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Torture nella questura di Verona: mele marce o sistema

Agli arresti, lo sappiamo, ci sono 5 poliziotti, accusati a vario titolo di tortura, lesioni aggravate, peculato, rifiuto ed omissione di atti di ufficio e, infine, falso ideologico in atto pubblico. All’interno della questura di Verona essere stranieri o comunque fragili era la caratteristica fondamentale per prendersi botte, insulti e umiliazioni. I poliziotti si vantavano: nel delirio dell’abuso di potere ci si vanta di avere infilato la violenza nelle proprie funzioni.

L’assistente capo Michele Tubaldo e l’agente scelto Davide Cracco però erano già sotto indagine da mesi per un altro episodio. Risultavano iscritti nel registro degli indagati per tortura e lesioni per la denuncia presentata da tre cittadini nordafricani che li accusavano di averli pestati durante un controllo. La domanda che molti si pongono quindi è: perché la questora di quel tempo (Ivana Petricca) e il loro dirigente del reparto Volanti li hanno messi in condizioni di poter reiterare quel loro agire?

Non sono mele marce. Gli indagati nel reparto Volanti sono 22 su 104. Siamo ovviamente nelle fasi preliminari, ci sarà un processo che stabilirà le responsabilità. Ma 22 su 104 è un numero che rimanda a un “sistema” di violenza diffuso, inutile girarci intorno. Lo scrive con parole chiare la gip Livia Magri: “si deve prendere atto che la pluralità e la gravità dei reati contestati non rappresentano certamente episodi isolati di violenza od occasionali illeciti”. Nel corso delle intercettazioni c’è chi, come l’assistente capo Dario Fiore, invita i colleghi a essere più accorti limitando gli schiaffi “nei corridoi o nel tunnel come abbiamo sempre fatto”.

“Noi non facciamo i macellai!” si sfoga il poliziotto Giuseppe Tortora. Il primo passo per una reale consapevolezza sta nell’avere ben presente le proporzioni.

Buon giovedì.

 

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Un partito in subbuglio perenne

C’è subbuglio – come sempre – dentro il Pd dopo la scelta dei nuovi membri dell’ufficio della presidenza a Montecitorio. Da una parte la minoranza rumoreggia per la retrocessione da vicepresidente a segretario di Piero De Luca.

La minoranza del partito parla di vendetta, il solitamente flebile Lorenzo Guerini sventola addirittura l’idea di uno “scalpo politico” in cui il figlio sarebbe stato abbattuto per colpire il padre, quel Vincenzo De Luca presidente della Campania che ieri ha messo in scena il suo solito show contro la sua segretaria Elly Schlein.

È curiosa questa idea che la minoranza del Pd non abbia compreso che chi perde un congresso inevitabilmente perda anche le posizioni da cui si guida il partito. Tra i nuovi vicepresidenti del Partito democratico spunta a sorpresa Paolo Ciani, parlamentare e segretario di un’altra forza politica, DemoS (Democrazia Solidale), di ispirazione cristiano-sociale. Membro della comunità di Sant’Egidio, Ciani è uno che dice senza troppi giri di parole di non credere “nella vittoria militare, cioè armare l’Ucraina perché possa vincere”.

A gennaio infatti è stato l’unico del suo gruppo a votare contro il decreto che prolungava l’invio di armi a Kiev. “Nel nostro popolo questa discussione c’è, è un fronte molto più ampio di come è rappresentato nei numeri del gruppo”, spiega Ciani. Che però poi aggiunge di non avere nessuna intenzione di iscriversi al Pd.

A questo punto la domanda sorge spontanea: a che popolo si rivolge la segretaria Schlein? E come pensa di tenere insieme un partito se la sua forza è fuori? Il cerchiobottismo, male atavico del Pd, non è la soluzione.

