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Ius Scholae e altre illusioni: viaggio nel Parlamento dei Ddl fantasma

Mentre l’estate italiana si tingeva d’oro grazie alle imprese olimpiche di atleti di seconda generazione, il dibattito sulla cittadinanza tornava prepotentemente alla ribalta. Antonio Tajani, leader di Forza Italia, dichiarava con enfasi l’8 settembre: “Guai se abbiamo paura di concedere diritti meritati: saremmo un centrodestra oscurantista che non si rende conto dei cambiamenti della società”. Parole al vento, come spesso accade dalle parti degli ex berlusconiani fortissimi con i propositi e molto meno nelle azioni. 

Lo ius scholae, cavallo di battaglia estivo di Tajani, in fondo è solo l’ennesimo miraggio legislativo in un Parlamento che sembra aver smarrito la sua funzione primaria. Un’analisi approfondita condotta da Openpolis rivela un quadro desolante: su 2.900 proposte di legge presentate dall’inizio della legislatura al 2 settembre 2024, solo 144 (il 5%) hanno visto la luce. Il resto sono polvere nei cassetti di Montecitorio e Palazzo Madama.

Non solo Ius scholae, la fabbrica dei Ddl fantasma: un Parlamento di carta

Lo ius scholae non è solo. È in ottima compagnia nella terra dei Ddl fantasma, quel limbo legislativo utile per un comunicato stampa. Ben 2.143 proposte non hanno ancora mosso un passo nel loro iter parlamentare. Il 95% di queste sono di iniziativa parlamentare.

Il gioco è fin troppo chiaro: i parlamentari presentano Ddl sapendo perfettamente che non vedranno mai la luce del dibattito in aula. Un esercizio di stile, un modo per marcare il territorio ideologico, per strizzare l’occhio all’elettorato. Di sostanza poca, pochissima.I numeri parlano chiaro: solo l’1,34% delle proposte di iniziativa parlamentare è diventato legge. Un dato che fa riflettere sulla reale capacità del Parlamento di incidere sull’agenda legislativa del Paese.

Governo vs Parlamento: una partita impari

E il governo? Ah, il governo se la ride. Le sue proposte hanno la corsia preferenziale: il 59% dei Ddl governativi è già legge, contro il misero 1,34% di quelli parlamentari. Una sproporzione che grida vendetta e che racconta di un Parlamento sempre più marginale, ridotto a camera di ratifica delle decisioni dell’esecutivo.

Attualmente giacciono in Parlamento 31 proposte di legge sulla cittadinanza: 25 del centrosinistra, 6 della maggioranza. Quattro hanno iniziato la discussione in commissione, ma si tratta di dettagli marginali. Il resto è fermo al palo, come la proposta di Azione bocciata recentemente dall’aula di Montecitorio.

Non è solo la cittadinanza a essere ostaggio di questa paralisi legislativa. Il fine vita, la giustizia, la sicurezza, i diritti dei lavoratori, la tutela delle persone con disabilità: tutti temi cruciali impantanati nelle sabbie mobili della burocrazia parlamentare. E poi ci sono le proposte “esotiche”: dall’albo dei sindaci emeriti alla giornata nazionale del panettone, fino al divieto di insegnamento delle “teorie del gender”. Folklore parlamentare che difficilmente vedrà la luce.

I tempi di approvazione raccontano un’altra storia di disparità. Le leggi di iniziativa governativa volano: 43 proposte approvate in meno di 60 giorni, con picchi di efficienza come i 9 giorni per il decreto agricoltura o i 30 per la legge di bilancio 2023. Le proposte parlamentari? Una media di 290 giorni per vedere la luce, quando va bene.

Il Parlamento che avrebbe dovuto essere il cuore pulsante della democrazia rappresentativa sembra aver perso i battiti. Si è ridotto a mero palcoscenico per dichiarazioni roboanti e promesse vuote mentre il vero potere legislativo si è spostato altrove. Lo Ius scholae di Tajani è solo l’ultimo esempio di questa triste parabola.

“Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per quindici minuti”, era la visionaria affermazione di Andy Warhol nel lontano 1968. Oggi qualcuno per quindici minuti può anche depositare un disegno di legge in Parlamento. 

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Gazebata pro Salvini. E riparte lo scontro coi pm

“Non c’è alcuna volontà di acutizzare uno scontro con la magistratura”, spiegava nei giorni scorsi al termine del consiglio federale la senatrice leghista Giulia Bongiorno. A proposito del processo a suo carico per la vicenda Open Arms l’altro ieri Libero titolava “Salvini smorza i toni contro i magistrati”. Verrebbe da pensare che finalmente il leader della Lega – su spinta decisa della presidente del Consiglio Giorgia Meloni – si sia convinto che il berlusconissimo scontro continuo con la magistratura è un veleno inopportuno. La separazione dei poteri del resto nel diritto, è uno dei principi giuridici fondamentali dello Stato di diritto e della democrazia liberale.

Sembrerebbe un lieto fine se non fosse che ieri il deputato della Lega Fabrizio Cecchetti, coordinatore regionale lombardo del partito ha annunciato “banchetti e gazebo in Lombardia per sostegno a Salvini”, in una sorta di quarto grado giudizio – quello di piazza – che contraddice i buoni propositi. “Nei prossimi due fine settimana la Lega sarà nelle piazze della Lombardia per due ‘gazebate’ consecutive, con centinaia tra banchetti e gazebo, per permettere ai cittadini di firmare a sostegno dell’azione politica del nostro movimento e del nostro segretario e ribadire che la difesa dei nostri confini nazionali non è un reato”, spiega Cecchetti.

Così gli elettori leghisti più infoiati potranno illudersi di poter scrivere una legge che consenta di violare le leggi semplicemente appoggiandosi su un banchetto con vista Duomo e dandosi di gomito con i propri compagni di partito. A quel punto – è già scontato – il ministro Salvini confezionerà un altro bel video da sparare sui social per dirci che non c’è nessuno scontro con i magistrati. Lui ce l’ha solo con quelli che lo devono giudicare, tutti gli altri non gli arrecano nessun disturbo.

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Migranti, inchiesta shock del Guardian: orrori e abusi dietro il “modello” Italia-Ue

Il calo degli sbarchi sulle coste italiane nasconde una realtà brutale e scioccante. Un’inchiesta del Guardian, pubblicata il 19 settembre 2024, apre gli occhi su un sistema di abusi e violenze che si cela dietro le quinte della gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo. Il reportage rivela l’ennesimo quadro inquietante di violazioni dei diritti umani perpetrate da forze di sicurezza tunisine finanziate dall’Unione Europea, Italia in testa.

Mentre alcuni leader europei guardano al governo italiano come a un modello da seguire per la riduzione degli arrivi via mare, le testimonianze raccolte dal Guardian raccontano l’irraccontabile. Aisha, nome di fantasia usato per proteggere l’identità di una giovane migrante intervistata, descrive un’esperienza terrificante con le forze di sicurezza tunisine dopo un viaggio estenuante attraverso il deserto.

Testimonianze dall’inferno: le voci dei sopravvissuti

“Eravamo esausti, disidratati, quando ci hanno intercettato”, racconta Aisha, la voce rotta dall’emozione. “Ci hanno separato, uomini e donne. Poi… poi sono iniziati gli abusi”. Con gli occhi pieni di lacrime, continua: “Ci hanno spogliato, picchiato. Alcune di noi sono state violentate ripetutamente. Gridavamo, supplicavamo, ma loro ridevano. Dicevano che era il prezzo da pagare per voler raggiungere l’Europa”. Aisha abbassa lo sguardo, tremando visibilmente. “Ho visto una mia amica morire davanti ai miei occhi. Non le hanno dato acqua per giorni. Quando ha perso i sensi, l’hanno semplicemente gettata fuori dal centro di detenzione come spazzatura”.

