell’intensificarsi della tensione tra stranieri e residenti. Molti denunciano di essere stati privati di documenti e denaro e di non avere nemmeno i soldi per comprare l’acqua, come confermano i tunisini solidali intervistati dall’emittente francese France24 mentre distribuivano acqua e cibo.

Il presidente tunisino Kais Saied parla di un complotto per “africanizzare il Paese”, sulla scia della teoria della “sostituzione etnica” tanto cara anche a alcuni membri del nostro governo. Si tratta di una vera e propria “caccia al migrante”: gli stranieri individuati con vere e proprie retate dalla polizia tunisina sono stati portati al valico di frontiera di Ras Jedir, al confine con la Libia con la falsa promessa che sarebbero invece stati portati a Tunisi.

Il lavoro sporco appaltato alla Tunisia come alla Libia

“Il governo tunisino dovrebbe interrompere le espulsioni collettive e portare aiuti umanitari ai migranti africani e ai richiedenti asilo già espulsi in un’area pericolosa al confine tra Tunisia e Libia. Sono senza cibo e senza assistenza medica”, ha affermato Lauren Seibert, ricercatrice di Human Rights Watch. “Non solo è inconcepibile abusare delle persone e abbandonarle nel deserto, ma le espulsioni collettive violano il diritto internazionale”. Ieri la Libia a chiesto alla Tunisia di “rimuovere i rifugiati che si sono infiltrati al valico di frontiera libico”.

Intanto, la Mezzaluna Rossa tunisina ha effettuato ieri una prima visita ai migranti garantendo acqua, cibo e le prime cure. Come procede il “piano Mattei”? Come si poteva immaginare. L’Italia (e parte delll’Ue) vorrebbero appaltare alla Tunisia una parte del lavoro sporco di cui si è occupata in questi anni la Libia. La Tunisia sta tenendo lo stesso atteggiamento dei libici: utilizzare i migranti come arma non convenzionale di ricatto contro l’Ue. Così al posto di sanare l’illegalità libica si è pensato bene di raddoppiarla e ora i ricattatori sono due.

L’articolo Altro che Piano Mattei, tra Libia e Tunisia parte l’asta sui migranti sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Cooperazione in Kosovo, l’Italia scherza con il fuoco

Arriva oggi in Senato l’esame del ddl di ratifica dell’accordo Italia-Kosovo su cooperazione di polizia. Lo scorso 6 aprile Il Consiglio dei ministri, su proposta del ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale Antonio Tajani, ha approvato un disegno di legge di ratifica ed esecuzione dell’Accordo tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica del Kosovo sulla cooperazione di polizia, fatto a Roma il 12 novembre 2020.

L’Accordo regola la cooperazione di polizia sia sotto il profilo strategico che operativo, al fine di rafforzare la prevenzione e il contrasto della criminalità nelle sue varie forme e del terrorismo. I principali settori entro i quali la cooperazione si svilupperà sono il crimine organizzato transnazionale; i reati contro la vita, l’incolumità personale e l’integrità fisica, la produzione e il traffico illecito di stupefacenti; la tratta di persone e il traffico illecito di migranti; il traffico illecito di armi, munizioni, esplosivi e materiale tossico; la criminalità informatica e la pedopornografia on line; i reati economici e finanziari, incluso il riciclaggio il terrorismo.

Il precedente e le tensioni in Kosovo

Risale invece allo scorso 29 maggio il ferimento di 25 militari della Kfor, tra cui 14 italiani che erano intervenuti a Zvecan, nel nord del Kosovo, per disperdere i dimostranti serbi che manifestavano davanti alla sede del Municipio locale per protestare contro l’insediamento del nuovo sindaco di etnia albanese. I militari hanno fatto uso di granate stordenti, mentre i dimostranti hanno lanciato sassi, bottiglie e altri oggetti contro le truppe Nato.

La miccia che ha acceso le proteste era stata l‘insediamento del nuovo sindaco di etnia albanese. Le tensioni nel nord del Kosovo sono aumentate dal 23 aprile scorso, giorno delle elezioni locali in quattro comuni a maggioranza serba. La popolazione di Zvecan, Zubin, Potok e Leposavic ha boicottato il voto e così sono stati eletti 4 sindaci di etnia albanese con un astensionismo del 98%. Le intense attività diplomatiche tra Belgrado e Pristina per la normalizzazione dei rapporti e sciogliere le tensioni proseguono.