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Ingiusta detenzione ad Abu Dhabi. L’incredibile storia di Costantino: 21 mesi in cella coi topi

Ve lo ricordate Andrea Costantino? Circa sei mesi fa il trader milanese arrestato in un hotel di Dubai di fronte alla compagna e alla figlia è stato liberato dopo 21 mesi di prigionia. L’accusa era di presunti traffici petroliferi con lo Yemen. Ventidue mesi di carcere di cui quindici nelle celle degli Emirati nel carcere di massima sicurezza di Al Wathba: “La detenzione è stata più che orribile – raccontò all’Adnkronos lo scorso 24 dicembre l’imprenditore – sono stato morso dai topi, detenuto in una cella da 4 con altre 14 persone, il cibo ci veniva dato per terra. Ho visto il mio avvocato solo una volta in più di un anno di carcere. Un’esperienza incancellabile nel senso negativo del termine”.

Il trader milanese Andrea Costantino arrestato a Dubai è stato liberato dopo 21 mesi di prigionia tra i topi

Prima del suo rientro in Italia Costantino è stato “detenuto” in una dependance dell’ambasciata italiana ad Abu Dhabi. Alla sua liberazione hanno lavorato – lo racconta lui stesso – “il direttore generale per gli italiani all’estero della Farnesina Luigi Maria Vignali, l’ambasciatore italiano Lorenzo Fanara, e Matteo Salvini”. Disse Costantino: “Matteo nazionale (Salvini, ndr) mi ha scritto cinque minuti dopo (la notizia che sarebbe stato liberato, ndr) dicendomi: ‘ottima notizia, adesso brinderemo con rigoroso vino italiano’…”.

E la Presidenza del Consiglio? “Esprime soddisfazione perché, in questa vigilia di Natale, l’imprenditore italiano Andrea Costantino è rientrato in Italia e ha potuto riabbracciare i suoi cari. Ringrazia in particolare il ministro degli Esteri e la rete della Farnesina, i Servizi di informazione e sicurezza e le Autorità degli Emirati per il buon esito della vicenda”, fece scrivere in una nota la premier Giorgia Meloni.

Il trader ora chiede giustizia per quei due anni persi per l’accusa mai dimostrata di finanziamento del terrorismo

Ma veniamo a oggi. Costantino decide di chiedere giustizia per quei due anni persi per l’accusa mai dimostrata di finanziamento del terrorismo in Yemen. Lo scorso 15 maggio fa scrivere una lettera di avviso di contestazione dallo studio GST di Miami con sede a Washington nei confronti degli Emirati Arabi.

In un’intervista a Ofcs Report racconta però che alcuni “apparati” dello Stato italiano gli abbiamo chiesto di ritirare la contestazione perché “potrebbe creare problemi con il partenariato con gli Emirati, problemi economici, questa la loro preoccupazione”. A proposito di apparati il trader racconta anche di dover “restituire” i 500mila euro che lo Stato italiano ha anticipato per la sua liberazione. Ma che c’entra Costantino con la politica tra Italia e Emirati Arabi? L’unica cosa che si può fare è mettere in fila alcuni episodi che suggeriscano una chiave di lettura.

Nel 2019 il primo governo di Giuseppe Conte aveva parzialmente sospeso l’esportazione di armi negli Emirati Arabi per il loro coinvolgimento in Yemen e poi nel 2021, durante il secondo mandato del premier pentastellato, era stato disposto il blocco totale. L’arresto di Costantino potrebbe essere una delle molte ritorsioni di quel periodo, come accadde per l’aereo militare italiano a cui venne negato il sorvolo dello spazio aereo emiratino con 40 giornalisti e militari a bordo. Con l’insediamento del governo Meloni la questione della vendita di armi agli Emirati Arabi è stata sistemata revocando il divieto di vendita.

