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Perbenisti che non sanno essere perbene

Stanno preparando una legge che è un’aberrazione giuridica su droghe e guida spiegandoci che la “mano pesante” è giustificata dalla guerra senza quartiere contro i consumatori di droga. Negli stessi giorni però non riescono a pronunciare mezza parola su un loro dirigente politico che usava l’auto blu per acquistare cocaina.

I perbenisti sono già una razza fastidiosa i perbenisti che non sanno nemmeno essere “per bene” come vorrebbero imporre sono una tragica barzelletta

Il ministro proibizionista Salvini è lo stesso che giustificò l’uso di droghe di un suo collaboratore definendolo “un errore”. Come “i compagni che sbagliano”, una cosa del genere. Da anni ci sfondano con la narrazione della “famiglia naturale” e sono tutti – tutti – coniugi naturali: chi non si sposa anche se ha figli, chi si è sposato più volte, chi ha avuto in vita una concezione tutt’altro che etica del matrimonio e delle donne.

Nel frattempo hanno creato orfani per decreto e da due giorni fanno sermoni sui nomi giusti da dare ai propri animali domestici. A proposito: la presidente del Consiglio ha un gatto con un nome indicibile, esattamente come quelli che contestano.

Chiedono il rispetto della legge ma balbettano da giorni per una ministra che probabilmente di leggi ne ha contravvenute qualcuna nella gestione delle sue aziende. Si atteggiano da iper cattolici e hanno un sotto segretario alla cultura che durante un evento ha imbarazzato non solo i cattolici ma qualsiasi persona senziente grazie alle sue volgarità da bullo di periferia

I perbenisti sono già una razza fastidiosa ma dei perbenisti che non sanno nemmeno essere “per bene” come vorrebbero imporre agli altri sono una tragica barzelletta.

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Flop tv e finti trionfi di Meloni. Ma vanno a ruba i soliti giornalisti

TeleMeloni sta sconvolgendo il parterre del giornalismo televisivo italiano. C’era da aspettarselo, vista la smania accentratrice di una presidente del Consiglio che non ha intenzione di fare prigionieri nemmeno tra i suoi alleati di governo. Il mercato dei giornalisti però dice molto anche del Paese, al di là del governo che passerà come sono passati tutti i governi. L’ultima in ordine di tempo è Bianca Berlinguer, che Libero in prima pagina spara come prossima conduttrice negli studi di Mediaset (ma si parla anche di Discovery).

Valzer di poltrone a suon di milioni per chi è del giro. Chi è inviso al sistema è fuori, pure se fa ascolti

In questo caso non si tratterebbe di un “gesto politico”, niente a che vedere con forme di resistenza (più o meno credibili) contro l’avvento del melonismo. Secondo le voci dei ben informati a non andare giù alla conduttrice di Cartabianca sarebbe la programmazione disposta in Viale Mazzini che la vedrebbe contro il programma di Francesca Fagnani e Alessia Marcuzzi. “Sarebbe la più importante apertura a sinistra per Mediaset dopo Michele Santoro”, dicono dagli uffici del Biscione.

Funziona poco invece lo sdegno per il cognome Berlinguer alla corte che fu di Berlusconi: la sorella Laura è già giornalista di Studio Aperto da anni. Possibilità di indignazione sfumata sul nascere. Tant’è che al Nazareno un deputato del Pd supplica i dem di “non intestarsi questa inutile battaglia con tutto quello che c’è da fare sul serio”. Sul futuro di Lucia Annunziata si rincorrono due ipotesi. C’è chi bisbiglia Discovery come approdo, dove raggiungerebbe Fabio Fazio (il cui scalpo viene considerato un trionfo da Meloni e Salvini) e Luciana Littizzetto. Altre voci la immaginano come candidata per le prossime elezioni europee con il Partito democratico.

“Ricordiamoci come andò con Santoro che ci usò come tram per andare a Bruxelles e poi ci trattò con tutt’altro che gratitudine”, ricorda un parlamentare di lungo corso. Niente Rai invece per Nicola Porro (nella foto) che in un’intervista a La Verità confessa di essere stato a un passo, con un progetto editoriale già pronto per Rai 3 ma è stato bloccato dai rimorsi dopo una telefonata di Silvio Berlusconi nei suoi ultimi giorni. Porro, tra le altre cose, è anche vicedirettore del Giornale che nei propositi dovrebbe essere un giornale “indipendente” ma nei fatti è una succursale di questo governo.