La proposta franco-tedesca prevede che la Serbia, pur senza un riconoscimento ufficiale della sua ormai ex provincia, smetta di ostacolare l’ingresso del Kosovo nelle Nazioni Unite e chiede la creazione della Associazione dei comuni a maggioranza serba in Kosovo, prevista dagli accordi di Bruxelles del 2013 che non si sono mai realizzati. In cambio la Serbia potrebbe ottenere il lasciapassare per entrare nell’Ue.

Le resistenze al piano sono però arrivate dal primo ministro del Kosovo Albin Kurti il cui partito (Vetevendosje) sioppone alla costituzione di un’associazione di comuni serbi del Kosovo per il timore di una “Republika Srpska” in Kosovo simile a quella bosniaca. Una ricerca condotta dal Kosovar Center for Security Studies dimostra che il 46% degli intervistati non si sentirebbe sicuro viaggiando in Serbia e l’ipotesi della formazione dell’Associazione di Comuni a maggioranza serba e uno status speciale per i monasteri, è sostenuta solo dal 9% dei cittadini del Kosovo.

Il rallentamento del processo di normalizzazione sostenuto da Ue e Usa sta avvantaggiando la Russia che potrebbe (e vorrebbe) sfruttare l’instabilità per aprire una nuova crisi nell’area sue est dell’Europa e estendere quindi la sua influenza. Vale la pena ricordare che nei giorni delle proteste a Zvecan il ministro degli Esteri russo Segej Lavrov parlò apertamente di “una situazione potenzialmente esplosiva nel cuore dell’Europa”.

I pericoli e l’interesse dell’Italia

Lo Stato balcanico, proclamatosi indipendente il 17 febbraio 2008, in precedenza regione autonoma della Serbia, è riconosciuto a livello internazionale da da 101 dei 193 membri dell’Onu (il 52,3% del totale), tra cui i confinanti Montenegro, Macedonia del Nord e Albania; altri 13 Stati hanno ritirato il riconoscimento inizialmente dato. Tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, il Kosovo è riconosciuto da Stati Uniti d’America, Francia e Regno Unito, mentre la Russia e la Cina continuano a considerarlo una provincia autonoma della Serbia.

Ventidue dei ventisette paesi dell’Unione europea hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo ma si oppongono Spagna, Cipro, Romania, Slovacchia e Grecia. Cosa spinga l’Italia a velocizzare l’iter di un suo maggiore impegno in Kosovo è facilmente immaginabile: in base all’Elaborazioni Ambasciata d’Italia su dati Agenzia ICE di fonte ISTAT, l’export italiano nel 2022 verso il Kosovo ha raggiunto la cifra di 158,38 milioni, di cui il 45,79 milioni è rappresentato da prodotti alimentari. Primo fra tutti, si segnala il forte interesse di Ferrovie dello Stato (FS) ad estendere il loro raggio di operatività all’interno della Regione a seguito dell’acquisizione di Hellenic Train. Per questo il governo continua a ripetere che “preservare la stabilità nei Balcani e ad aiutare gli attori locali a risolvere le loro divergenze è obiettivo rilevante per il nostro paese”. Quanto convenga mettere i piedi in una potenziale polveriera ce lo dovrà spiegare il ministro Tajani.

L’articolo Cooperazione in Kosovo, l’Italia scherza con il fuoco sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Undicesimo comandamento: non ostentare

Tutto come da copione. Il ministro (questa volta dello Sport) Andrea Abodi definisce il coming out di Jakub Jankto un’ostentazione. Jakub Jankto, passato per Sampdoria e Udinese, il prossimo anno giocherà nelle fila del Cagliari di Claudio Ranieri. Di lui si è parlato molto nelle scorse settimane perché è stato il primo calciatore professionista ad avere dichiarato la propria omosessualità in uno dei pochi ambienti in cui l’omosessualità è ancora considerata un tabù.