Ma Palazzo Chigi non condivide la sua azione legale

Tra febbraio e marzo prima il ministro della Difesa Guido Crosetto e poi la presidente Meloni sono stati amichevolmente accolti a Abu Dhabi anche per ridare slancio all’export di armi italiane. Ingenuamente Costantino è convinto di avere il diritto di ottenere giustizia. Ieri una nota di Palazzo Chigi precisa che “le dichiarazioni e le iniziative giudiziarie annunciate da Andrea Costantino nei confronti degli Emirati Arabi Uniti non sono condivise dal governo italiano che coglie l’occasione per ringraziare gli Emirati Arabi Uniti per la collaborazione dimostrata nel caso, prova dell’amicizia con l’Italia”. Prima gli italiani, dicevano. Ovviamente dopo le armi.

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Meloni alla corte dell’Orbán tunisino. Mentre Mattarella ricuce con Macron

Due viaggi, due modi di intendere la politica. Mentre il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella vola a Parigi per incontrare Emmanuel Macron, la premier Giorgia Meloni continua il suo tour africano, dopo Algeria e Etiopia, intrattenendosi due ore con il presidente tunisino, Kais Saied con l’obiettivo principale di “contenere” gli sbarchi.

Il capo dello Stato spegne le tensioni con Parigi. Intanto la premier Meloni stringe accordi con l’autocrate Saied

Mattarella è a Parigi per ricucire gli strappi degli ultimi mesi. A maggio il ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin, aveva definito Meloni come “incapace di risolvere i problemi migratori” scatenando le ire del ministro degli Esteri Antonio Tajani che aveva cancellato il suo viaggio programmato a Parigi. Pochi giorni dopo a buttare benzina sul fuoco era stato il capo di Renaissance, il partito del presidente Macron, Stéphane Séjourné.

“L’estrema destra francese prende per modello l’estrema destra italiana. Si deve denunciare la loro incompetenza e la loro impotenza. Meloni fa tanta demagogia sull’immigrazione clandestina: la sua politica è ingiusta, disumana e inefficace”, aveva detto Séjourné. Inevitabili le risposte piccate del governo italiano. “A me interessa quello che pensano gli italiani”, aveva risposto Meloni. Ma poiché la politica internazionale si fa con gli alleati che pesano (e la Francia è uno di questi) Mattarella fa sapere di essere in Francia per ribadire “i legami storici” tra i due Paesi e per confermare – dice la nota ufficiale – il “rapporto di fiducia e amicizia”.

Mentre il capo dello Stato mette una pezza agli errori diplomatici del governo, Meloni si intrattiene amichevolmente con il suo omologo tunisino, Saled, autocrate che ha portato il Paese ben lontano dal periodo delle ‘primavere arabe’ che sbocciarono proprio lì. Saied ha avuto parole positive per Meloni: “Sono molto felice di parlare con lei dei nostri problemi. Lo dico a voce alta, oggi lei è una donna che dice a voce alta ciò che altri pensano in silenzio”, ha detto il presidente tunisino prima di accoglierla.

Grandi cortesie anche da parte di Meloni che ha promesso cooperazione in materia energetica, ha annunciato lo stanziamento di 700 milioni per sollevare l’economia tunisina: “Ho raccontato al presidente Saied gli sforzi che stiamo facendo perché si arrivi a una conclusione positiva dell’intesa tra la Tunisia e il Fondo monetario internazionale. Noi la sosteniamo con approccio pragmatico. Anche in Ue ci siamo fatti portavoce per aumentare il sostegno al governo tunisino contro la tratta di esseri umani e l’immigrazione illegale, ma anche per finanziamenti e opportunità importanti a cui sta lavorando la Commissione Ue”, ha aggiunto Meloni.

L’obiettivo è fin troppo semplice: fare di Saied un nuovo Erdogan lautamente stipendiato per prendere in subappalto le frontiere europee. Spiega Meloni: “A maggio gli sbarchi sono diminuiti. Siamo di fronte alla stagione più difficile, non possiamo che essere preoccupati per i prossimi mesi e per questo dobbiamo rafforzare il nostro lavoro insieme. Noi in Tunisia siamo pronti a fare di più. Il nostro progetto di Piano Mattei vuole proprio parlare di una cooperazione che non sia paternalistica o predatoria, ma paritaria, che consenta a tutti di difendere i propri interessi nazionali”.