Il reportage del Guardian documenta una serie di abusi sistematici. Ahmed, un giovane migrante subsahariano, racconta di essere stato picchiato ripetutamente con manganelli e bastoni da agenti tunisini. “Mi hanno colpito sulle gambe, sulla schiena, ovunque potessero”, dice con voce tremante. “Pensavo che mi avrebbero ucciso”.

Ancora più inquietante è la testimonianza di Fatima, una donna che ha subito violenze sessuali durante la sua detenzione. “Mi hanno presa di notte”, sussurra, gli occhi pieni di lacrime. “Non posso dimenticare quello che mi hanno fatto. Nessuno merita di essere trattato così”.

Il Guardian riporta anche casi di migranti abbandonati nel deserto, lasciati a morire di sete e di stenti. Mohammed, sopravvissuto a questa terribile esperienza, racconta: “Ci hanno caricati su dei camion e portati nel mezzo del nulla. Ci hanno detto di camminare verso il confine. Molti non ce l’hanno fatta”.

L’inchiesta rivela inoltre una scioccante collusione tra alcune forze dell’ordine e i trafficanti di esseri umani. Anche questa non è una novità, il modello libico ormai sta facendo scuola. Un migrante, che ha chiesto di rimanere anonimo, afferma: “Gli stessi agenti che ci arrestano di giorno, di notte lavorano con i trafficanti. È un business per loro”.

Il prezzo del ‘successo’: complicità e responsabilità europee

La situazione in Tunisia non è un caso isolato, ma si inserisce in un contesto più ampio di esternalizzazione dei controlli migratori. L’Italia, come altri paesi europei, ha cercato di ridurre gli arrivi stipulando accordi con paesi terzi per il contenimento dei flussi migratori. Tuttavia tali politiche si traducono spesso in gravi violazioni dei diritti umani, lontano dagli occhi dell’opinione pubblica europea.

Il reportage del Guardian sta attirando l’attenzione della comunità internazionale sulle responsabilità dell’Italia e dell’Ue in questo contesto. È significativo notare come sia la stampa estera a portare alla luce queste problematiche mentre in Italia il dibattito su questi aspetti della politica migratoria rimane sorprendentemente limitato.

Le voci di Aisha, Ahmed, Fatima e degli altri migranti intervistati dal Guardian raccontano una storia di sofferenza e disperazione che contrasta nettamente con le fredde statistiche sulla riduzione degli sbarchi. Il nostro governo esulta. Altri inorridiscono.

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Quando Salvini sembra la voce della ragione, capisci che è davvero un disastro

Con i cittadini rinchiusi ai piani superiori di case mezze sott’acqua il ministro il ministro della Protezione civile Nello Musumeci ha pensato che potesse essere utile imbracciare il microfono per accusare la Regione Emilia Romagna che secondo lui «ha avuto assegnati 595 milioni dai governi. Se la Regione potesse fare lo sforzo – ha detto Musumeci – di farci sapere quanto è stato speso e ci facesse la cortesia di dirci quali sono ancora i territori più vulnerabili potremmo programmare ulteriori interventi». 

Qualche minuto prima era intervenuto anche il viceministro alle Infrastrutture Galeazzo Bignami (sì, quello apparso in foto travestito da nazista) per dire che «la situazione in Romagna è ancora una volta determinata da amministratori incapaci. E invece che stare zitti attaccano il governo e il commissario Figliuolo. Se avessero dignità se ne andrebbero». 

Mentre gli abitanti di quelle zone fanno i conti dei danni che non hanno nemmeno avuto il tempo di ripristinare dall’ultima alluvione da Fratelli d’Italia quindi partono accuse all’opposizione ma anche ai compagni di governo, come quando Musumeci accusa il suo collega ministro all’Ambiente Pichetto Fratin di tenere «fermo da cinque mesi nelle strutture del ministero il piano nazionale sul dissesto idrogeologico». 

Nella furia della speculazione politica e del vittimismo ex ante a cui ormai il partito di Giorgia Meloni ci ha abituati risulta quasi commestibile il ministro Salvini che dice «non c’è neanche mezzo minuto da dedicare alla conta dei danni, si sta lavorando per evacuare, salvare e mettere in sicurezza». E questo è tutto dire.

Buon venerdì. 

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Liste d’attesa in Sanità: solo 6 regioni su 21 giocano a carte scoperte

Il labirinto delle liste d’attesa nella sanità italiana si fa sempre più intricato, come rivela l’ultimo rapporto della Fondazione Gimbe presentato oggi 19 settembre 2024 al Forum Mediterraneo in Sanità di Bari. L’analisi, che scrutina la trasparenza dei siti web regionali e l’accessibilità dei portali di prenotazione, dipinge un quadro a tinte fosche del nostro Servizio Sanitario Nazionale.

Solo 6 regioni su 21 – Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Puglia, Umbria e Veneto – forniscono informazioni complete e trasparenti sui propri siti web riguardo i tempi d’attesa per le prestazioni sanitarie ambulatoriali. Queste (virtuose) offrono sia dati aggregati regionali che dettagli sulle singole aziende sanitarie, un livello di granularità essenziale per i cittadini in cerca di cure tempestive.

La Puglia emerge come un faro solitario nel Sud Italia, unica a raggiungere questo standard di trasparenza in un’area geografica tradizionalmente in affanno sul fronte sanitario. Un dato che solleva interrogativi sulla disparità territoriale nell’accesso alle informazioni, riflesso di un divario più ampio nella qualità dei servizi offerti.

Il mosaico della trasparenza: una mappa dell’Italia a macchia di leopardo

Il quadro si fa ancora più fosco quando si scorre l’elenco delle regioni escluse dall’analisi. Basilicata, Campania e Lombardia non dispongono nemmeno di un portale unico con i dati del monitoraggio ex-ante, rimandando ai siti delle singole Aziende sanitarie in un gioco di rimbalzi che disorienta il cittadino. Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Provincia autonoma di Trento e Sicilia si sono fermate al 31 dicembre 2023, come se il tempo si fosse cristallizzato, fornendo dati ormai obsoleti e potenzialmente fuorvianti.

L’analisi Gimbe ha valutato diversi parametri chiave: la visualizzazione dei dati (a livello regionale e/o per singole Aziende sanitarie), il numero di prestazioni monitorate, il tempo di attesa medio, la percentuale di rispetto dei tempi previsti per ciascuna classe di priorità, e la possibilità di confrontare le performance tra Aziende sanitarie. Criteri che, se soddisfatti, permetterebbero ai cittadini di navigare con consapevolezza nel mare magnum delle prestazioni sanitarie.

Emergono differenze significative anche tra le regioni che offrono qualche forma di trasparenza. Calabria, Piemonte e Toscana riportano i dati solo per le singole Aziende sanitarie, senza fornire una visione d’insieme regionale. All’opposto, Marche e Sardegna presentano solo dati aggregati regionali, oscurando le potenziali disparità tra le diverse strutture sanitarie locali.

L’odissea digitale: quando prenotare diventa un’impresa

Le modalità di accesso ai portali di prenotazione costituiscono un altro capitolo di questa odissea digitale. Ben 11 regioni richiedono SPID o CIE, alzando una barriera tecnologica non indifferente per fasce significative della popolazione, specialmente anziani e soggetti meno digitalizzati. Cinque regioni optano per il binomio codice fiscale e tessera sanitaria, mentre Basilicata, Friuli Venezia Giulia e Provincia Autonoma di Trento, in un lampo di pragmatismo, consentono la consultazione dei tempi d’attesa senza necessità di autenticazione. Il Molise, in splendida solitudine, offre solo un’app per smartphone, come se tutti i cittadini fossero nativi digitali, ignorando le esigenze di chi non possiede o non sa utilizzare dispositivi mobili.

Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe, non usa mezzi termini: i tempi d’attesa sono “il sintomo più grave ed evidente della crisi organizzativa e professionale del SSN”. Un sintomo che si traduce in disagi concreti per i pazienti, peggioramento degli esiti di salute e aumento della spesa sanitaria privata. In altre parole, chi può paga, chi non può aspetta. O, peggio, rinuncia alle cure, con conseguenze potenzialmente devastanti sulla salute pubblica e sull’equità del sistema sanitario.

Il recente Decreto Legge sulle liste d’attesa ha previsto l’istituzione di una Piattaforma Nazionale presso l’Agenas per monitorare in modo rigoroso, analitico e uniforme i tempi di attesa in tutte le Regioni italiane. Un passo avanti sulla carta, ma Gimbe sottolinea come la sua realizzazione dipenda strettamente dall’eterogeneità e dalla trasparenza delle piattaforme regionali. In altre parole, se alla base i dati sono lacunosi o assenti, anche la piattaforma nazionale rischia di essere un guscio vuoto, incapace di offrire una visione realmente completa e comparativa della situazione a livello nazionale.

L’obiettivo dichiarato dell’analisi Gimbe non è creare una “classifica” tra le Regioni, ma identificare le aree di miglioramento dei portali web regionali. Tuttavia, i numeri parlano chiaro e raccontano di un’Italia a due velocità, dove la trasparenza sembra essere un concetto aleatorio, applicato in modo disomogeneo e spesso insufficiente.

In questo scenario la trasparenza non è solo una questione di numeri e dati. È il presupposto fondamentale per un rapporto di fiducia tra cittadini e servizio sanitario. È la condizione sine qua non per garantire un accesso equo e informato alle cure, permettendo ai pazienti di fare scelte consapevoli e di esercitare il proprio diritto alla salute in modo effettivo.

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Storia di un’Italia divisa, pure nelle cure ai bambini

Ieri mi sono imbattuto in una piccola ma significativa storia riportata dal giornalista Giovanni Rodriquez, che da sempre si occupa di sanità. 

Scrive Giovanni che il Nirsevimab-Beyfortus, un anticorpo monoclonale che protegge i neonati dal virus respiratorio sinciziale, sarà fornito gratuitamente solo nelle regioni non in piano di rientro e non utilizzando risorse del Fondo sanitario nazionale. Di contro, nel Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Puglia e Sicilia saranno i cittadini a dover acquistare di tasca loro il farmaco classificato in Classe C. 

Mentre Spagna e Germania hanno introdotto una prevenzione universale già dal 2023, noi ci culliamo nell’idea che la salute sia un diritto, ma solo se nasci dalla parte giusta dello Stivale. Parliamo di un farmaco che riduce del 77% le ospedalizzazioni e dell’86% i ricoveri in terapia intensiva ed è diventato un lusso che evidentemente non possiamo permetterci per tutti.

Le società di neonatologia gridano al pericolo dal 2023 ma sono rimaste inascoltate. Il Ministero della Salute ha avuto il coraggio di dire che “Aifa ha concordato con la richiesta dell’azienda di classificare il monoclonale in fascia C”. Ora evidentemente seguiamo le indicazioni delle aziende farmaceutiche per decidere chi ha diritto alla salute.

Solo ieri, di fronte alle polemiche, il Ministero si è svegliato e parla di riclassificazione in fascia A. Troppo tardi, troppo poco. Mentre loro “lavoravano”, i bambini rischiavano. Dal 2023 abbiamo risparmiato qualche euro a scapito della salute dei più piccoli.

E questo è tutto quello che c’è da dire sulla chiave di lettura della sanità come merce, come costo, come ingaggio commerciale. 

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Commissione Ue: per portare a casa la nomina di Fitto, FdI distorce i fatti su Gentiloni

“Noi ci aspettiamo dal Pd lo stesso atteggiamento che nel 2019 Fratelli d’Italia ha avuto nei confronti di Paolo Gentiloni. E quindi mi auguro che vogliano, e possano, convincere la propria famiglia politica, i Socialisti, a promuovere Fitto in audizione. Se così non fosse, sarebbe un’occasione persa per l’Italia”. Le parole di Carlo Fidanza, capodelegazione di Fratelli d’Italia a Bruxelles fanno il paio con quelle della presidente del Consiglio Giorgia Meloni che a Cinque minuti su Rai1 il 17 settembre ha detto: “Raffaele Fitto, esponente al Parlamento europeo di Fratelli d’Italia, all’opposizione dell’allora governo di centrosinistra, votò Paolo Gentiloni”. Ma è vero? Ovviamente no.

La destra italiana sembra avere la memoria corta. O forse, più probabilmente, spera che siano gli elettori ad averla. Perché la realtà dei fatti, come ricostruito da Pagella Politica, racconta una storia ben diversa da quella che Meloni e compagni stanno cercando di vendere.

La realtà dei fatti: da Fitto a Gentiloni, un viaggio nel passato

Riavvolgiamo il nastro al settembre 2019. Gentiloni viene nominato commissario europeo dal governo Conte bis. La reazione di Fratelli d’Italia Un secco “Gentiloni? No grazie” sui social, accompagnato da critiche feroci. Lo stesso Fitto, allora eurodeputato di FdI, definì la nomina “l’ultimo frutto avvelenato del patto delle poltrone tra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico”. Non proprio un caloroso benvenuto.

Il processo di nomina di un commissario europeo è complesso e prevede diversi passaggi. C’è l’audizione davanti alla commissione parlamentare competente, dove effettivamente il coordinatore del gruppo Ecr (di cui fa parte FdI) non si oppose formalmente alla nomina. Ma attenzione: questo non equivale a un voto favorevole.

Il momento della verità arrivò il 27 novembre 2019, quando il Parlamento europeo votò per approvare l’intera Commissione von der Leyen, Gentiloni incluso. E qui le bugie hanno le gambe cortissime. I registri del Parlamento europeo parlano chiaro: tutti gli eurodeputati di Fratelli d’Italia, Fitto compreso, votarono contro. Sì, avete letto bene: contro. Quindi, ricapitolando: FdI ha criticato aspramente la nomina di Gentiloni, ha espresso perplessità durante tutto il processo e alla fine ha votato contro la sua nomina. Ma oggi dicono di averlo sostenuto. 

Il gioco pericoloso della disinformazione

Ma perché adesso raccontano un versione diversa La risposta è semplice: ora che il gioco si è invertito, con Fitto candidato commissario, FdI spera di poter ricattare moralmente l’opposizione. “Noi siamo stati leali con voi, ora tocca a voi esserlo con noi”, sembrano dire. Peccato che il ragionamento crolli dalle fondamenta. 

La verità è che la destra italiana sta giocando una partita pericolosa. Non solo travisa i fatti, facilmente verificabili, ma cerca di manipolare il processo democratico europeo chiedendo all’opposizione di sostenere Fitto non per merito, non per competenza, ma per una presunta reciprocità che non è mai esistita.

E c’è di più. Questo atteggiamento rivela una visione miope e provinciale della politica europea. FdI sembra vedere le nomine dei commissari come una sorta di scambio di favori tra partiti nazionali, mettendo in secondo piano l’importanza di avere figure competenti e indipendenti alla guida delle istituzioni europee.

Ma forse la cosa più preoccupante è il disprezzo per la verità piegata agli interessi politici. In un’epoca in cui la disinformazione è già un problema enorme, vedere un partito di governo distorcere così apertamente la realtà è inquietante. Persino su fatti così facilmente verificabili.

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Mare Jonio, l’ispezione-farsa: 10 ore per trovare un megafono in meno

La nave Mare Jonio della Ing Mediterranea Saving Humans era ormeggiata nel porto di Trapani. L’ispezione della Guardia costiera è stata sollecitata – questo lo sappiamo per certo direttamente da Roma, dagli uffici del ministro ai Trasporti Matteo Salvini in pieno delirio vittimistico per un processo che lo spaventa molto di più di quanto vorrebbe lasciar vedere. 

Dieci ore di ispezione che hanno ottenuto lo straordinario successo di avere rivenuto un megafono in meno del previsto. “L’ispezione – ha spiegato il capo missione della Mare Jonio Luca Casarini – è stata eseguita con una squadra speciale, anti Ong. Il sesto reparto della Guardia costiera, capitanata dal capitano Andrea Zaffagnini, che dirige tutte le ispezioni nelle navi della Ong per cercare di bloccarle. Noi però siamo una nave che opera da sei anni, una nave che il registro navale indica come nave di soccorso”.

La grave mancanza del megafono ha spinto la Guardia costiera a un provvedimento di fermo dai contorni della tragica barzelletta: scaricate i salvagente e le attrezzature di soccorso se volete continuare a navigare. A una nave di soccorso che salva vite da sei anni viene concesso di stare in acqua senza giubbotti, gonfiabili, persino le lance di soccorso e i kit di primo intervento. A una nave di soccorso viene ordinato di mettersi in condizione di non poter soccorrere. 

Quei gommoni hanno salvato più di duemila persone. L’ordine è di smettere di salpare. La ritorsione di Salvini e il suo compare, il ministro Piantedosi, è scritta nero su bianco. Mancano perfino le parole per dirlo.

Buon giovedì. 

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Finanziano i combustibili fossili, la beffa dei sussidi ambientali

In un’epoca in cui il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità sono al centro dell’attenzione globale emerge un dato sconcertante: il mondo spende almeno 2.600 miliardi di dollari all’anno in sussidi che danneggiano l’ambiente. Questa cifra allarmante, rivelata in un’analisi esclusiva pubblicata dal Guardian, rappresenta un aumento di 800 miliardi di dollari rispetto all’ultima valutazione del 2022.

Il paradosso dei sussidi: finanziare la nostra estinzione

L’organizzazione Earth Track, autrice dello studio, ha evidenziato come i governi continuino a fornire miliardi di dollari in agevolazioni fiscali, sussidi e altre forme di spesa che vanno direttamente contro gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015 e dell’accordo di Kunming-Montreal del 2022 sulla biodiversità. I finanziamenti supportano attività come la deforestazione, l’inquinamento idrico e il consumo di combustibili fossili. Il sostegno statale per grandi pescherecci che favoriscono la pesca eccessiva e le politiche governative che sovvenzionano benzina, fertilizzanti sintetici e monocolture sono solo alcuni esempi di come i soldi pubblici stiano contribuendo al degrado ambientale su scala globale.

Christiana Figueres, ex capo dell’ONU per il cambiamento climatico durante i negoziati di Parigi, ha commentato la situazione con toni preoccupati: “Due anni dopo la firma del piano storico sulla biodiversità, continuiamo a finanziare la nostra stessa estinzione, mettendo le persone e la nostra resilienza a enorme rischio”. Figueres sottolinea l’urgenza di una coerenza politica in materia ambientale da parte dei governi, evidenziando come questa spesa rappresenti una minaccia esistenziale per il nostro pianeta.

Gli autori del rapporto, Doug Koplow e Ronald Steenblik, esperti di sussidi, ritengono che la cifra di 2.600 miliardi di dollari sia probabilmente una sottostima a causa della scarsa qualità dei dati disponibili. L’importo, reale equivalente a circa il 2,5% del PIL globale, potrebbe essere in realtà ancora più elevato, rendendo la situazione ancora più critica di quanto già non appaia.

Koplow spiega il concetto di sussidi dannosi per l’ambiente: “Sono sussidi che i governi concedono in molte forme diverse – non solo in contanti – che hanno come risultato l’accelerazione dell’estrazione di risorse naturali, danni agli habitat naturali e inquinamento”. Questa definizione ampia include una vasta gamma di politiche e pratiche che, spesso inconsapevolmente, contribuiscono al deterioramento dell’ambiente.

Il rapporto evidenzia come l’aumento dei sussidi sia stato guidato dalle conseguenze della guerra in Ucraina, che ha causato un forte incremento dei sussidi ai combustibili fossili. Nonostante ciò, gli autori sostengono che una parte significativa di questi 2.600 miliardi di dollari potrebbe essere riorientata verso politiche a beneficio delle persone e della natura.

La sfida della riforma: ostacoli e opportunità

Alla COP15 del dicembre 2022, quasi tutti i governi del mondo si sono impegnati a riconvertire almeno 500 milioni di dollari all’anno di questi sussidi entro il 2030. Tuttavia le scelte che vanno in questa direzione sembrano essere lente e inadeguate, con molti paesi che faticano a identificare e riformare i propri sistemi di sussidi.

Steenblik sottolinea un altro aspetto critico della questione: “Il problema di molti di questi sussidi è che sono molto mal mirati. Abbiamo visto luoghi come la Nigeria dove hanno cercato di riformare i sussidi, e c’è stata una forte reazione perché il pubblico lo vede come l’unico beneficio che stanno ottenendo dal governo. Stavano spendendo più in sussidi per il carburante che per l’istruzione o la sanità”.

Eva Zabey, CEO di Business for Nature, enfatizza l’importanza di affrontare questo problema in modo sistemico: “Si tratta di una trasformazione dei sistemi basata sulla valorizzazione della natura nel processo decisionale. Abbiamo questo circolo vizioso: più le persone dipendono da questi sussidi, più i sussidi rimarranno e non faremo la transizione”. Zabey sottolinea la necessità di un approccio olistico che consideri gli impatti a lungo termine di queste politiche.

Il rapporto arriva in un momento cruciale, con i governi che si incontreranno nuovamente alla COP16 in Colombia il prossimo mese, per la prima riunione dopo l’impegno preso. Gli autori del rapporto esortano i leader mondiali a mantenere la promessa e a iniziare seriamente a riallocare questi fondi verso soluzioni sostenibili.

Mentre il mondo cerca disperatamente di affrontare la crisi climatica e la perdita di biodiversità, questi 2.600 miliardi di dollari rappresentano non solo una sfida, ma anche un’opportunità. Riorientare questi fondi verso tecnologie pulite, conservazione degli ecosistemi e pratiche agricole sostenibili potrebbe essere la chiave per invertire la rotta e costruire un futuro più resiliente e in armonia con la natura. Spesso si sentono i leader politici discutere delle “troppe spese per la riconversione ecologica”. Intanto c’è un dato di quanto costa rimandarla. 

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Regina Coeli, settima sezione: benvenuti all’inferno

Nel carcere di Regina Coeli si è suicidato il terzo detenuto dall’inizio dell’anno. Anzi, a voler essere precisi, si è suicidato il terzo detenuto del 2024 della settima sezione del carcere romano. 

Come racconta l’associazione Antigone la settima sezione è allo stesso tempo una sezione di ingresso, di transito, disciplinare, di isolamento sanitario. Le persone qui recluse restano in cella per 23 ore al giorno in una condizione che di dignitoso non ha nulla.

Le celle sono piccolissime e ospitano 2 o 3 persone su un unico letto a castello. Il wc e il lavandino si trovano in una piccola stanza adiacente senza intimità. Le finestre sono più piccole che nelle altre sezioni e dotate di celosie che non consentono all’aria di circolare e riducono l’ingresso della luce naturale. Solo poche celle sono dotate di doccia. 

Il Garante dei Diritti dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasia (leggi intervista a pagina 4) racconta che solo ieri, e solo sul lato destro della sezione, è partito il riscaldamento, dopo settimane di freddo che non può essere temperato neanche dall’acqua calda, che nelle stanze non c’è.

“Ci sono le coperte, certo, – racconta il garante – ma non sempre le consegne sono tempestive e più di un detenuto mi ha riferito di aver passato almeno una notte all’addiaccio, senza coperta, spesso senza lenzuola e senza cuscino. In settima sezione finanche il tavolo e le sedie sono un miraggio: i detenuti siedono e mangiano per terra o sul letto. Quelli più fortunati, che hanno avuto delle celle con armadietti in dotazione, li rimuovono e li mettono a terra, per sedersi, mangiare o giocare a carte con i coinquilini”.

Terzo suicidio in pochi mesi. Vai a sapere il perché. 

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