“La società probabilmente, in generale, ancora qualche passo in avanti può farlo – ha detto ieri mattina Abodi a Radio 24 – Per quanto mi riguarda, è prima di tutto una persona e secondo è un atleta”. E ha aggiunto: “Non faccio differenze di caratteristiche che riguardano la sfera delle scelte personali”. Una cosa è certa, e lo è al di là di qualsivoglia teoria: essere gay, lesbiche o transgender non è una scelta, ma una condizione esistenziale come tutte le altre.

Abodi aggiunge: “Se devo essere altrettanto sincero non amo, in generale, le ostentazioni ma le scelte individuali vanno rispettate per come vengono prese e per quelle che sono. Io mi fermo qui”. Tutto da copione: si alza una ridda di voci che fa notare al ministro (questa volta dello Sport) le inesattezze dette e lui fa marcia indietro. Il ministro prova a rimediare con un tweet che però non migliora granché la situazione: “Ad esser corretti ho risposto dicendo: per me esistono le persone. Ho parlato di rispetto per le scelte e, aggiungo con convinzione e per correttezza, per la natura umana. Rispetto è un valore non equivocabile, da garantire. Poi, posso non condividere alcune espressioni del Pride?”

Nessuna scusa, il solito sottinteso di essere stato frainteso. Avanti così.

Buon martedì.

Nella foto: il ministro dello Sport Andrea Abodi (governo.it), Roma, 15 giugno 2023

L’articolo proviene da Left.it qui

Più vergognoso di tutto è il silenzio di Giorgia Meloni

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva cominciato il suo mandato parlando di tutto. Ha trovato il tempo per dipingere i rave party come uno dei principali “mali italiani”. Ha trovato il tempo per discutere di qualche decina di euro in più o in meno per legittimare l’uso del Pos. Ha trovato il tempo per scagliarsi contro Netflix per essersi permesso di avere confezionato un documentario su San Patrignano mentre, a suo dire, esistono “serie che ti raccontano come un eroe lo spacciatore”.

Il vergognoso silenzio di Giorgia Meloni

In un’intervista a Grazia ci ha spiegato che “l’ideologia gender (che non esiste, ndr) andrà a discapito delle donne”. Durante un comizio elettorale a Ancona ha trovato il tempo di attaccare un sito di fact checking, Pagella politica. Giorgia Meloni parla di tutto ma da qualche giorno non parla più. Non è più la “presidente femminista” (anzi, “il” presidente femminista) che trova un secondo per censurare il suo sottosegretario Vittorio Sgarbi e il suo presidente del Senato Ignazio La Russa.

Niente, nessuna parola. Non è più la “donna forte senza paura” che ha il coraggio di correggere la sua ministra Santanchè e il vice ministro Delmastro. Non trova nemmeno il coraggio di sfidare la magistratura a viso aperto, affidandosi a presunte “fonti” e al suo sicario, il ministro Nordio.

Più vergognoso dei fatti di questi giorni è il silenzio di Giorgia Meloni. La tattica dello struzzo mentre esce la vera natura dei componenti di questo governo sarà inutile ma soprattutto è un tradimento agli elettori: la “testa alta” è china. Anche questo è un fatto.

L’articolo Più vergognoso di tutto è il silenzio di Giorgia Meloni sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

“Falcone, Borsellino e le teste di minchia”. La mia intervista a Il Cittadino

Il titolo varia in base al “liberismo” di luoghi o contesti: “Falcone, Borsellino e le teste di minchia” o “Il ridicolo onore”. La sostanza, però, non cambia. In entrambi i casi si tratta dello stesso spettacolo, una giullarata che ridicolizza e smonta codici, riti e miti mafiosi. Facendo nomi e cognomi. Come è sempre stato nello stile di Giulio Cavalli, scrittore, giornalista e attore lodigiano che ha fatto della lotta a cosa nostra uno dei cardini della sua produzione. Per anni Cavalli ha vissuto sotto scorta, ma non ha mai smesso di scrivere e interrogarsi su un fenomeno quasi scomparso dai radar del dibattito pubblico e della politica, quando invece «i mafiosi sono sempre gli stessi: hanno nomi e cognomi (che non vogliono che vengano pronunciati e invece li pronunciamo), sono goffi e imbarazzanti nelle loro storie e nelle loro intercettazioni (che noi leggiamo sul palco, cosa c’è di meglio?) e abitano tranquilli facendo finta di essere buoni cittadini. Recuperando i canoni dei giullari del ‘500 si percorre la storia delle mafie smontando il presunto onore di presunti boss che si sgretolano di fronte alla risata». 