“Non vorrei che il mio Paese, patria del diritto e di una Costituzione pienamente democratica, si ritrovi, per meri calcoli elettorali o per inconfessabili simpatie politiche, a sostenere un regime che del diritto e della democrazia sta facendo carta straccia”, dice la dem Laura Boldrini. Rincara il segretario di Sinistra Italiana Fratoianni: “Non porterà nulla di buono né al popolo tunisino e alle sue aspirazioni democratiche né all’Italia, che a livello internazionale sarà ancora più isolata e si caratterizzerà sempre più come l’Ungheria del Mediterraneo”. Difficile dargli torto.

 

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Ci vuole una bella dose di vigliaccheria, del resto, per essere buoni torturatori

L’inchiesta parte da una telefonata di un poliziotto alla fidanzata. «Ha iniziato a rompere il cazzo… Vi spacco sbirri di merda di qua e di là – dice lui -. Allora ha dato una capocciata al vetro… Il collega apre la porta e “vieni un attimo fuori… adesso ti faccio vedere io quante capocciate alla porta fai”… Boom boom boom boom… E io ridevo come un pazzo».

Poi si vanta: «Amò, lui stava dentro l’acquario (la stanza dei fermati con una parete a vetro, ndr), gli ho lasciato la porta aperta in modo tale che uscisse perché io so che c’è la telecamera dentro… Amò, mi guarda, mi ero messo il guanto, ho caricato una stecca, amò, bam, lui chiude gli occhi, di sasso per terra è andato a finire, è rimasto là… È svenuto… Minchia che pigna che gli ho dato…».

In tutto sono cinque gli episodi in cui la Procura di Verona ipotizza il reato di tortura. Gli accusati sono 5 poliziotti della Questura di Verona di età comprese fra i 24 e i 44 anni, messi sotto inchiesta dai loro stessi colleghi della squadra mobile dopo che nell’ambito di un’altra inchiesta, in alcune intercettazioni si parlava di percosse nei confronti di persone fermate.

Per accertare i fatti i funzionari della stessa Questura, d’accordo con i pubblici ministeri della Procura, hanno messo sotto intercettazione telefonica e ambientale i poliziotti sospettati, e attivato le telecamere in alcuni uffici da loro frequentati, oltre che visionato le immagini registrate dall’impianto di videosorveglianza nella stanza-fermati chiamata «acquario».

“È innegabile – scrive il giudice nell’ordinanza di custodia cautelare – che tutti gli indagati abbiano tradito la propria funzione comprimendo i diritti e le libertà di soggetti sottoposti alla loro autorità, offendendone la stessa dignità di persone, creando essi stessi disordine e compromettendo la pubblica sicurezza, commettendo reati piuttosto che prevenirli, in ciò evidentemente profittando della qualifica ricoperta”.

Un fermato è stato costretto dai poliziotti a urinare nella stanza in cui si trovava e poi è stato usato come straccio per pulire. Scrive il Gip: “I soprusi, le vessazioni e le prevaricazioni poste in essere dagli indagati risultano aver coinvolto in misura pressoché esclusiva (tranne un caso, ndr) soggetti di nazionalità straniera, senza fissa dimora ovvero affetti da gravi dipendenze da alcol o stupefacenti, dunque particolarmente ‘deboli’”. Questo, secondo il giudice per le indagini preliminari, “da un lato ha consentito agli indagati di vincere più facilmente eventuali resistenze delle loro vittime, e dall’altro ha rafforzato la convinzione dei medesimi di rimanere immuni da qualunque conseguenza di segno negativo per le loro condotte, non essendo prevedibile nella loro prospettiva che alcuna delle persone offese si potesse determinare a presentare denuncia o querela pronto”.

