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Il dramma dei 147 migranti rivive al processo Open Arms

Non è stato un giorno come gli altri ieri all’aula bunker di Palermo per il processo Open Arms che vede imputato il ministro Matteo Salvini per i fatti relativi all’agosto del 2019, quando guidava il Viminale e la Ong spagnola con a bordo 147 migranti attese per oltre due settimane prima di potere attraccare in un porto sicuro. L’accusa è di omissione di atti d’ufficio e sequestro di persona. L’udienza era stata fissata per lo scorso 21 aprile ma gli impegni istituzionali del ministro (ora alle Infrastrutture) l’hanno fatta slittare.

Ieri il fondatore della Open Arms Camps ha deposto al processo di Palermo per sequestro di persona in cui è imputato Salvini

Non è stato un giorno qualunque perché a parlare c’era il fondatore della ong spagnola Oscar Camps. Open Arms intanto continua a essere in mare. “Per la missione numero 100 – dice Camps ai cronisti fuori dall’aula -. Continueremo a salvare vite e a denunciare le violazioni”. Ma non è un giorno normale perché da quel giorno in cui apparve disumana e grave la scelta di Matteo Salvini di lasciar bollire 147 persone alla deriva sono accaduti eventi ancor più gravi e più disumani.

C’è stata la strage di Cutro, con 94 vittime accertate e un numero impreciso di dispersi (forse 11). C’è stata l’indifferenza di Stato, c’è stata la rivittimizzazione delle vittime da parte del ministro Piantedosi, c’è stata la mancata visita alle salme della presidente del Consiglio che ha usato Cutro per un Consiglio dei ministri sventolato come spot pubblicitario. Gli impegni “improrogabili” in quel giorno in cui non s’è trovato un minuto per rendere onore alle vittime poi, abbiamo saputo, erano la festa a sorpresa per il compleanno di Matteo Salvini. Poi Cutro è diventato un decreto infame. Poi ieri in Europa s’è decieo di rendere la disumanità un affare comune.

Ma l’udienza di ieri è il ripasso di un tempo che va ricordato. Bisogna ricordare, ad esempio, che il cambio del quadro politico nel 2018 ha determinato la fine del “coordinamento tra ong e Guardia costiera italiana” che fino a quell’anno aveva permesso a Open Arms di salvare “in mare oltre 25mila persone”. Nell’udienza di ieri sono stati sentiti come testimoni Oscar Camps (fondatore di Open Arms), Inas Urrosolo Martinez De Lagos (medico a bordo della Missione 65) e Ricardo Barriuso Leoz (primo ufficiale sulla nave all’epoca dei fatti).

“Tra il 14 e il 15 agosto la nave Open Arms è entrata in acque italiane. Avevo chiamato il capitano e mi aveva detto che non potevamo entrare in acque italiane perché una unità della Guardia di finanza ce lo impediva. Io ho insistito con lui che poteva entrare, spiegando che il decreto non aveva più vigenza in quel momento e che avevano bisogno di essere accolti perché c’era cattivo tempo e la situazione a bordo era difficile: eravamo davanti a Lampedusa. Non potevamo non entrare e poi arrivò il procuratore di Agrigento Patronaggio”, ha dichiarato il fondatore di Open Arms, Oscar Camps.

Il fondatore della ong spagnola ha detto che, pur essendo a Barcellona, era in costante contatto con l’equipaggio dell’imbarcazione: “Ero al corrente delle operazioni e attraverso mail e comunicazioni informavamo le autorità di Spagna, Libia, Malta, Italia. Avevo contatti più frequenti con il capitano e il capo missione”.

Il primo soccorso è stato l’1 agosto 2019 alle 4 del pomeriggio, 55 persone, 19 uomini, 16 donne e 20 minori, con due neonati e due donne in gravidanza. “Abbiamo ricevuto poi il decreto dell’autorità di Roma che ci vietava il nostro ingresso in acque italiane. Da Barcellona sono andato a Roma il 4 agosto per vedere il team legale e dare incarico di opporsi”.

Il 7 agosto ha un incontro con l’ambasciatore tedesco a Madrid: “Abbiamo parlato e gli ho consegnato una richiesta per Angela Merkel nella quale chiedevo un intervento della Commissione europea per favorire la collaborazione e parlare dell’atto che impediva di entrare in un Paese europeo che non ritenevamo giusto né legale. L’ambasciatore ha fatto avere la richiesta alla signora Merkel che ci ha risposto che stava lavorano su questo argomento e che sarebbero intervenuti nella riunione del Parlamento europeo”.

Per il team legale “si poteva attendere una risposta positiva e attendevamo che l’Ue si determinasse a rimuovere quel decreto”. La situazione a bordo? “Le condizioni mediche erano difficili, la situazione dei bagni terribile, mancava acqua dolce e con le malattie la convivenza era difficile, più di cento le persone a bordo, con tutte le donne che erano state violentate in Libia. Molte persone si erano lanciate in acqua, diverse avevano tentato il suicidio. Tante le evacuazioni mediche per questioni psichiatriche e psicologiche”, dice.

Il primo soccorso è stato nel pomeriggio dell’1 agosto 2019: 55 persone, 19 uomini, 16 donne e 20 minori, con due neonati e due donne in gravidanza. Nel mattino del 2 agosto, 43 uomini, 16 donne e 10 minori, una donna incinta. Il 10 agosto “è stata soccorsa l’imbarcazione con 39 persone su richiesta dell’autorità di Malta dopo tanto tempo. Viene effettuato il salvataggio e Malta doveva mandare una imbarcazione per prendere queste persone, ma servivano più di sette ore e le condizioni erano pericolose, la responsabilità era del capitano: mi ha chiamato per consultarmi e li ha fatti salire a bordo. Le autorità di Malta ci hanno poi informato che potevano accogliere solo 39 persone, ma in quel momento la situazione a bordo era molto tesa”.

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Meloni e il governo influencer fatto di narrazioni e zero spiegazioni

Il segreto per governare? Occuparsi della narrazione, fregarsene delle spiegazioni. La frase è di Vitalba Azzolini con cui qualche giorno fa discutevo della narrazione (appunto) tutta sbagliata del “patto sui migranti” licenziato in Europa. Piegare la realtà alla narrazione ha, per chi gestisce il potere, molti vantaggi: permette di fingere di essere sempre “contemporaneo” alle crisi e ai problemi. Usare i decreti legge come se fossero tweet nell’enorme timeline del Paese, proprio così. Come certi influencer che hanno un’opinione su tutto e che rapidamente la confezionano per farne un post che rientri nei trend della giornata, il governo Meloni ha una risposta prêt-à-porter. I telegiornali raccontano di un rave party in una sperduta località della provincia italiana Pronto il decreto rave. Gli sfinteri si sono immediatamente chetati. Passano i mesi: è servito quel decreto? Ha avuto successo? È stato applicato? Nessuno lo sa, nessuno se ne interessa, niente di niente. Ciò che contava era confezionare un bel post in bella mostra sulle proprie bacheche social.

A Verona «Solo mele marce». E ancora una volta addio a numero identificativo per le forze dell’ordine

Ancora. La stampa si innamora di un femminicidio perché i protagonisti hanno e fattezze perfette per essere una coppia di influencer anche da omicida e da ammazzata Pronto un decreto contro i femminicidi. Da giorni i giuristi e le associazioni fanno notare che quel decreto nulla avrebbe potuto con l’assassino Alessandro Impagnatiello. Non importa. Volevate una risposta di legge che rispettasse il trend? Eccola. Ciò che conta è che il decreto stia bene con l’hashtag. A Verona dei poliziotti, probabilmente coperti da molti altri poliziotti, hanno pestato dei poveretti che hanno la colpa di essere fragili e neri? Nessun problema, ecco la reazione: «Solo mele marce». Interviene la magistratura e smentisce la prima narrazione: «Eh no, caro governo, qui si tratta di qualcosa di sistemico». Pronta la nuova narrazione. Dal governo ci dicono che l’indagine che ha scoperchiato le violenze li rende ancora più fieri della polizia italiana. Hanno ragione, dicono bene. Solo che fino all’altro ieri chi pronunciava quella stessa frase veniva accusato di disonorare le forze dell’ordine. Vai a capire. Una cosa è certa: in questo caso un decreto sarebbe stato facile, body cam e numero identificativo per le forze dell’ordine, una garanzia per i cittadini ma anche per la stragrande maggioranza delle forze dell’ordine che svolge professionalmente il proprio mestiere. Niente di niente.

Salvini, il novello Brunelleschi della giravolta

A proposito di narrazione. Il ministro Matteo Salvini da circa 10 giorni sta paragonando la costruzione del Ponte di Messina (che giurano in molti non si farà mai) alle più significative opere d’arte che rendono famosa l’Italia nel mondo. Secondo la sua narrazione, Salvini dovrebbe essere il nuovo Brunelleschi che studieranno a scuola i nostri figli. Sui dubbi di geologi e ingegneri invece nessuna risposta, nemmeno una parola. La lezione è questa: occuparsi della narrazione, fregarsene delle spiegazioni. Appunto. A proposito: il ministro Salvini era lo stesso che qualche anno fa dava del “matto” a chi voleva regolamentare le biciclette. Passa qualche anno, decide di vessare i ciclisti. Qualcuno glielo fa notare. Risposta Nessuna. Perché ciò che conta per una buona narrazione è avere la possibilità di non rispondere alle domande giuste e avere il potere di trovare camerieri che pongano le domande facili e sbagliate.

Salvini paragona il Ponte sullo Stretto alla Cupola di Brunelleschi: e quella perde i pezzi
Matteo Salvini Ponte sullo stretto cupola Brunelleschi

Meloni, la “nuova Mattei” che vuole salvare l’Africa (cioè chiudere i porti di partenza)

La narrazione dice che Giorgia Meloni improvvisamente si sia affezionata alle difficoltà e alle piccole disperazioni quotidiane che costellano il continente africano e vuole essere la nuova Mattei che si prende sulle spalle la salvezza di un pezzo di mondo. Osservate: Brunelleschi, Mattei. Per una buona narrazione superficiale è inutile spendere energie per costruire nuovi modelli. Come sui social, l’importante è trovare un nome che rimandi a un pensiero, un sapore, un profumo riconoscibile a tutti. Dicevamo, il “Siamo Mattei” di Giorgia Meloni in tutto il mondo viene raccontato come il tour tra autocrati di una presidente che aveva promesso di chiudere i porti di arrivo, non c’è riuscita e quindi vuole chiudere i porti di partenza. È così facilmente riconoscibile. Nulla di tutto questo: l’obiettivo di Giorgia Meloni, a leggere senza interpretare le parole delle note stampa e le dichiarazioni della sua maggioranza, è “salvare l’Africa”. Ma come, ma il “prima gli italiani”? Per il giornalismo sarebbe un’occasione imperdibile: opporre i fatti e i numeri alla narrazione. A quel punto la loro smania di controllo dovrebbe maturare in una capacità di governo. Pensateci, sarebbe bellissimo.

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Centri per i rimpatri. Una torta da 56 milioni in tasca ai privati

Ma chi ci guadagna dall’immigrazione? Sono 56 i milioni di euro previsti complessivamente, nel periodo 2021-2023, dagli appalti per affidare la gestione dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) ai soggetti privati. Costi da cui sono esclusi quelli relativi alla manutenzione delle strutture e del personale di polizia. “Cifre – spiega la Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) – che fanno della detenzione amministrativa una filiera molto remunerativa che, non a caso, ha attratto negli ultimi anni gli interessi economici di grandi multinazionali e cooperative. La privatizzazione della gestione è, infatti, uno degli aspetti più controversi di questa forma di detenzione senza reato e ne segna un ulteriore carattere di eccezionalità: il consentire che su quella privazione della libertà personale qualcuno possa trarne profitto”.

Dalla Coop alle multinazionali. Ecco chi guadagna con l’accoglienza dei migranti

Nel rapporto Cild “L’affare CPR. Il profitto sulla pelle delle persone migranti” grande attenzione è stata dedicata alle multinazionali Gepsa e ORS, alla società Engel s.r.l. e alle Cooperative Edeco-Ekene e Badia Grande che hanno contribuito, negli anni recenti, a fare la storia della detenzione amministrativa in Italia. “Una storia tutt’altro che nobile – spiega la Coalizione – fatta di sistematiche violazioni dei diritti delle persone detenute, con la possibilità per gli enti gestori di massimizzare in maniera illegittima i propri profitti anche a causa della totale assenza di controlli da parte delle pubbliche autorità.

Nel Rapporto, infatti, si dà ampio spazio alla denuncia delle condizioni di detenzione che rischiano di configurarsi come inumane e degradanti e alla strutturale negazione dei diritti fondamentali dei detenuti. Il diritto alla salute, alla difesa, alla libertà di corrispondenza non sono, infatti, tutelati all’interno dei Cpr: luoghi brutali che consentono ai privati di speculare sulla pelle dei reclusi, grazie anche alla totale assenza di vigilanza da parte del pubblico”.

“Da sempre questi centri – ha dichiarato Arturo Salerni (nella foto), presidente di Cild – hanno rappresentato un buco nero per l’esercizio dei diritti da parte delle persone trattenute. Essi rappresentano un buco nero anche sotto il profilo delle modalità e dell’entità della spesa, a carico dell’erario, a fronte delle gravi carenze nella gestione e delle condizioni in cui si trovano a vivere i soggetti che incappano nelle maglie della detenzione amministrativa, ovvero della privazione della libertà in assenza di qualunque ipotesi di reato. Il proposito del governo di aumentarne il numero è il frutto di scelte dettate da un approccio tutto ideologico che non trova fondamento nell’analisi del fenomeno. L’esperienza degli ultimi 25 anni, a prescindere dalla gestione pubblica o privata dei centri, ci dice che bisogna guardare a forme alternative e non coercitive per affrontare la questione delle presenze irregolari sul territorio nazionale, che bisogna accompagnare le persone in percorsi di regolarizzazione e di emersione, cancellando l’obbrobrio della detenzione senza reato”.

Il nuovo Governo Meloni ha stanziato nuovi fondi volti all’ampliamento della rete dei CPR, con l’obiettivo di assicurare che le espulsioni dei migranti avvengano più rapidamente, attraverso uno stanziamento di oltre 5,39 milioni di euro per il 2023. Inoltre, a seguito della strage di Cutro, in cui hanno perso la vita oltre 80 persone per via dei mancati soccorsi da parte dell’Italia, il nuovo decreto immigrazione adottato dal governo ha introdotto nuove forme di detenzione amministrativa per i richiedenti asilo e addirittura “la possibilità di commissariare la gestione di questi Centri e di operare in deroga al codice degli appalti, fino al 2035, per velocizzare la realizzazione di nuove strutture”.

In conferenza stampa il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha detto che l’obiettivo del Governo (e che già si era prefissato Minniti con il d.l. n.13/2017) è quello di realizzare un CPR almeno in ogni regione. Chi ci guadagna dall’immigrazione?

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La politica trasloca in masseria

Dove sono la politica e il giornalismo mentre la guerra si infiamma, mentre crolla la produzione industriale, mentre l’inflazione si mangia i salari e mentre i diritti sono sotto attacco come non accadeva d tempo? Potrebbero essere in Parlamento, discutendo – finanche litigando – sulle leggi e i loro risvolti, con i giornalisti “cani da guardia del potere” abbastanza preparati e abbastanza coraggiosi per scalfire la sicumera ridondante del potere. Ma no, non sono lì.

Il Parlamento è affossato da decreti che passano con voti di fiducia e le conferenze stampa sono senza stampa. Potrebbero essere, il giornalismo e la politica, a discuterne in un dibattito televisivo, uno di quelli veri dove si discute di fatti e non di percezioni. Ci sono le reti della televisione pubblica che hanno il dibattito politico – con tutte le voci in campo – come loro funzione. Ma no, non sono lì.

I Tg barcollano (Meloni e il centrodestra occupano fino al 70%, lo certifica l’Osservatorio di Pavia) e i politici monologano. Un giornalista (esterno) del servizio pubblico però ha invitato un pezzo di politica nella sua elegante masseria. Così Meloni e Vespa si sono attovagliati per lanciare la lussuosa masseria del giornalista nel Salento con annesso ristorante.

Il giornalista ha preferito il “suo” podere alla sua azienda. La premier ha preferito l’apericena al Parlamento. Ogni giornalismo ha la politica che si merita. E viceversa. In redazione nei giorni scorsi ci dicevamo quanto qualcuno vorrebbe isolarci. È naturale, con la nostra ossessione per i fatti, le domande e la nostra disabitudine alle masserie.

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Foti non sa cosa fanno i suoi stessi deputati

Mentre Amnesty International indica i gravi fatti di Verona (un ispettore e quattro agenti di polizia sotto indagine) come “l’ennesimo motivo per non abolire il reato di tortura” il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Tommaso Foti si espone – come spesso gli accade – per parare il colpo. “Lo Stato c’è e la Polizia di Stato ha dimostrato grandissima serietà – ha detto Foti ospite di Agorà su Rai3 -. L’indagine sui fatti di Verona la Procura la ha assegnata alla Polizia di Stato. Se vi sono alcune persone che vestendo una divisa non la onorano ci sono migliaia di persone che vestendo quella divisa la onorano”.

La proposta di legge di Vietri sul reato di tortura

Fin qui tutto bene. Il capogruppo meloniano poi si è avventurato sul reato di tortura, già al centro delle polemiche nei mesi scorsi: “Mi pare che non vi sia alcuna proposta all’esame delle Commissioni o prevista per il calendario d’Aula che voglia modificare il reato di tortura”, ha detto Foti. Peccato che siano proprio i suoi compagni di partito (prima firmataria Imma Vietri) ad avere depositato la proposta di legge assegnata in Commissione Giustizia della Camera con cui si vorrebbe di fatto abrogare gli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale che introducevano il reato. Infatti alla fine Foti non si trattiene e gli scappa una confessione: “Io penso che il reato di tortura andrebbe meglio circoscritto” ha aggiunto spiegando che lo farebbero solo per evitare “che la Cassazione debba poi continuamente correggere sentenze”. Alla fine esce sempre la vera natura.

La precisazione di Foti

Dopo la pubblicazione dell’articolo, Foti ha inviato una precisazione: “È pur vero che non è obbligatorio capire, ma tra la presentazione di una proposta di legge e l’avvio dell’iter per l’esame della stessa vi è una differenza talmente grande da non potere non essere nota all’autore dell’articolo. Nessuna scivolata su alcuna buccia di banana da parte di chi scrive: come affermato, e qui ribadito, non vi è infatti all’esame di alcuna commissione parlamentare (nella fattispecie, in primis, la giustizia) né tanto meno risulta iscritta nel calendario dei lavori dell’Aula (pubblico e, quindi, facilmente consultabile, come del resto quello delle Commissioni) alcuna proposta di legge recante abolizione o modifica del reato di tortura. Con buona pace di chi virgoletta correttamente il mio pensiero e poi lo declina in modo del tutto errato”.

Prendiamo atto della precisazione dell’onorevole Foti. E del fatto che nel gruppo parlamentare da lui presieduto ci sono evidentemente deputati che presentano proposte di legge con l’auspicio che non vengano mai discusse“.
Giulio Cavalli

Riceviamo e pubblichiamo:

Spiace che vi confermiate primatisti nel non capire, pur non essendo quest’ultimo esercizio obbligatorio. Conosco a tal punto cosa fanno i miei deputati, che so benissimo quali proposte di legge sono calendarizzate e quali no. E che delle proposte di legge presentate ne vengano discusse alcune e approvate meno non lo dico io ma basterebbe consultare qualche report che la Camera periodicamente pubblicizza. Forse l’unico che scrive non sapendo ciò è chi invece pensa di saper tutto. Forse un ritorno al socratico “so di non sapere” sarebbe salutare al Vostro poco ironico giornalista“.
Tommaso Foti

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Le decisioni, tutte sbagliate, nel patto Ue

Che ha deciso il Consiglio Affari interni a Lussemburgo? Ricapitoliamo.

Resta in vigore il regolamento Dublino e la responsabilità dei migranti dello Stato di primo arrivo per 24 mesi. Poiché la solidarietà nell’Unione europea non è un movimento naturale, non è qualcosa che abbia a che fare con l’etica e con la propria coscienza, si è provato a renderla obbligatoria. Figurarsi. Nell’Ue c’è la libera circolazione di soldi e di merci, c’è la colletta per la bacinella di armi, ma i neri sporchi e cattivi non riescono a tirare i fili di quella che vorrebbe essere una comunità. E quindi? Quindi chi sgarra paga, semplicemente. 20mila euro e la pratica è chiusa.

L’Unione europea lascia agli Stati membri la scelta di ritenere o no un porto sicuro. Proprio così. L’Unione europea è disunita quando c’è da decidere se un’autocrazia è una democrazia. Un regalo impacchettato per i sovranismi di casa nostra. Così potremo goderci scene come quella che abbiamo visto ieri grazie alla denuncia di Medici senza frontiere: la cosiddetta Guardia costiera libica che opera un respingimento illegale bruciando in mare aperto un barchino e accalappiando una cinquantina di disperati riportati nei lager libici.

Rimane l’illusione dei rimpatri. L’Italia avrebbe voluto appaltare anche gli Stati di rimpatrio con la possibilità di un Paese “terzo”. Tu violentato e perseguitato in Nigeria scappi per sopravvivere, vieni stuprato e derubato in Libia, arrivi in Italia e quelli non hanno nemmeno il fastidio di riportarti in Nigeria ma ti possono paracadutare su un Paese africano a caso e sono a posto così. La brillante idea è passata a metà. In compenso poiché i rimpatri non accelereranno alla fine l’Italia si ritroverà ancora più ingolfata così i partiti che leccano la xenofobia potranno guadagnare voti sulle scelte sbagliate prese con il loro concorso.

Una narrazione disumana che poi si scontrerà con la realtà. A proposito di narrazione distorta: ricordate la manfrina dei “migranti economici” ovvero la teoria per cui se sei povero non hai il diritto di cercare dignità (anche) economica. Che sia una cagata pazzesca (citazione cinematografica) l’ha sancito la Corte di Cassazione italiana: “Via libera alla protezione umanitaria al migrante economico, se la povertà al suo paese è tale da ledere la dignità. Partendo dal presupposto che la povertà estrema sia una buona ragione per offrire lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria o umanitaria, la Cassazione ha respinto il ricorso del ministero dell’Interno, contro la decisione della Corte d’Appello che, contrariamente al Tribunale, aveva concesso a un cittadino extracomunitario il permesso di soggiorno”. Sapete chi ha dato risalto alla notizia Il Sole 24 Ore, qui. C’è confusione sotto al cielo.

Buon venerdì.

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Accordicchio Ue sui migranti. Un altro flop del governo Meloni

Tre anni fa, eravamo nel settembre del 2020, Ursula von der Leyen presentò una bozza di un nuovo “patto sulle migrazioni” che avrebbe dovuto “azzerare Dublino”. Nelle intenzioni avrebbe dovuto alleggerire la penalizzazione dei Paesi di primo approdo dei migranti (di cui l’Italia è interprete principale nel Mediterraneo). Ieri a Lussemburgo il Consiglio Affari interni ha provato a tirare le file di quello che la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson, ha definito “una proposta equilibrata sul tavolo, con molto sostegno”. L’orientamento è sempre lo stesso: rafforzare i meccanismi di respingimento dei migranti, esternalizzare le frontiere, minando di fatto il diritto di asilo.

Al Consiglio Affari interni del Lussemburgo Piantedosi prima si oppone e poi accetta l’intesa al ribasso sui migranti

Il patto si sviluppa su due piani principali: la definizione di nuove politiche comuni di controllo delle frontiere europee, che potrebbero prevedere anche la detenzione di minori negli hotspot Ue, sul modello greco e il raggiungimento di un meccanismo europeo di ricollocamento dei richiedenti asilo, per cui agli Stati è data la possibilità di non accettare migranti ricollocati dai paesi di primo ingresso, pagando una quota per ogni persona non accolta.

“Entrambe sono proposte che non risolveranno in alcun modo le croniche carenze del sistema di asilo europeo – ha sottolineato Giulia Capitani, policy advisor di Oxfam Italia su migrazione e asilo – Al contrario esprimono chiaramente l’obiettivo di blindare l’Europa. Quanto poi alla proposta in discussione per il controllo delle frontiere, siamo di fronte a nient’altro che all’esatta copia del modello disumano e fallimentare applicato fino ad oggi nelle isole greche, che finirà solo per rinchiudere altri rifugiati, bambini compresi, in centri simili a prigioni, negando il loro fondamentale diritto di asilo nel territorio dell’Unione”.

Per Oxfam “stiamo assistendo anche al tentativo degli Stati Ue di aumentare le pressioni sui Paesi terzi, ad esempio in nord Africa, a cui affidare il controllo delle frontiere – aggiunge Capitani –. Un sistema che come nel caso dell’accordo Italia-Libia, non solo non blocca gli arrivi (da gennaio ad oggi sono oltre 51.000), ma perpetua la violazione dei diritti umani fondamentali delle persone, comprese donne e minori, detenute nei lager libici e vittime di torture e soprusi indicibili”. Come spiega Matteo Villa di ISPI la cosa che sembra interessare di più all’Italia è la riforma delle “regole Dublino”.

L’Italia si impegna – spiega Villa – a continuare a ricevere la gran parte delle domande d’asilo, ma solo se gli altri Paesi europei ci danno una mano, “prendendosi” i richiedenti in caso di alti arrivi. Solo che nonostante la narrazione l’Italia continua a accogliere e proteggere molte meno persone della media Ue perché se ne vanno dal nostro territorio e nonostante le regole Dublino non vengono rimandati indietro. ISPI stima su 700mila stranieri sbarcati in Italia e usciti in Paesi Ue solo 35mila (il 5%) sia stato rimandato in Italia come prevederebbero le regole. Ciò accade perché i migranti non fanno domanda d’asilo, non dichiarano il loro Paese d’ingresso oppure sono intercettati dopo i 12 mesi previsti dalle norme. “Insomma, noi italiani adesso all’Europa stiamo chiedendo solidarietà sulla redistribuzione, ma in realtà non ci serve – spiega Villa -. Ci servirebbe una mano sulla prima accoglienza, che costa. Dunque soldi, non trasferimenti.”

L’intensificazione nelle identificazioni voluta dall’Ue renderà più facile determinare il Paese d’ingresso (quindi l’Italia che se ne dovrebbe fare carico) mentre le procedure più rapide senza velocizzare i rimpatri renderanno più rapido il “parcheggio” degli stranieri irregolari. Paradossalmente, l’Italia avrebbe dovuto preferire una fumata nera. Alla fine arriva l’accordo, ma passa il principio della solidarietà obbligatoria anziché dei ricollocamenti obbligatori come volevano Meloni e Piantedosi per l’Italia. Di doveri umanitari, ovviamente nemmeno l’ombra.

 

Leggi anche: Stallo su indennizzi e commissario. Giochi di palazzo sugli alluvionati. I sindaci emiliani sollecitano i soldi promessi dal governo. Che intanto litiga per l’incarico reclamato pure da Bonaccini

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Emilia-Romagna, stallo su indennizzi e commissario

È trascorso quasi un mese dall’alluvione in Emilia-Romagna che ha coinvolto 44 comuni, ha fatto straripare 23 corsi d’acqua e ha provocato 250 dissesti e frane. Quasi un mese da quando il governo, con Giorgia Meloni svelta a rientrare da una sua missione all’estero, ha promesso davanti alle telecamere 2,2 miliardi di euro e un commissario. “Prima si fa e meglio è” disse lesto Matteo Salvini. Sull’esigenza di fare presto erano d’accordo tutti, da destra a sinistra. Avere un commissario significa avere una cabina di comando dotata dei poteri necessari per accelerare la ricostruzione e per rimettere in sesto il tessuto produttivo e sociale.

Giochi di palazzo sugli alluvionati dell’Emilia-Romagna. I sindaci sollecitano i soldi promessi dal governo. Che intanto litiga per l’incarico reclamato pure da Bonaccini

Com’è andata Di commissari per ora nemmeno l’ombra. Mentre i romagnoli ripuliscono i negozi, le fabbriche e le case sulla schiena delle loro sofferenze si gioca un’abietta sfida politica all’interno della maggioranza. Cinismo in purezza: a Palazzo Chigi non si corre per decidere chi potrebbe occuparsi rapidamente e seriamente del bene collettivo ma si tentenna avviluppandosi in meri calcoli elettorali. Il primo nome venuto in mente a tutti, quando l’emergenza era davvero il punto focale, inevitabilmente è stato quello di Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia Romagna e inevitabile conoscitore delle dinamiche della regione che governa per il secondo mandato consecutivo.

No, niente, troppo facile. Pur di non fare un piacere all’odiata opposizione la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha preferito lasciare i romagnoli in ammollo mentre il suo partito non è ancora in grado di convergere su un unico nome. Fratelli d’Italia infatti al momento è diviso tra il viceministro alle Infrastrutture Galeazzo Bignami (balzato all’onore delle cronache per essersi travestito da nazista durante una “festa”) e il senatore bolognese Lisei. Solo che la leader di Fratelli d’Italia, nonché presidente del Consiglio, Giorgia Meloni preferirebbe di gran lunga il generale Francesco Paolo Figliuolo.

Qui la trama si inspessisce: il generale, lo dicono tutti quelli che gli sono vicini, punterebbe a raggiungere una posizione di vertice nell’Esercito e poi nella Difesa. Una sua eventuale nomina a commissario straordinario per l’alluvione frenerebbe la sua aspirazione, anche per motivi d’età. A questo punto il sospetto è che chi spinge per Figliuolo (le voci dicono che sia il ministro Crosetto) più o meno consapevolmente gli stia facendo un enorme dispetto. Nella Lega il nome in pole rimane il viceministro Nicola Molteni. Il piano di Salvini è quello di recuperare la visibilità con cui riprovare il colpaccio di strappare la regione alle prossime elezioni regionali. Tanto più che su Bonaccini si rincorrono voci di una candidatura alle prossime Europee che manderebbero la Regione Emilia Romagna al voto anticipato.

Due giorni fa Meloni ha annunciato a sindaci, presidenti di Regione e di Province colpite dall’alluvione “un tavolo operativo e permanente che, in attesa della definizione della struttura commissariale, sarà coordinato all’interno del governo dal ministro Musumeci”. Michele de Pascale, Presidente della Provincia di Ravenna, Enzo Lattuca sindaco e presidente della Provincia di Forlì-Cesena, Matteo Lepore sindaco di Bologna, Jamil Sadegholvaad Presidente della Provincia di Rimini e Gian Luca Zattini sindaco di Forlì hanno presentato al tavolo una lettera con due richieste: un impegno preciso del governo sugli indennizzi (i soldi previsti sono molto meno dei soldi promessi) e “la nomina immediata del Commissario alla ricostruzione, valorizzando la filiera istituzionale e facendo perno sulla Regione Emilia-Romagna, esattamente come avvenuto per il terremoto del 2012”. Il cinismo continua.

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Migranti un tot al chilo

Ieri i ministri dei Paesi membri dell’Unione europea hanno trascorso l’intera giornata a discutere di come disfarsi di questi fastidiosi disperati, per di più neri, che si permettono il lusso di sperare di scappare dalla disperazione. Si è trattato di serrato confronto travestito da diplomazia che ha cercato, ad esempio, di dare un prezzo ai migranti non accolti.

Proprio così: uomini che vengono venduti come schiavi nei Paesi da cui scappano si ritrovano a essere quotati in Europa. Non vanno al chilo, no. I leader europei hanno fissato un prezzo che consenta di fottersene del diritto universale di essere accolto e salvato. Con ventimila euro si può lasciare il fastidioso disperato al Paese vicino o a quello in cui è entrato in Europa (via mare è l’Italia).

Con qualche migliaio di euro si acquista il diritto di subappaltare la disumanità. Non è molto diversa dalla strategia della presidente Giorgia Meloni che s’affanna per appaltare alle peggiori autarchie il compito di fare da tappo. Gli “aiuti” agli Stati da cui partono sono il modo elegante per non dover dire che, poiché non sono riusciti a chiudere i porti d’arrivo (non è legale e non è fattibile), ora provano a chiudere i porti di partenza. Non ci riusciranno.

E il “patto” europeo non risolverà nulla. Anzi se passerà così com’è metterà ancora più in difficoltà l’Italia. Chemmsidine, un pescatore tunisino, un giorno mi disse: “Vi illudete di fermare le persone che scappano dalla fame e dal piombo senza fermare la fame e il piombo”. L’Ue matrigna non ha imparato la lezione.

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Lezione alle destre dal questore di Verona

Nemmeno la Polizia segue la destra sulla loro visione distorta della polizia. Chissà se Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Ignazio La Russa hanno avuto un minuto per leggere le parole che il questore di Verona Roberto Masucci (nella foto) ha pronunciato nella sua intervista a Repubblica nell’edizione di ieri. Chissà se le ha lette il sindaco di Pescate, vicino a Lecco, che appena ha saputo degli agenti della polizia locale di Milano sono stati denunciati per tortura e sottoposti a procedimenti disciplinari ci ha fatto sapere di volerli assumere nel suo comune perché la sicurezza dalle sue parti “non è un optional ma una certezza”.

Il Questore di Verona Masucci ha guidato le indagini sulle violenze dei colleghi. Senza fare sconti: “La divisa va indossata con onore”

“Non possiamo coprire gli abusi, la divisa della polizia va indossata con onore”, spiega il questore di Verona che coordina i poliziotti che hanno indagato sulle violenze e i soprusi dei loro stessi colleghi del Nucleo Volanti che picchiavano persone fermate per strada, ne hanno trascinato uno sulla sua urina e sono accusati di tortura, lesioni aggravate, peculato, rifiuto ed omissione di atti di ufficio e, infine, falso ideologico in atto pubblico. Masucci chiarisce un punto che sembra sfuggire a molti componenti della maggioranza e del governo: “La Polizia di Stato non è disponibile a coprire alcun abuso, a maggior ragione quando sono commessi da chi, come noi, dedica la propria vita a difendere i cittadini”.

Indagare gli eventuali abusi della polizia è compito della polizia. Chissà se il presidente del Senato La Russa ha capito il senso delle parole del questore di Verona: dice di “sperare che i cinque poliziotti possano dimostrare la loro innocenza” dimostrando di non avere capito che il compito delle forze dell’ordine non è garantire l’assoluzione dei propri membri, ma la giustizia a tutti i cittadini. E per il bene di tutti i cittadini, gli italiani che La Russa dovrebbe rappresentare, l’augurio dovrebbe essere che vengano puniti i colpevoli se colpevoli e vengano assolti gli innocenti se innocenti. Senza i corporativismi che offuscano la destra ogni volta che si parla di carabinieri, esercito o polizia.

“Sono parole molto simili a quelle che fece 13 anni fa quando morì mio fratello. Sono parole – dice la senatrice di Alleanza Verdi-Sinistra, Ilaria Cucchi – che mi fanno riflettere, anzi che mi fanno arrabbiare. Io mi auguro che le dichiarazioni che sto ascoltando da parte di rappresentanti della destra non siano volte a tentare di condizionare il lavoro della magistratura. Che la giustizia faccia il suo corso”. Perfino il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, senza troppi fronzoli ha ammesso che “le vicende che emergono dall’inchiesta di Verona, ove fossero confermate, sarebbero di enorme gravità, lesive innanzitutto della dignità delle vittime ma anche dell’onore e della reputazione di migliaia di donne e uomini della Polizia di Stato che quotidianamente svolgono il proprio servizio ai cittadini con dedizione e sacrificio”.

Piacevolmente stupita da magistratura e forze dell’ordine è anche Patrizia Moretti, madre di quel Federico Aldrovrandi ammazzato di botte dalla polizia: “Di insabbiamenti – dice all’Ansa – ne abbiamo visti troppi, ormai ci rendiamo conto che il problema è sistemico. Il discorso delle mele marce è tramontato da un pezzo e tutte le rassicurazioni ricevute, da diversi livelli istituzionali, non hanno impedito che queste cose si ripetano: il problema esiste e va risolto dall’interno, speriamo che succeda. Se vicende come queste emergono e si fa un’indagine per approfondire è una buona cosa”. Chissà se certa destra si è accorta di essere rimasta sola.

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