Dopo una cinquantina di date in tutta Italia, sabato sera (ore 21.30) Cavalli porterà il suo spettacolo nel Lodigiano: l’appuntamento, organizzato dall’associazione Giovani Basso Lodigiano, è in programma nella cornice del castello Douglas Scotti di Fombio. Le prenotazioni dei biglietti (10 euro) sono già aperte: online attraverso il sito www.eventbrite.com oppure via telefono contattando Emanuele Frijio (presidente dell’associazione organizzatrice) al numero 3278392632. 

«Sul tema della consapevolezza mafiosa sembra di essere tornati indietro di trent’anni – racconta Cavalli -. Il candidato sindaco di Palermo, nel trentennale della morte di Falcone e Borsellino, è stato appoggiato da Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, gli stessi personaggi dei quali i magistrati parlavano negli ultimi anni della loro vita». Cavalli è tornato sul paco dopo un lungo periodo di assenza: «”Il ridicolo onore” (titolo scelto per la serata di Fombio, ndr) è nato con il Teatro della Cooperativa di Milano insieme a Renato Sarti, uno dei miei maestri. Mi ha chiesto di tornare in pista: avevo bisogno di divertirmi e di capire quanta voglia avessi di fare ancora teatro. La “giullarata” mi consente di andare in scena senza avere un copione preconfezionato: è uno spettacolo molto comico, in cui prendiamo in giro le “mitiche” figure mafiose e ci agganciamo all’attualità. Nel corso dei mesi lo spettacolo è cambiato: mi sono molto affezionato a questa produzione, perché inizialmente pensavo fosse solo una parentesi e invece abbiamo già fatto oltre cinquanta repliche. Un fatto curioso è che abbiamo debuttato il giorno dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro», un altro personaggio che ovviamente viene messo alla berlina seguendo «i canoni della commedia dell’arte che già avevo utilizzato a inizio carriera – continua l’attore -. Lo spettacolo viene montato in base alla situazione: nelle scuole portiamo una versione più didascalica, mentre in ambienti dove il pubblico ha già consapevolezza del fenomeno diventa una sorta di gioco carnevalesco». Sul palco, Cavalli sarà accompagnato da due fedeli compagni di viaggio lodigiani: il chitarrista Federico Rama e il tecnico audio e luci Mario Raimondi. «Un ritorno sul palco a Lodi? Per questioni noiose non mi esibisco nel capoluogo da vent’anni. Ma non escludo la possibilità di fare qualcosa, quando e se capiterà l’occasione di chiarirsi con alcuni “pezzi” della città».

(fonte)

A Casa loro in scena a Recanati

A Recanati con “A casa loro”, lo spettacolo scritto con Nello Scavo per raccontare ciò che ci si ostina a non voler vedere: la Libia è il sacchetto dell’umido dei nostri errori e dei nostri orrori. La storia ci giudicherà. 

Portare in tournée la realtà della Libia e del Mediterraneo è un dovere civile. 

+++
Se volete organizzare uno spettacolo nel vostro teatro, nel vostro comune, con la vostra associazione o nel vostro festival estivo oppure potete scriverci a organizzazione@giuliocavalli.net

Da Roccella a La Russia: 48 ore da film dell’orrore

Basta mettere in fila i fatti delle ultime ore, senza nemmeno commentarli. Il presidente del Senato Ignazio La Russa ha commesso un reato incappando nella vittimizzazione secondaria della presunta vittima di violenza sessuale che ha denunciato suo figlio. Prima aveva assolto il figlio senza nemmeno bisogno di un giudice “dopo averlo interrogato a lungo”.  Accortosi di essere riuscito nel mirabile capolavoro di risultare scarso sia come padre che come politico ha fatto marcia indietro: sono stato frainteso, ci ha detto.