Gran parte dei volti che monopolizzano i talk show sono immuni pure ai cambi di governo

Un giornalista sul ciglio della televisione pubblica fermato da una telefonata del suo editore televisivo che era leader di governo e che nel frattempo è vicedirettore di un quotidiano da poco ceduto a un imprenditore della sanità privata ma anche quattro volte deputato è la fotografia dello stato della stampa italiana, melassa indistinguibile tra imprenditoria e potere.

La Rai smobilita, i protagonisti cambiano, questo è prevedibile anche se non per questo meno sconcertante. Ma le compagnie di giro? Ogni volta che lo spoil system viene praticato con tanta brutalità non si può non scorgere un problema di fondo nel giornalismo italiano, ancora di più quello televisivo: traslocano i salotti ma gli invitati al banchetto sono sempre gli stessi. Meloni trasloca in Rai gli amichettismi che navigavano in Mediaset e viceversa. Galleggia sempre il caravanserraglio di voci considerate “autorevoli” perché simili, anche se asseriscono di appartenere a fazioni opposte.

I giornalisti che accedono allo schermo televisivo (alcune testate stanno in piedi solo con quella visibilità) sono immuni ai cambi dei governi. Direttori di quotidiani senza lettori in tv acquisiscono l’autorevolezza di sacerdoti dell’opinione. Non conta nemmeno lo share: si premia la fedeltà al sistema di pensiero. La dialettica è sopportata solo sulle sfumature. Così sembra tutto sempre uguale a sé stesso perché è uguale a sé stesso.

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Il codice della strada di Salvini tra penalismo d’accatto e neo proibizionismo – Lettera43

Benvenuti nella distopia dello Stato etico, per dei più proposto da coloro che vorrebbero rivendersi liberali. Gli indizi del resto c’erano tutti. Anni passati a spiegare quale fosse la famiglia naturale e quale quella innaturale e contro Dio, anni passati a usare la frusta del buon senso per magnificare come si dovrebbe essere per piacere alla gente che piace, anni di promesse agli elettori con l’orizzonte di un governo che spinto dalla maggioranza degli italiani potesse stabilire un perbenismo obbligatorio. Alla fine eccoci qui, al disegno di legge sulla sicurezza stradale di Matteo Salvini che non ha perso il suo fiuto per il populismo penale usato per saziare le sempre più spalancate fauci dell’indignazione.

LEGGI ANCHE: Salvini e le contraddizioni sul codice stradale, tra velocità e tolleranza zero

Temi seri che andavano affrontati con studio e ascolto

Il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture confeziona norme che coniugano le sue due più grandi passioni: la lotta alla droga (spauracchio di ogni brava mamma italiana che ringrazia il cielo per non avere un figlio come tutti gli altri, tutte le mamme la pensano così) e il dolore scioccante di chi perde un familiare in un incidente stradale per colpa degli altri. Gli argomenti sono gravi e seri e meriterebbero – come tutti i temi affrontati dalla politica – studio e ascolto. Perché perdere tempo per studiare e ascoltare – deve avere pensato il leghista – quando ci si può permettere di scrivere un ddl che contenga già l’editoriale per presentarlo? Dice Matteo Salvini che «il messaggio è molto chiaro: se ti stronchi di canne, ti impasticchi in discoteca o sniffi a tempo perso e ti metti al volante, lucido sì o lucido no io ti ritiro la patente e fino a tre anni non la rivedi più».

E la lotta all’alcol allora? Disturba le lobby amiche

A ben vedere nelle intenzioni ci dovrebbe essere anche la lotta all’alcol, ma quello è nel campo delle cose che vanno dette senza farle per non disturbare le lobby amiche. Così si legge che arriveranno «modifiche alle norme sulla guida dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti, con l’eliminazione della necessità che il soggetto sia colto in “stato di alterazione psico-fisica” derivante da assunzione di sostanze stupefacenti. Per il perfezionamento del reato, sarà, quindi, sufficiente che un soggetto si metta alla guida dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti, pur non essendo in stato di alterazione». Tradotto: sarà reato essere trovati positivi a sostanze stupefacenti, pur se assunte settimane prima (si resta positivi per settimane) e senza causare pericolo. Siamo allo Stato hegeliano che si pone arbitro assoluto del bene e del male.

Il codice della strada di Salvini tra penalismo d'accatto e neo proibizionismo
Matteo Salvini (Imagoeconomica).