L’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni disse che il reato di tortura impedisce ai poliziotti di fare bene il proprio lavoro. Il suo pensiero è identico a quello di molta destra che sta al governo. Ieri non si è sentito un solo soffio su questa orribile vicenda da Palazzo Chigi, da Matteo Salvini e da parlamentari della maggioranza.

Buon mercoledì.

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Al peggio non c’è mai fine

Mettiamo in fila i fatti politici solo degli ultimi giorni. Ieri il governo si è sbarazzato della Corte dei Conti che facendo il suo lavoro aveva sottolineato il grave ritardo che mette a rischio i soldi della terza rata del Pnrr. Non potendo cambiare le regole hanno deciso di rimuovere chi vigila sul rispetto delle regole.

Mentre in Parlamento accadeva questo, Giorgia Meloni volava in Tunisia per declamare le lodi del suo presidente Saied, l’artefice della regressione democratica del suo Paese. È l’alleato perfetto per Giorgia: usa le maniere forti senza troppi rimorsi, con i migranti sarà bravissimo a trasformare il suo Paese nella nuova Libia di cui si vergogneranno i nostri figli. Il governo lo chiama “piano Mattei” ma è violenza data in appalto.

Nel frattempo lo Stato italiano rincorre i compratori d’armi con il piattino in mano. Qualche giorno fa l’Italia ha revocato le limitazioni all’export di bombe e missili verso l’Arabia Saudita (paese con scarsa concezione della democrazia), disposte dal governo Conte I per prevenirne l’utilizzo nella guerra in Yemen. Ieri Palazzo Chigi ha preso le distanze da un italiano, Andrea Costantino, che chiede giustizia agli Emirati Arabi per non perdere le prossime commesse della monarchia di Abu Dhabi.

Mentre il meloniano presidente del Lazio Rocca si rimangia il patrocinio al Pride nelle commissioni parlamentari la maggioranza si arrovella per rendere “reato universale” la gestazione per altri. Sono considerati “reati universali” il terrorismo, la tortura, il contrabbando nucleare. Questi pur di punire gli omosessuali sono disposti a sfidare il senso del ridicolo.

A proposito di tortura: nessun esponente del governo e della maggioranza ha avuto niente da dire sui cinque poliziotti arrestati ieri a Verona e definiti dal gip come “sadici e violenti”. Si sono accaniti ovviamente contro “soggetti di nazionalità straniera”. Perfetto, abbiamo tutte le carte in regola per essere la nuova Ungheria.

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Pd, Fuoco amico sulla Schlein. Le correnti aprono la resa dei conti

Il congresso permanente del Pd inizia di prima mattina, ieri, nei giornali in edicola. L’ex candidata alla segreteria Paola De Micheli, già vicesegretario del Partito democratico ed ex ministro delle Infrastrutture e Trasporti sveglia La Verità per attaccare la segretaria Schlein e decide di andarci pesante.

Dal flop alle Comunali alle armi a Kiev. Bordate alla segretaria del Pd Scheil da Moretti, De Micheli & C.

“Non sono una signora da Ztl: al Pd serve un cambio di passo, e un bagno di realtà. Dobbiamo tornare a parlare con le persone. Ricominciamo dai bisogni quotidiani: lavoro, sanità, imprese. Serve più peso nelle proposte. Abbiamo bisogno di profondità. Altrimenti non si riconosceranno in noi tutte le sensibilità che potenzialmente il Pd può rappresentare”, dice De Micheli che a Schlein ricorda che “quando diventi segretaria del partito occorre trovare mediazioni o comunque rappresentare la maggioranza degli elettori. Sulla maternità surrogata, o su chi imbratta i monumen i per protesta, la maggioranza del partito ha posizioni fortemente critiche. E dalla segreteria ci aspettiamo un a sintesi”.

Altro giornale di destra altra intervista. Qui e l’europarlamentare del Pd Alessandra Moretti che a Libero spiega che “Elly Schlein deve essere la segretaria anche dei cattolici moderati e dei riformisti. Deve stare al di sopra delle correnti” e anche “dei fedelissimi”, facendosi “aiutare da tutti, a partire da chi ha fatto la storia di questa comunità: Prodi, Veltroni, Finocchiaro, Turco, Castagnetti”. Anche in questo caso si parla di “riconoscimento delle ragioni reciproche”.

Nel Partito democratico non si sono ancora spenti gli sbuffi del voto a Bruxelles sulle armi a Kiev

Non è solo questione di rassegna stampa. Nel Pd non si sono ancora spenti gli sbuffi del voto a Bruxelles sulle munizioni per l’Ucraina quando nuove polemiche arrivano proprio dell’Emilia Romagna, la Regione di cui Schlein è stata vicepresidente. Gli scritti del Pd lamentano di non riuscire ad avere più contatti con lei (l’isolamento della segretaria in realtà è una critica che arriva da più parti) quando invece ci sarebbe da mettersi in moto per le elezioni amministrative del 2024 che toccheranno città importanti come Modena, Forlì, Cesena, Ferrara e Reggio Emilia.

Finita qui? Per niente. Per mancanza di candidati il Partito democratico del Lazio si trova nell’inedita situazione di non sapere come e con chi celebrare le primarie del 18 giugno per leggere il segretario regionale dopo la scomparsa di Bruno Astorre. Il candidato della minoranza Mariano Angelucci decide di congelare la corsa contro Daniele Lodori, sostenuto dalla maggioranza schleiniana, da Nicola Zingaretti, Marco Miccoli, Marta Bonafoni e Claudio Mancini.

“Ci stiamo provando con tutto il cuore a dare una mano a rinnovare il Pd Lazio e il gruppo dirigente che ha perso ogni competizione possibile negli ultimi anni”, accusa Angelucci: “Abbiamo perso le elezioni nazionali, regionali, tutti i capoluoghi e tutte le maggiori città del Lazio, esclusa Roma. Nonostante questo, senza alcuna presa di responsabilità nei confronti della nostra comunità, senza alcuna discussione, confronto con gli iscritti, senza alcuna disponibilità a fare un passo di lato viste le numerose sconfitte, Leodori e tutto quel gruppo dirigente che ha governato e fatto tutte le scelte politiche cha hanno determinato queste sconfitte si è candidato a governare il partito. Tutto legittimo, ma in tutti questi anni di militanza ho imparato che c’è la legittimità e poi c’è l’opportunità politica e la scelta tra bene personale e bene comune”.

A pagare, come sempre, è la credibilità del partito

Stando a quanto ricostruiscono fonti romane del Pd, Angelucci avrebbe voluto saltare la fase del congresso che prevede la consultazione degli iscritti per andare direttamente alle primarie. Per qualcuno è solo “ricerca di visibilità”. A pagare, come sempre, è la credibilità del partito.

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Lie Pride

La Regione Lazio ci ripensa e ritira il patrocinio a Roma Pride 2023. Ufficialmente il presidente Rocca (meloniano di ferro a capo di una giunta a trazione Fratelli d’Italia) spiega che il motivo della marcia risiede nella promozione da parte degli organizzatori di “comportamenti illegali, con specifico riferimento alla pratica del cosiddetto utero in affitto”.  La decisione, fa sapere la Regione, “si è resa necessaria e inevitabile a seguito delle affermazioni, dei toni e dei propositi contenuti nel manifesto dell’evento, intitolato “Queeresistenza”, consultabile pubblicamente sul sito della kermesse. Tali affermazioni”, dicono, “violano le condizioni esplicitamente richieste per la concessione del patrocinio precedentemente accordato in buona fede da parte di Regione Lazio”.

Al centro della disputa c’è insomma la richiesta degli organizzatori del Pride di avere una legge che introduca e disciplini la gestazione per altri in Italia, mentre il governo insiste nel volerla dichiarare “reato universale” per vietare agli italiani di accedervi anche all’estero. Gli organizzatori non hanno esitato a rispondere: “Il neo-governatore paga il debito elettorale alle aggressive associazioni cattoliche e ritira il patrocinio concesso, con delle motivazioni pretestuose, dato che la Regione Lazio conosceva le rivendicazioni e i contenuti politici della manifestazione”, dice Mario Colamarino portavoce della kermesse e presidente del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli. Che aggiunge: “Siamo ormai alla farsa: le associazioni ordinano e la politica esegue. Con l’ironia che ci contraddistingue ringraziamo per averci offerto un servizio di ufficio stampa gratuito. Grazie a loro siamo certi che sabato 10 giugno alla grande parata, che partirà da piazza della Repubblica alle ore 15.00 ci sarà una folla oceanica che crede nei diritti, nell’uguaglianza e nella laicità”.

“La revoca del patrocinio al Roma Pride da parte della Regione Lazio dimostra ancora una volta che con Fratelli d’Italia al governo l’omofobia è istituzionalizzata, è un’omofobia di Stato. Ed è sconvolgente come il presidente Rocca si ponga come cane da guardia delle associazioni che proprio oggi avevano chiesto il ritiro del patrocinio”, attacca il segretario di +Europa Riccardo Magi. Duro anche Alessandro Zan, responsabile Diritti Dem, che scrive di “schizofrenia di odio e discriminazione che la destra vuole diffondere usando le istituzioni. Non permetteremo che continui questa crociata contro la cittadinanza Lgbtqia+. Tutti al Roma Pride!” mentre il sindaco di Roma Gualtieri annuncia che sarà in piazza. Perfino i giovani di Forza Italia parlano di “una grande regalo alla sinistra”.

Come vedete non c’è bisogno del braccio alzato.

Buon martedì.

 

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Il decreto dello struzzo

Incapaci di rispettare i tempi e le regole, voteranno oggi in Parlamento per fare fuori il controllore. Il decreto “Pubblica amministrazione” passerà alla Camera ponendo la fiducia e finalmente la presidente del Consiglio Meloni e il ministro Fitto si toglieranno dai piedi il controllo che la Corte dei Conti esercita sull’attuazione del Pnrr.

Una scenetta sconcertante: prima il ministro Fitto si è lamentato perché quella norma è rimasta inattuata per dieci anni prima di essere resuscitata dal secondo governo Conte. Cosa ci sia di male nell’applicare la legge rimane un mistero. Poi lo stesso ministro ha provato a convincerci che quella norma non si potesse applicare al Pnrr. Come il Pnrr non debba rientrare tra i “principali piani, programmi e progetti relativi agli interventi di sostegno e di rilancio dell’economia nazionale” che prevede la legge è un altro mistero.

Un po’ in affanno, allora, Fitto ha provato a convincerci che i controlli sul Pnrr spettino all’Europa. Falso, anche questo. Anzi è proprio l’Europa a scrivere che gli Stati membri devono adottare “tutte le opportune misure” per prevenire e individuare frodi, casi di corruzione o di conflitti di interesse con i soldi del piano. Esattamente quello che la Corte dei Conti stava facendo, per di più in un Paese in cui le mafie hanno banchettato troppo spesso con i fondi europei.

O forse il problema non è la Corte dei Conti ma sono proprio i conti di questo governo che è riuscito a spendere solo poco di più di un miliardo da fine 2022 al 28 febbraio 2023 e che ha i 19 miliardi di euro della terza rata bloccati dall’Ue proprio per l’incapacità di spenderli.

Un ritardo “che potrebbe incidere sulla effettiva realizzazione dell’intero piano (di ripresa e resilienza, ndr) con particolare riferimento al pieno raggiungimento degli obiettivi finali”. Chi lo dice? Il ministro Fitto, nella sua stessa relazione. Potrebbero allora chiamarlo il “decreto struzzo”: testa sotto la sabbia per evitare le proprie responsabilità.

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Sull’alluvione in Romagna i conti non tornano

“Non so quante altre volte è accaduto che in 48/72 ore si siano trovati 2 miliardi e 200 milioni di euro per affrontare l’emergenza”. Diceva così la presidente del Consiglio Giorgia Meloni lo scorso 25 maggio a Bologna al fianco della Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, dopo la visita nelle zone colpite dall’alluvione in Emilia-Romagna.

I numeri smentiscono le promesse. Pagella politica ha passato in rassegna le misure varate per fare fronte all’emergenza alluvione in Emilia-Romagna

Tre giorni dopo in una corposa intervista a Il Messaggero ribadiva le cifre: “Abbiamo mobilitato oltre due miliardi di euro per intervenire nell’immediato”. Il decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale dice che non è così. Pagella Politica ha verificato gli 11 articoli sui 23 che compongono il decreto sommando gli oneri per le casse dello Stato, per un totale di oltre 1,6 miliardi di euro.

Lo stanziamento più alto, spiega Carlo Canepa, è quello per la cassa integrazione emergenziale (art. 7) dei lavoratori colpiti dall’emergenza: 620 milioni di euro per consentire nel 2023 una copertura in deroga fino a un massimo di 90 giornate. Secondo Il Sole 24 Ore, la platea dei beneficiari è di circa 300mila persone, tra cui occupati a termine e stagionali. Per finanziare questa misura, 400 milioni di euro sono stati recuperati riducendo gli stanziamenti per il “Fondo di integrazione salariale”, che fornisce supporto ai lavoratori in caso di riduzione dell’attività lavorativa; 50 milioni riducendo il “Fondo sociale per occupazione e formazione”, che finanzia misure per incentivare l’occupazione; e 150 milioni dai risparmi ottenuti con il taglio del Reddito di cittadinanza.

Nell’articolo 10 si prevedono 300 milioni per le aziende esportatrici a disposizione di Simest, una società del gruppo Cassa depositi e prestiti, controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze, che sostiene la crescita delle imprese italiane attraverso l’internazionalizzazione della loro attività. Poco più di 250 milioni di euro per finanziare il sostegno al reddito dei lavoratori autonomi che potranno ottenere un’indennità una tantum di 500 euro per un massimo di 3mila euro. Il governo ha anche rifinanziato (art. 18) con 200 milioni di euro il “Fondo per le emergenze nazionali”.

Gli stanziamenti ammontano a 1,6 miliardi. Mancano all’appello almeno 500 milioni

Le coperture? 404 milioni di euro sono stati recuperati cancellando la norma con cui il governo nel marzo scorso aveva ridotto il contributo di solidarietà temporaneo che le aziende energetiche devono versare sugli extraprofitti fatti negli ultimi mesi. 130 milioni, rileva Pagella Politica, di euro sono stati invece recuperati tagliando le risorse messe a disposizione a fine marzo per finanziare il cosiddetto “bonus sociale” per il riscaldamento. Quest’ultima è una misura che riduce la spesa sostenuta dalle famiglie in condizioni di disagio economico per la fornitura di gas.

Per il patrimonio culturale danneggiato dalle alluvioni il Governo ha deciso di aumentare i biglietti d’ingresso dei musei di Stato dal 15 giugno al 15 settembre di un euro. Sarà poi il Ministero della Cultura a decidere le modalità con cui i fondi verrano assegnati.

Dalle promesse di Giorgia Meloni manca quindi almeno mezzo miliardo di euro. Le risorse che il governo aveva promesso sono tagli dei vari fondi. Pochi giorni dopo l’alluvione Meloni promise “niente passerelle e risposte immediati”.

A oggi manca la nomina del commissario straordinario per i litigi all’interno della maggioranza, le passerelle si sono sprecate insieme alle promesse, e l’aiuto immediato è sensibilmente inferiore a quello annunciato in conferenza stampa e sui giornali. Anche il decreto ci ha messo 10 giorni a uscire, casualmente dopo le elezioni amministrative.

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