Tra Roccella, Santanchè e La Russa le ultime 48 ore sono un film dell’orrore

 

La ministra Roccella è stata contestata, di nuovo. Dice che è colpa dei sabotatori, chissà quando scoprirà di essere lei la sua più grande sabotatrice. Ospite a un festival letterario ha assolto Ignazio La Russa (e quindi il figlio) perché, ha detto, “è colui che per la prima volta ha proposto una manifestazione di soli uomini contro la violenza sulle donne, mi sembra questa già una risposta”.

Di fronte a una banalità di tal portata il pubblico l’ha fischiata e se n’è andato. La ministra ha trovato però il tempo di paragonare Daniela Santanchè a Enzo Tortora. Ha ragione Carlo Verdelli: “Paragonare Santanche’ a Tortora è una bestemmia civile. E scivolerà via nel torrente di oltraggi che ci sta annegando”.

Il giornalista Filippo Facci intanto su Libero ha scritto in un suo pezzo di “una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa“. E voi direte, che c’entra con il governo? Facci è una delle nuove facce della Rai targata Meloni. Questa sono solo le ultime 48 ore. Chissà che ne pensano quelli che non vedevano “nessun pericolo”.

L’articolo Da Roccella a La Russia: 48 ore da film dell’orrore sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Facci Tarzan

S’ode nell’aria un’ipocrita sorpresa per atteggiamenti e parole, come se qualcuno non fosse stato dalle nostra parti negli ultimi vent’anni. Nel giro di una settimana ci si è stupiti che la ministra Daniela Santanchè possa dirsi imprenditrice più per le sue amicizie e le sue rendite di posizione che per l’acume e la fatica che richiede ai giovani.

Poi ci si è stupiti che la ministra Roccella sia disposta a sfiorare il risibile pur di difendere le sue posizioni e quelle dei suoi colleghi di governo. Eppure non è accaduto molte settimane fa il piagnisteo del Salone del libro dove ha dimostrato di avere il vittimismo come principale argomentazione, sulla scia della sua presidente del Consiglio. Poi ci si è stupiti delle volgarità del volgare Sgarbi.

L’ultimo sbigottimento riguarda il giornalista Filippo Facci che ha fatto l’unica cosa che lo rende noto, provocare con una buona dose volgarità sfoderando sessismo a iosa. Ieri Selvaggia Lucarelli ha ricordato che è lo stesso Facci che la definì “questa gossipara spargizizzania, che porta male a tutto quel che tocca ed è diventata nota perlopiù per le sue tette da vecchia matrona”. È lo stesso Facci che definendo le “norme su femminicidio solo fumo negli occhi per falsa emergenza”. È lo stesso Facci che parlò di “cessismo” pubblicando un foto di Michela Murgia, incapace di rispondere nel merito.

Gli esempi potrebbero essere moltissimi. Sorprendersi delle caratteristiche peculiari che sono stati gli unici ingredienti della popolarità di qualcuno ha il sapore vagamente ipocrita. Succede sempre: si “normalizza” chi è il potere per non dargli un dispiacere e poi si è costretti a fare un passo indietro quando rivelano la loro risaputa natura. Non sarebbe meglio avere consapevolezza Chiedo.

Buon lunedì.

L’articolo proviene da Left.it qui

Meloni rispolvera l’attacco alla magistratura, ma almeno Berlusconi ci metteva la faccia – Lettera43

Non c’è niente di più stancante della prevedibilità. Quando la prevedibilità riguarda poi la traiettoria di un governo il disagio è un cerchio che si aggiunge e ingrassa il tronco. Sono bastati pochi mesi a quello Meloni per inabissarsi nel cono difensivo dei governi precedenti: l’attacco alla magistratura.