Le più basilari logiche del diritto penale non valgono più

Non è la responsabilità e l’eventuale danno stabilito dalla legge il principio fondante. Un automobilista che rischia di investire un pedone perché gingilla con il suo telefono rischia 13 punti della patente e mille euro di multa, un guidatore che è perfettamente lucido e in grado di guidare e non investire cose o persone viene sacrificato sull’altare del penalismo d’accatto. Il nesso di causalità tra evento/rischio/danno tanto caro al diritto penale non vale più. In fondo si tratta di un neo proibizionismo messo in atto da politici che non hanno il fisico e il coraggio di imporlo davvero. Sono gli stessi modi con cui si disarticola il diritto all’aborto attraverso l’obiezione di coscienza negli ospedali pubblici, solo per citare uno dei tanti esempi possibili.

Ai politici fanno schifo i drogati: sì, ma quelli poveri

Ma non c’è solo la vergogna dell’essere proibizionisti travestiti da liberali. Sulla questione delle droghe Salvini (come molti altri esponenti della maggioranza di questo governo) mantengono da anni un doppio filo che non ha bisogno di troppe analisi per essere riassunto così: «A noi fanno schifo i drogati, ma quelli poveri». Perché se volessimo essere d’accordo con il ministro Salvini, allora ci sorgerebbe naturale una domanda: se chi ha fatto uso di droghe (riscontrabili nel sangue, quindi anche tempo fa) non è degno di guidare un’auto, cosa dovremmo fare a coloro che hanno fatto uso di droghe la sera prima di votare una legge in parlamento? Non è una responsabilità che tocca una collettività enormemente più ampia? E un medico? Un giudice? Un esponente delle forze dell’ordine con un’arma in tasca? Ci vuole il fisico per imporre lo Stato etico. Forza, Salvini, non ci deluda.

Fregata dagli alleati sovranisti. Meloni mai tanto isolata

Sarà che in Europa la politica tocca farla sul serio e che a Giorgia Meloni non basta alzare il tono della voce e spargere un po’ di propaganda ma l’Italia torna dal vertice europeo a Bruxelles con un nulla di fatto sui migranti. Indicativo che ad affossare l’accordo siano proprio gli “amici” della presidente del Consiglio, quell’Ungheria e quella Polonia che per anni sono stati “compagni di sovranismo” e che a differenza della premier italiana sono rimasti sulla stessa linea.

La premier Meloni rimedia due ceffoni dai leader più vicini. E li giustifica pure: “Difendono i loro interessi”

“Sulle migrazioni siamo riusciti davvero a cambiare punto di vista”, aveva detto in Parlamento Meloni, sempre pronta a suggerire il titolo in prima pagina ancora prima che i fatti accadano davvero. Ovvero prima di partire per il Consiglio Ue. Ieri la giornata intensa di consultazioni, in cui Meloni ha provato a essere mediatrice tra quello che era e quello che è diventata dialogando con Ungheria e Polonia da una parte e Ue dall’altra, si è conclusa con un nulla di fatto.

Il 9 giugno al Consiglio Ue Affari Interni Budapest e Varsavia si erano opposti all’obbligo di solidarietà, ovvero il sostegno degli Stati ai Paesi in difficoltà con la disponibilità ai ricollocamenti o in alternativa al pagamento di 20 mila euro per ogni migrante non ricollocato. Mateus Morawiecki e Viktor Orbán hanno ribadito la loro proposta di emendare le conclusioni del summit. “Il Consiglio europeo conferma che, nel contesto delle misure di solidarietà che sono ugualmente valide, il ricollocamento e il reinsediamento saranno su base volontaria”.

Solo che la solidarietà “volontaria” è l’esatto opposto di quanto deciso il 9 giugno in Lussemburgo. Durante il trilaterale, tenuto nella sede della delegazione italiana presso il Consiglio europeo, la premier ha tentato di trovare un punto di mediazione con i due paesi che stanno bloccando l’adozione delle conclusioni del Consiglio europeo sull’immigrazione. La missione è miseramente fallita. Giorgia Meloni prova a stemperare: “Non sono delusa – spiega da Polonia e Ungheria, non sono mai delusa da chi difende propri interessi nazionali”, ma il contrasto “non riguarda la dimensione esterna ma la dimensione interna, cioè l’asilo”.

Polonia e Ungheria “non sono d’accordo su un patto che riguarda la dimensione interna, non troveremo mai l’accordo sulla dimensione interna, abbiamo tutti le nostre necessità, quello che possiamo fare insieme è lavorare sulla dimensione esterna, e l’accordo con la Tunisia è un esempio di quel che possiamo fare, e su questo sono d’accordo Austria Polonia, Ungheria”. Per la presidente del Consiglio i “ricollocamenti non sono una priorità” ma ciò che conta è fermare i flussi irregolari.

Solo che a Bruxelles a questa barzelletta ripetuta da anni non ci crede più nessuno. “Alla fine i sovranisti hanno fatto i sovranisti – dice l’eurodeputato di Italia Viva e vicepresidente di Renew Europe Nicola Danti – Meloni oggi impara cosa succede ad andare a braccetto per anni con Orbán. Non dovrebbe smetterla di allearsi con i peggiori avversari dell’Italia”.

Rincara la dose il Pd con il senatore Verini: “La Meloni diceva: prima gli italiani! Poi arriva un momento in cui i suoi amici e alleati stretti, come Morawiecki e Orban dicono: prima i polacchi, prima gli ungheresi! E alzano i muri. Chi di sovranismo ferisce, di sovranismo perisce”. Di “totale insuccesso al vertice europeo sul tema della migrazione, strategico per l’Italia”, parla la capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra la Camera Luana Zanella.

Leggi anche: “Promesse elettorali tradite. Governo privo di autorevolezza”. Parla il senatore M5S, Licheri: gli sbarchi sono ai massimi. “I patrioti della domenica volevano fare tutto da soli”

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Foglio di via per l’Italia da Bruxelles

Gira da qualche anno sui social un video in cui due cani si abbaiano furiosamente in faccia separati da un cancello. Verrebbe da credere che siano pronti a sbranarsi, se ne avessero l’opportunità. Quando il cancello all’improvviso si apre i due si guardano straniti, abbassano le orecchie e indifferenti se ne vanno ognuno per la sua strada.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, vista al di qua del cancello nel nostro Parlamento e nei giornali che le sono amici, da settimane sbraita contro l’opposizione, contro l’Unione europea, contro i falchi della Bce. Non solo. Da questa parte del cancello ripete da giorni che non ci sono problemi sulle scadenze del Pnrr, non ci sono problemi per il patto sui migranti siglato a Lussemburgo, non ci sono problemi sul Mes. Tutto falso, tutto.

Le è bastato uscire dal comodo recinto di giornalisti amichevolissimi e parlamentari a disposizione per abbassare le orecchie e, di seguito, i toni. La missione Ue di Giorgia è un fallimento su ogni fronte ed è l’inevitabile e impietosa fotografia di un Paese non credibile, isolato e ostaggio della sua stessa propaganda. Hanno voluto i voti dei sovranisti e ora indossano la maschera da europeisti risultando non credibili in entrambi i ruoli.

Meloni è disistimata dall’Europa occidentale e derisa dagli ex amici Morawiecki e Orbán. Non era facile riuscire a scontentare tutti eppure le è riuscita questa formidabile impresa. Ora mogia torna in Italia ma rialzerà subito le orecchie. Tanto un giornale che le dice di avere compiuto un capolavoro lo trova di sicuro.

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E anche questo femminicidio l’abbiamo disinnescato

Ogni volta che una donna viene orrendamente uccisa in questo sbilenco Paese nelle redazioni di (alcuni) giornali e (quasi tutte) reti televisive tra le priorità, insieme alle interviste degli amici e dei parenti, c’è l’appiglio per disinnescare la narrazione.

Delle oltre 40 donne uccise nel 2023 troverete quasi sempre un particolare che viene presentato come “giustificazione” dell’efferato omicidio. Per carità, nessuno ha il coraggio di scriverlo apertamente, si tratta di un lavorio sotterraneo, perfino più vigliacco, che suggerisce vie di condono. Nel caso di Michelle Causo la traiettoria è chiarissima: si è cominciato raccontando il quartiere di Primavalle come “bronx romano” in cui una ragazza fatta a pezzi avrebbe dovuto essere considerata come un ragionevole effetto collaterale, poi hanno raccontato delle risse tra bande, poi hanno descritto Michelle come “una ragazza cresciuta troppo in fretta” e il presunto assassino come “un bastardo” e come un “hacker di telefoni”.

Un rovistare tra i cassonetti della cronaca e delle vite per spegnere l’allarme e per evitare una visuale d’insieme su femminicidi che sono ormai una patologia. Ogni volta a qualcuno dotato di pazienza tocca l’improbo compito di elencare i femminicidi di questi mesi per ricordare che avvengano nelle zone più eleganti della città come nelle zone più periferiche, che includano assassini dalla provenienza difficile come stimatissimi professionisti appartenenti alla borghesia cittadina, che interessino assassini dai 16 ai 90 anni.

Nel caso della povera Michelle qualcuno ha deciso di utilizzare la leva più stupida e vigliacca, sottolineando che il presunto assassino sarebbe “nato a Roma ma di origine srilankesi”, soffiando sulla xenofobia che di questi tempi è sdoganata fin dagli alti vertici di governo. A scriverlo non sono stati solo i quotidiani peggiori – quelli che da anni giocano alla concimazione della xenofobia – ma anche una titolatissima agenzia di stampa e qualche quotidiano distrattamente ancora descritto come progressista. Il soffio sotto l’articolo è chiaro: non è uno di noi, non sono come noi. Così il ragazzo nato a Roma ma con origini srilankesi diventa come il felino ma con origine canine, pronto a essere dato in pasto agli spaventati dall’invasione e ai nemici dell’integrazione.

E anche questo femminicidio ce lo siamo tolti dalle palle, pronto per essere messo nel cassetto dei “confini da difendere”. Che schifo.

Buon venerdì.

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Ecco tutte le balle nel discorso alla Camera della Meloni

Ci vuole talento per mentire e la presidente della Consiglio Giorgia Meloni quel talento non ce l’ha. Così la sua relazione, ieri alla Camera, in vista del Consiglio europeo di oggi e domani è talmente facile da smontare in ogni sua parte che potrebbe farlo chiunque abbia ancora un minimo di memoria e di lucidità.

Governo compatto. Giorgetti seduto tra i deputati. Non proprio un segno di unità

La prima bugia ripetuta ossessivamente negli ultimi giorni si sbriciola anche togliendo l’audio. “La maggioranza è compatta”, ripetono da giorni gli esponenti di Fratelli d’Italia più vicini a Giorgia Meloni. Falso. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti mentre parla la premier è seduto tra i banchi della Lega e non a quelli del governo. I deputati leghisti sono immobili e silenziosi mentre Meloni parla del fondo salva-Stati e il vicesegretario della Lega Andrea Crippa ai giornalisti dice “ci dica lei cosa fare” riferendosi al Mes. Lei ovviamente è Giorgia Meloni. Se questa scena possa davvero trasmettere l’immagine di una compattezza di governo lo può decidere qualsiasi osservatore.

Lady Austerity. Meloni accusa i falchi Ue. Mentre copia e incolla Draghi

Dice Meloni: “L’obiettivo è porre fine una volta per tutte alla stagione dell’austerità, pur senza venir meno a quella disciplina di bilancio sulla quale il governo italiano ha dimostrato serietà fin dalla manovra finanziaria, con buona pace dei gufi che preconizzavano catastrofi di ogni sorta”. Falso, eccome. L’austerità italiana non è colpa solo dei “falchi di Bruxelles”, come li chiama Meloni prima di diventare europeista in Europa sperando di risultare credibile come sovranista in Italia. L’austerità italiana porta la firma del suo governo. Lo certificano i tagli alla sanità che ieri perfino il ministro Schillaci ha riconosciuto, confessando che sarebbero almeno 3 miliardi che servirebbero per avere una sanità in grado di mantenere gli impegni con i cittadini. L’austerità che pesa nelle tasche degli italiani è il diritto per ogni cittadino a una vita minimamente decente che in Italia, dopo la demolizione del Reddito di cittadinanza, non esiste più. Per venire protetti dallo stato sarà necessario appartenere a una famiglia con un minore, un over-60 o una persona con disabilità: tutti gli altri l’austerità la sentono mentre gli stringe il collo. L’austerità la stanno vivendo le aziende edili che si ritrovano affossati da una riforma del Superbonus (anche in questo caso nient’altro che una demolizione) che sta rovinando le imprese e le famiglie che si sono fidate dello Stato. L’austerità la proveranno – ancor più violenta di ora – i giovani e meno giovani che porteranno addosso i segni del prossimo Decreto lavoro che apre ancora di più le porte alla precarizzazione in un Paese in cui si riesce a essere poveri anche avendo un impiego.

Solida e credibile. Ma Biden la chiama in ritardo. Il viaggio in Usa sparito dai radar

Dice Giorgia Meloni che l’Italia non è “rimasta isolata in Europa” o caduta “nell’instabilità”, ma è più “solida e credibile”. Sulla credibilità dell’Italia basterebbe citare la telefonata del presidente Usa Biden mentre la Russia traballava sotto la marcia di Prigožin. Biden nel suo primo giro di chiamate agli alleati ha contattato il premier inglese, il cancelliere tedesco, il presidente francese. La telefonata a Meloni è arrivata con ventiquattr’ore di ritardo, dopo il can can dei quotidiani e il lavoro delle diplomazie. Come fa notare la deputata dem Chiara Braga “dal Mes alla gestione dei flussi, dal Pnrr all’inflazione, Meloni non riesce a chiudere una partita, complice alleati europei imbarazzanti a Roma come a Bruxelles. Prigioniera del suo passato, dei no all’Europa, all’integrazione”. Si attende intanto il viaggio negli Usa annunciato un mese fa. A Parigi la credibilità è stata salvata dalla visita del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Se questa è autorevolezza…

Equilibrismo cinese. Gioco delle tre carte su Pechino. Scoperto con il caso Pirelli

Dice Meloni: “La Cina è un interlocutore imprescindibile, ma il nostro rapporto vuole essere equilibrato”. Qualcuno potrebbe chiedersi cosa intenda per “equilibrato”, visto che era in Parlamento a spiegare le sue posizioni, non per descriverci i suoi auspici. E infatti nel suo stesso discorso dice anche che la Cina “è oggi un rivale sistemico che chiama l’Unione europea ad essere da una parte ferma nella difesa dei propri valori dall’altra pragmatica nel conseguimento dei propri interessi economici, e nel confronto sulle sfide globali”. La presidente del Consiglio prova a spiegarsi: “Dobbiamo – dice – pragmaticamente prendere atto oggi che quella cinese e quella europea sono economie per molti aspetti interdipendenti. Il rapporto economico dovrebbe evolvere verso standard e regole comuni. In questo contesto, se da un lato il disaccoppiamento non è una ipotesi percorribile, dall’altro lo è ridurre il rischio”. Ha ragione il leader del M5S quando fa notare che Meloni abbia parlato di Cina per qualche minuto del suo discorso ma in Aula non c’era nessuno che sapesse dirci chiaramente che posizione avrà l’Italia sulla via della seta. “In Consiglio europeo dira’ che ci state ancora riflettendo sopra”, chiede Conte. È la domanda che si pongono in molti. Questa è peggio di una bugia, non hanno nemmeno avuto la decenza di inventarne una. Per ora rimane solo l’esercizio dei poteri speciali golden power da parte del governo per proteggere Pirelli, contro la Cina.

Pace in Kosovo. Stabilizzare la regione. A suon di scontri della Kfor

Dice Meloni: “Confermo l’impegno italiano per la pace nel Kosovo e per la stabilità di tutti i paesi dei Balcani a cui stiamo dedicando molte energie”. La stabilità in Kosovo sono gli undici italiani feriti negli scontri tra i militari della Kfor e i manifestanti. Pristina ha scelto il divieto dello svolgimento delle elezioni serbe sul territorio del Kosovo, che fino all’anno scorso si erano svolte con la facilitazione dell’Osce. Poi c’è stato il rifiuto di accettare la sentenza della Corte Costituzionale sul punto dell’Accordo di Bruxelles relativo alla formazione dell’Associazione dei comuni del Kosovo settentrionale. Infine il problema della pre-registrazione delle targhe, che in precedenza era filato liscio, dato che l’operazione veniva svolta in coordinamento tra Pristina e Belgrado. Questa volta Kurti ha deciso di farlo unilateralmente, coinvolgendo la polizia per attuare la decisione. La stabilizzazione non sta procedendo benissimo, possiamo dire.

Siamo… Mes male. Salva-Stati in stallo totale. Resa dei conti tra Lega e FdI

Eccola l’altra bugia. “Non reputo utile all’Italia alimentare una polemica interna sul Mes – ha detto la presidente del Consiglio -. L’interesse dell’Italia è affrontare il negoziato sulla governance europea, dove si discuta nel complesso nel rispetto del nostro interesse nazionale. Prima ancora di una questione di merito c’è una questione di metodo su come si faccia a difendere l’interesse nazionale”. Due appunti: la polemica interna è tutta roba di Giorgia Meloni e i suoi alleati. E chissà che ne pensano a Bruxelles di leader di governo che non riesce nemmeno a tirare le fila nella sua maggioranza. Mentre Giorgia Meloni parlava di Mes i deputati di Fratelli d’Italia si sono levati in piedi tributandole una standing ovation, mentre i colleghi della Lega sono rimasti immobili. In merito al Meccanismo europeo di stabilità il vice di Salvini Andrea Crippa tiene a precisare che il parere della Lega “è lo stesso dell’anno scorso e due anni fa”. Dopodiché, sottolinea, “ci dica Meloni cosa fare”. La palla passa alla premier che “ha l’onore e l’onere di fare il presidente del Consiglio”, sottolinea Crippa che – ribadendo la “lealtà” della Lega – continua: “Esprimiamo una posizione, ma abbiamo la responsabilità di governare un Paese e vogliamo farlo per 5 anni. Meloni negli scorsi mesi ha detto le stesse cose di Salvini sul Mes, attendiamo una sua indicazione per procedere”.

Balle migratorie. La difesa dei confini nazionali. Smentita dagli accordi Ue

Come ci si poteva aspettare sull’immigrazione la presidente del Consiglio dà il peggio di sé. Nel suo discorso si infervora e parla di un Paese in cui “una volta venivano speronate le navi della Marina”. Falso. Il processo a Carola Rackete si è chiuso con un’assoluzione che scrive nero su bianco che lo speronamento sia un’invenzione di Meloni, Salvini e compagnia cantante. In compenso proprio ieri il Senato ha salvato il ministro Salvini dal processo che lo attendeva per aver diffamato la capitana di Sea Watch. A speronare le navi italiane (sparando) sono le motovedette della Guardia costiera libica che (anche) Giorgia Meloni continua a foraggiare. “Dalla Ue non accetteremo soldi che trasformino l’Italia nel campo profughi d’Europa”. Falso. L’Italia ha da poco sottoscritto un accordo per il quale se un altro Paese Ue non ci sta al ricollocamento basta che paghi 20.000 euro a migrante/rifugiato che resta nel Paese di prima accoglienza (l’Italia più di tutti). Meloni promette di difendere l’Italia da un accordo che si è accorta di avere sottoscritto. Incredibile.

Fine guerra mai. L’invio di armi a Kiev unica via. Il Papa però non la pensa così

Appena sente nominare la guerra Meloni diventa più atlantista degli atlantisti che disprezzava. “Se non avessimo aiutato gli ucraini, come anche qualcuno in quest’Aula suggerisce – rivendica la presidente del Consiglio – ci troveremmo in un mondo in cui alla forza del diritto si sostituisce il diritto del più forte, un mondo senza regole se non quella delle armi”. Falso. In quell’Aula non c’è un solo esponente di un solo partito che abbia chiesto di “non aiutare gli ucraini”. Ci sono interpretazioni diverse su come dovrebbero essere aiutati: chi con le armi, chi con la diplomazia. Il Papa, ad esempio, non la pensa come Giorgia Meloni. Il Papa lavora per il “diritto del più forte”? Dai, su, un po’ di serietà.

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A proposito di quel “bastardi” di Roberto Saviano

Roberto Saviano polarizza. Succede a lui, succede per le parole di Michela Murgia, accade in questo Paese a chiunque abbia un’esposizione pubblica che decide di usare non rimanendo tra le righe di un dibattito che tende a normalizzare, talvolta anche a dignificare ciò che non è degno.

Il processo di una presidente del Consiglio contro uno scrittore (ovvero di una capa di governo che occupa un tribunale per una resa dei conti sproporzionata nei ruoli, anche se legittima) avviene perché nel 2020 in una trasmissione televisiva Saviano parlando della morte di un bambino della Guinea durante una traversata nel Mediterraneo, affermò: “Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle Ong: taxi del mare, crociere… ma viene solo da dire bastardi. A Meloni, a Salvini, bastardi, come avete potuto? Come è stato possibile tutto questo dolore descriverlo così? Legittimo avere un’opinione politica ma non sull’emergenza”. “Dopo l’intervista a Saviano nessuno ha chiesto rettifiche o mandato diffide né tantomeno è stata chiesta la rimozione del video”, ha spiegato ai giornalisti il conduttore di quella trasmissione, Corrado Formigli.

A quel processo non si presenterà la querelante, Giorgia Meloni. È curioso che una presidente del Consiglio che imbastisce un processo contro un cittadino non accetti di presentarsi in Aula ma è anche significativo: Meloni non ha nulla da dire, ciò che le serve è solo la lezione del “punirne uno per educarne cento”. Missione compiuta. Il giornalismo paludato racconta spesso quelle udienze con la vischiosità di chi non ha nemmeno bisogno di essere censurato perché si censura da solo.

Nel frattempo, in quegli stessi anni, il ministro dell’Inferno Matteo Salvini scorrazzava per giornali e televisioni definendo la capitana della nave Sea Watch 3 Carola Rackete “sbruffoncella, fuorilegge e delinquente”. La sua colpa era quella di avere forzato le decisioni del ministro Salvini dopo aver salvato 53 persone. La giustizia italiana ha sancito che Rackete abbia fatto benissimo. Anzi, la giustizia italiana sta processando Salvini per aver costretto 160 persone ad attendere a bordo dell’Open Arms 19 giorni prima di poter sbarcare in un porto sicuro nell’agosto del 2019. Rackete, come Giorgia Meloni, ha chiesto di poter avere un processo per la diffamazione continua del ministro Salvini. Il Senato ha negato l’autorizzazione.

Così siamo al punto in cui una presidente del Consiglio trascina in tribunale uno scrittore e una cittadina deve intascarsi gli insulti di un ministro salvato dai suoi senatori.

Bastardi non so ma vigliacchi di sicuro.

Buon giovedì.

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Lo chiamavano Capitan fuggiasco

Il prode Matteo Salvini di fronte ai giornalisti appena aveva saputo di essere stato denunciato da Carola Rackete, all’epoca dei fatti comandante della Sea Watch 3, la nave della Ong tedesca impegnata nel soccorso di 53 migranti nella zona Sar libica il 12 giugno 2019, aveva testualmente detto: “Non vedo l’ora di incontrarla in tribunale […] una che ha provato a uccidere militari italiani”.

Nel frattempo sono accadute un po’ di cose. Carola Rackete è stata assolta da ogni accusa perché, dice la sentenza, “ha agito nell’adempimento del dovere perché non si poteva considerare luogo sicuro il porto di Tripoli”. Anche lo “speronamento” raccontato da politici e giornalisti era una bufala. Una bufala che – tra l’altro – ieri Giorgia Meloni ha ripetuto in Parlamento, senza nemmeno un briciolo di vergogna.

Ieri il Senato ha votato per salvare Salvini dal processo che non “vedeva l’ora” di affrontare. Per i partiti di maggioranza (Italia Viva si è astenuta) i giudizi di Salvini sono “parole coperte da insindacabilità”. Sapete quali erano i “giudizi” del ministro? “Zecca tedesca“, “complice degli scafisti e trafficanti” e “sbruffoncella”.

È vero che dal leader della Lega non ci si aspettano disamine elaborate ma definire giudizi degli insulti è piuttosto ributtante, se non fosse che a farlo sono gli stessi partiti che votarono Ruby nipote di Mubarak. Capitan Coraggio alla fine è scappato. Aveva promesso di difendere sé stesso e il Paese e invece si è rivelato solo un disertore. Per di più libero di diffamare. Finché dura.

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Frontex confessa: la missione viola i diritti umani

“La sorveglianza aerea (di Frontex sul Mediterraneo) è stata messa in atto senza misure che potrebbero mitigare rischi per i diritti umani (per i migranti), per esempio attraverso il dispiegamento parallelo di asset navali”. A mettere sotto accusa l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, nota anche come Frontex, è il Forum per i diritti umani di Frontex stessa.

A mettere sotto accusa l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera è il Forum per i diritti umani di Frontex stessa

Che Nel suo X rapporto annuale sottolinea anche come “in circa il 50% dei casi, gli avvistamenti di Frontex hanno innescato operazioni di ricerca e salvataggio e/o intercettazioni da parte delle guardie costiere libiche di migranti e rifugiati provenienti da acque internazionali, portando al loro sbarco in Libia”. Tutto ciò, sottolinea il documento porta “a un aumento del numero di persone soccorse riportate in Libia, dove successivamente subiscono detenzioni arbitrarie in condizioni disumane, nonché torture, maltrattamenti e altre gravi violazioni e abusi dei diritti umani.

Nel 50% dei casi gli avvistamenti in mare si risolvono nella consegna dei migranti alle autorità libiche

Tale comportamento può anche sollevare questioni relative al diritto di asilo e al divieto di respingimento sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. È l’ennesimo atto d’accusa contro la cosiddetta Guardia costiera libica tanto cara ai governi italiani e alla quale l’esecutivo Meloni pochi giorni fa ha “regalato” altre due motovedette per poter più comodamente operare respingimenti illegali. Un’operazione di ricerca e soccorso in mare è la richiesta da tempo di tutte le organizzazioni internazionali e, nelle ultime settimane, anche del Pd di Elly Schlein. Ora lo certifica anche Frontex. Che manca per muoversi?

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