Il governo Meloni è la prevedibile copia di Berlusconi ma almeno il Cav ci metteva la faccia

Con una punta di invidia si torna ai fasti di Silvio Berlusconi che erse la magistratura a nemico pubblico da sventolare e con i magistrati orchi alla bisogna. Silvio, va riconosciuto, aveva più simpatica sfrontatezza: ci metteva la faccia, recitava la parte con appassionato entusiasmo, ci metteva il corpo senza riuscire a nascondere il divertimento. La prevedibile copia del governo Meloni invece si riconosce per l’infantile tatticismo. Rilascia una nota da “fonti di Palazzo Chigi”. In pratica diventa retroscenista di sé stesso offrendo alla stampa e all’opinione pubblica un boccone che non ha padroni. «Palazzo Chigi contro la magistratura», sono costretti a scrivere i quotidiani, e ognuno si immagina l’edificio di piazza Colonna sbattere le imposte e pestare le porte. Un’accusa senza una firma ha il retrogusto del venticello leggero della calunnia. Se avesse proposto un pezzo del genere un qualsiasi giornalista avrebbe dovuto fare i conti con il suo caporedattore mentre gli appoggiava la mano sulla spalla e gli diceva che no, dai no, non può essere davvero una notizia.

Meloni rispolvera l'attacco alla magistratura, ma almeno Berlusconi ci metteva la faccia
Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

La destra usa tutti i trucchi: gridare all’assedio, cavalcare l’indignazione, tutto pur di non parlare di politica

Invece eccoci qua. A luglio del 2023 il governo Meloni imbocca ufficialmente il sentiero dello scontro con la magistratura come panacea di tutti i mali, di tutti i rischi, di tutte le insofferenze e di tutte le difficoltà. In fondo “l’eredità politica di Silvio Berlusconi” consiste anche in un semplice manuale di trucchi da animatore politico. Li ritroviamo tutti: opporsi all’opposizione mentre si è al governo per lasciare intendere che si sia sotto attacco, cavalcare l’indignazione su questione impolitiche per non dover parlare di politica, rispondere alle domande rivendicando l’umanesimo dei propri errori (perfetta la ministra Santanchè, in questo), sindrome dell’assedio e immediato contrattacco quando c’è di mezzo la magistratura. E le premesse e le promesse? Non c’è problema. La forza delle narrazioni sta anche nel loro sciogliersi in fretta. Le narrazioni sono lavabili, possono essere capovolte, amano essere contraddette. Sembra un’altra era quando Giorgia Meloni si presentava agli italiani promettendo un nuovo patto sociale in cui avremmo conosciuto «una nuova destra». La presidente del Consiglio aveva promesso l’ascolto di ogni protesta e poco dopo si è inventata il reato di manifestazione ambientalista con vernice lavabile. «Sarò la presidente di tutti gli italiani», disse nel suo discorso in parlamento. Anche questa è una frase diventata un genere letterario.

Meloni rispolvera l'attacco alla magistratura, ma almeno Berlusconi ci metteva la faccia
Daniela Santanchè durante l’informativa al Senato (Imagoeconomica).

Quella di Giorgia Meloni sembrava una storia ben scritta e invece si è rivelata vecchia

La “storia” di Giorgia Meloni sembrava ben scritta, con gli ingredienti giusti per funzionare. C’era l’infanzia di borgata riscattata dall’impegno, c’era la militanza di partito nell’epoca dei parvenu, c’era l’autonomia, soprattutto. «A differenza di altri io non sono ricattabile», disse Giorgia Meloni presentandosi agli italiani nelle vesti di presidente del Consiglio. La frecciata, manco a dirlo, era rivolta a quel Silvio Berlusconi che inutilmente aveva provato a tarparle le ali. Al di là delle inclinazioni politiche di ognuno ascoltandola si è pensato che almeno avremmo visto una storia nuova. «Peggio di una storia brutta c’è solo una storia vecchia», mi disse un ex direttore molto in vista qualche anno fa. Aggiunse che gli elementi che funzionano sono la crescita esponenziale, una difficoltà imprevista, il superamento della crisi e poi il riscatto. Quanto sia imprevisto che la magistratura indaghi (anche) sulla classe dirigente del Paese ognuno lo può giudicare per proprio conto. Quanto sia prevedibile che una destra sovranista indichi la magistratura come un “deep State” contro lo Stato lo dice la storia recente. Una storia così vecchia che potremmo scrivere già il plot delle prossime puntate: scontro, polarizzazione, caduta, beatificazione. In attesa del prossimo che si professerà finalmente non ricattabile, applausi scroscianti e via, di nuovo.

L’articolo proviene da Lettera43 qui https://www.lettera43.it/meloni-governo-magistratura-berlusconi/

Sesso, droga e… contrappasso. C’è un caso Grillo in casa La Russa. Il figlio di Ignazio indagato per violenza sessuale ma il padre lo assolve e scarica la colpa sulla vittima

È la legge del contrappasso ed è la plastica dimostrazione di come sia sempre pericoloso utilizzare i casi di cronaca come clava politica. Sembrano lontani i tempi in cui Beppe Grillo definiva un “processo politico” quello nei confronti di suo figlio Ciro, accusato di stupro insieme ad alcuni amici. In quel caso il politico Grillo si fece padre e difese il figlio con un video giudicato da molti offensivo per il tentativo di rivittimizzare la presunta vittima.

Ora sotto i riflettori è finito Leonardo Apache La Russa, terzogenito del presidente del Senato Ignazio La Russa, indagato per violenza sessuale a Milano dopo la denuncia presentata da una 22enne. Stando alle dichiarazioni della ragazza riportate dal Corriere della Sera, che ha anticipato la notizia, la violenza è avvenuta lo scorso 18 maggio, durante una serata in discoteca nel capoluogo lombardo.

La procura deve ancora individuare e sentire i testimoni e l’indagine è nelle sue fasi iniziali ma il clamore si è già alzato e politica e cronaca si sono mischiate di nuovo. Anche in questo caso il politico s’è fatto padre. Solo che qui Ignazio La Russa è la seconda carica dello Stato e la cautela dovrebbe essere un obbligo per tutelare le istituzioni. Non è andata così.

Difesa d’ufficio

Il presidente del Senato racconta di aver “a lungo interrogato” il figlio ricavandone la certezza che “non abbia compiuto” nulla di penalmente rilevante. È il processo secondo questa destra: indagini e tre gradi di giudizio si esauriscono nella convinzione del padre. “Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero”, dice La Russa, se non quella “forte reprimenda” per “aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato”.

Il presidente del Senato ne ha anche per la ricostruzione fornita dalla ragazza: “Di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore che – cito testualmente il giornale che ne dà notizia – occupa questo tempo ‘per rimettere insieme i fatti’…”, scrive La Russa. Non si è fatta attendere la reazione della segretaria del Pd Elly Schlein: “Al di là delle responsabilità del figlio, che sta alla magistratura chiarire”, ha detto la segretaria, “è disgustoso sentire dalla seconda carica dello Stato parole che ancora una volta vogliono minare la credibilità delle donne che denunciano una violenza sessuale a seconda di quanto tempo ci mettono, o sull’eventuale assunzione di alcol o droghe, come se questo facesse presumere automaticamente il loro consenso”.

Secondo Schlein “il presidente del Senato non può fare vittimizzazione secondaria. È per questo tipo di parole che tante donne non denunciano per paura di non essere credute. Inaccettabile da chi ha incarichi istituzionali la legittimazione del pregiudizio sessista”.

La polemica

Sul tema è intervenuta anche Antonella Veltri, presidente della rete dei centri antiviolenza D.i.Re: “È inaccettabile in una democrazia moderna che si usino privilegi derivanti da incarichi o da ruoli politici per orientare l’opinione pubblica e indebolire la denuncia delle donne. Chiediamo al presidente della Repubblica di intervenire e mettere un freno a questo riprovevole comportamento del presidente del Senato”.

Anche per il co-portavoce nazionale di Europa Verde Angelo Bonelli, le parole di La Russa sono “inaccettabili”: “Il fatto che la seconda carica dello Stato si renda responsabile di queste inaccettabili dichiarazioni, che attaccano la vittima e scagionano il figlio, evidenzia che le nostre istituzioni sono entrate in una fase di profonda delegittimazione a causa di comportamenti profondamente dequalificanti”. Di “ingerenza intollerabile” parla Riccardo Magi di +Europa.

L’articolo Sesso, droga e… contrappasso. C’è un caso Grillo in casa La Russa. Il figlio di Ignazio indagato per violenza sessuale ma il padre lo assolve e scarica la colpa sulla vittima sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui