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Schlein riparte ma il PD si incaglia sul PNRR in armi (votato in Europa)

Il giorno dopo del giorno dopo dell’analisi della sconfitta la segretaria del Partito democratico Elly Schlein schiaccia l’acceleratore. “A chi pensa sia finita, abbiamo solo cominciato. Abbiamo davanti un lavoro lungo, la strada è in salita ma non molleremo di un millimetro su quello che è il nostro progetto”, dice in una diretta Instagram che ha il sapore di essere un rilancio.“

La segretaria del Pd Schlein avvisa la fronda degli eurodeputati favorevoli alla proposta di Breton sull’invio di altre armi all’Ucraina

Il cambiamento non è un pranzo di gala, è scomodo. Abbiamo un lavoro lungo davanti. Mettetevi comodi, siamo qui per restare”. C’è un “lavoro lungo da fare – continua – coinvolgendo partito e territori. Andiamo avanti con le nostre battaglie. Non ci spaventano gli attacchi. Siamo qui per fare esattamente quello che diciamo. Noi non ci fermiamo, abbiamo da ricostruire una prospettiva e da dare una speranza a questo paese. Come si dice dalle mie parti: teniamo botta”.

La segretaria del Pd attacca il governo sul Pnrr (“Vengano in Parlamento a riferire cosa vogliono fare sul Pnrr”), sta al fianco di Stefano Bonaccini come commissario per le alluvioni in Emilia Romagna (“Serve un commissario che conosca i territori”, dice) e lo difende dalla destra che “viene fuori con una interrogazione contro l’Emilia Romagna, diffondendo fake news in un bieco tentativo di politicizzare la ricostruzione”.

Ma la segretaria parla anche al suo partito: “Non è per noi accettabile utilizzare i fondi del Pnrr e dei fondi di Coesione per produrre munizioni e armamenti”. La frase è una sfida aperta con la fronda interna dei cosiddetti “riformisti” che dopo le elezioni amministrative è partita all’attacco. Nella testa dell’opposizione interna i punti deboli di Elly Schlein su cui stanarla sono proprio le armi all’Ucraina.

Lei, la segretaria, rilancia: “Noi non abbiamo dubbi sul supporto all’Ucraina – spiega Schlein – così come siamo favorevoli a una difesa comune europea. Non è per noi” possibile “accettare di utilizzare le risorse del Pnrr per produrre munizioni. Soprattutto in Italia dove c’è un governo ambiguo sul Pnrr. I fondi non devono essere sottratti alle finalità previste – come nidi, scuole e case della salute – per andare in un’altra direzione. Domani al Senato chiederemo a Giorgia Meloni un impegno nero su bianco”.

Il messaggio è anche per i suoi a Strasburgo. Oggi non c’è una chiara indicazione sulla linea da tenere in aula, quando si dovrà dire sì o no all’Asap, acronimo di “Act in Support of Ammunition Production”, il provvedimento proposto dal commissario Thierry Breton per aumentare la capacità produttiva europea di materiale bellico da spedire a Zelensky per difendersi dall’aggressione di Putin. L’incontro tra gli eurodeputati e Schlein non ha sciolto i nodi. La segretaria ha deciso di aspettare la decisione del gruppo progressista europeo sull’adottare gli emendamenti che escludono i soldi del Pnrr per le armi. Alla fine si potrebbe decidere di scegliere l’astensione per provare a non spaccare le anime del partito.

Lia Quartapelle però incalza Schlein: “Leggo dai giornali che ci sono alcuni colleghi che vorrebbero astenersi. Mi auguro che Schlein intervenga per tenere la barra dritta. Il Pd ha sempre votato sì, mutare orientamento non romperebbe solo l’unità dei socialisti europei, schierati decisamente a favore, ma pure l’unità del Pd: significherebbe cambiare la linea del partito sul conflitto in Ucraina senza averlo mai discusso da nessuna parte”, dice. Qui sta il punto.

Alla fine la soluzione è una mediazione che non fa male (né bene) a nessuno. Il Partito Democratico stamattina ha presentato l’emendamento voluto dalla segretaria sapendo che non sarebbe passato e la votazione ha potuto filare liscia. Ma l’unità del Pd di cui parla la minoranza non è nient’altro che un filoatlantismo invocato come un mantra. A Schlein si chiede di rinnovare il Pd tenendolo allineato ai suoi dogmi peggiori: non essere troppo di sinistra, non elaborare un pensiero al di fuori del sistema. Per questo il M5S viene usato come clava: l’avvicinamento ai grillini viene visto come un tentativo di uscire dall’allineamento di quelli che vorrebbero il nuovo Pd come il peggiore Pd di questi ultimi anni. Cambiare perché nulla cambi, fingendo di essere cambiati. Sperando (chissà perché) che gli elettori ci caschino.

 

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Altro che pizzo di Stato

Secondo Giorgia Meloni sono le big company e le banche a non pagare “davvero” le imposte mentre l’evasione fiscale non riguarda i “piccoli commercianti”. Ma l’evasione dell’Irpef delle piccole imprese e dei lavoratori autonomi è la voce più rilevante sull’evasione fiscale in Italia e sopravvive soprattutto nella cosiddetta “evasione con consenso”, ossia quella in cui il venditore e il cliente sono concordi sulla volontà di evadere, per esempio con la mancata emissione della fattura o di uno scontrino.

Per dirla più semplice: Giorgia Meloni ha stretto un patto con gli evasori di questo Paese. Un patto non detto, che non si potrebbe nemmeno scrivere se non fosse un’opinione corroborata dalle parole dei partiti di maggioranza e dalla postura delle persone al governo.

Del resto la politica funziona così: si promette una cosa e poi si mette in pratica nascondendola, se serve. Il messaggio delle imposte come “pizzo” di Stato è chiaro e le proposte del governo non hanno bisogno di interpretazione. La destra disprezza i poveri e alliscia i ricchi e gli evasori (che spesso coincidono).

Il punto sostanziale quindi è un altro: se i poveri e gli onesti sono maggioranza perché questi governano così comodamente? Si può rispondere in due modi. Si può credere che noi siamo dei pessimi osservatori (e quindi pessimi giornalisti) che intravedono situazioni irreali oppure si potrebbe dire che ciò che sta sotto gli occhi di tutti viene silenziato per comodità o per servilismo. E noi, nel nostro piccolo, siamo contenti di avere occhi che non assomigliano agli occhi che i poteri vorrebbero.

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Carceri. Rapporto Antigone: “Sovraffollamento, suicidi, violenze. Un 2022 da dimenticare”

I detenuti nelle carceri italiane sono 56.674 (dato aggiornato al 30 aprile), a fronte di una capienza ufficiale di 51.249 posti: dunque, 5.425 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Questi i numeri che l’associazione Antigone illustra nel suo nuovo rapporto sulle condizioni di detenzione, presentato ieri, nel quale parla di «oltre 9mila persone in più rispetto alla capienza effettiva», poiché, ricorda, «ai posti regolamentari vanno però sottratti i posti non disponibili, che a maggio 2023 erano 3.646». Considerando i posti conteggiati e non disponibili, si legge ancora nel dossier, «l’affollamento reale è del 119%», a fronte di un tasso di affollamento ufficiale medio del 110,6%.

Le regioni dove si registrano le situazioni definite «piu’ preoccupanti» sono Lombardia (151,8%), Puglia (145,7%) e Friuli Venezia Giulia (135,9%). A livello di istituti, i valori effettivi più alti si registrano a Tolmezzo (190,0%), a Milano San Vittore (185,4%), a Varese (179,2%) e a Bergamo (178,8%). Rispetto al resto d’Europa, solo Cipro e Romania hanno tassi di sovraffollamento maggiori di quello italiano, osserva Antigone, rilevando che «invece ci collochiamo al trentaseiesimo posto per tassi di detenzione, ossia numero di detenuti rispetto a cittadini liberi. Incarceriamo meno di Francia e Spagna, più di Germania e Paesi nordici». I detenuti, prosegue l’associazione, «crescono circa 5 volte di più rispetto alla crescita dei posti: dal 30 aprile 2022 la capienza ufficiale è cresciuta dello 0,8%, mentre le presenze sono cresciute del 3,8%. È aumentato soprattutto il numero delle donne, cresciuto del 9%, mentre l’aumento degli stranieri, del 3,6%, è piu’ o meno in linea con quello della popolazione detenuta complessiva». Inoltre, è sempre più alta l’età media della popolazione detenuta: gli over 50 erano, alla fine del 2022, il 29% (17% a fine 2011). Nello stesso intervallo di tempo sono poi raddoppiati gli over 70, passando da 571 (1%) a 1.117 (2%), mentre per gli under 25 la percentuale passa dal 10 al 6%.

Sono stati 23 i suicidi in carcere in questi primi mesi del 2023. Sono state 85 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario nel corso del 2022 – su 214 morti totali – ovvero più di una ogni quattro giorni. Cinque i suicidi avvenuti nel solo carcere di Foggia. Negli istituti penitenziari i suicidi sono stati 23 volte superiori rispetto ai suicidi in libertà. Delle 85 persone suicidatesi, 5 erano donne. Le persone straniere erano 36, delle quali 20 senza fissa dimora. L’età media era di 40 anni. La persona più giovane era un ragazzo di 20 anni, la più anziana un signore di 71. La maggior parte di queste persone (50, ossia quasi il 60%) si sono tolte la vita nei primi sei mesi di detenzione. Addirittura, 21 nei primi tre, 16 nei primi dieci giorni e 10 addirittura entro le prime 24 ore dall’arrivo in carcere. Delle 85 persone morte per suicidio nel 2022, 28 avevano precedentemente messo in atto almeno un tentativo di suicidio (in 7 casi addirittura più di un tentativo). In 68 (pari all’80%) erano coinvolte in altri eventi critici. 24 di loro erano state sottoposte alla misura della ”grande sorveglianza” e di queste 19 lo erano anche al momento del suicidio.

Sono circa 4.000 i figli di donne detenute nelle carceri italiane. Di questi, 22 alla fine di aprile vivevano in carcere con la propria madre. Erano 2.480 alla fine del mese di aprile le donne detenute nelle carceri italiane, pari al 4,4% della popolazione carceraria complessiva. Una percentuale sostanzialmente stabile nel tempo, che non raggiunge i cinque punti dagli inizi degli anni ’90 del secolo scorso. Sono ospitate in parte nelle quattro carceri femminili presenti in Italia, che si trovano a Roma (dove il carcere femminile di Rebibbia, con le sue 337 detenute per 275 posti letto ufficiali, si impone come il più grande d’Europa), a Venezia, a Pozzuoli e a Trani. Gli Istituti a custodia attenuata per madri di Lauro, Milano e Torino ospitano 15 donne complessivamente. Le restanti 1.853, pari ai tre quarti del totale, vivono nelle 45 sezioni femminili attive in questo momento all’interno di carceri a prevalenza maschile. Le detenute straniere sono nettamente calate negli ultimi quindici anni. Se oggi costituiscono il 30,2% del totale delle donne detenute, nel 2013 coprivano circa dieci punti percentuali in più. Le nazionalità più rappresentate sono la rumena e la nigeriana.

Nel 2022 sono state presentate 1.180 domande di riparazione per ingiusta detenzione, di cui 556 sono state accolte. La ‘parte da leone’ la fa Reggio Calabria: 103 domande accolte pari a oltre 10 milioni di euro, del totale che lo Stato nel 2022 ha pagato, ossia 27.378.085 euro. Nel 2022, si legge ancora nel dossier, sono arrivate agli uffici di sorveglianza italiani 7.643 richieste di risarcimento – in base all’articolo 35-ter dell’ordinamento penitenziario – per aver subito un trattamento inumano o degradante durante la detenzione, tendenzialmente per assenza di spazio vitale. Le richieste che sono state decise nel corso dello stesso anno sono state 7.859: di queste, 4.514 (pari al 57,4%) sono state accolte. Gli accoglimenti erano stati 3.115 nel 2018, 4.347 nel 2019, 3.382 nel 2020 e 4.212 nel 2021. Sorprende, secondo Antigone, la disomogeneità del tasso di accoglimento tra i diversi uffici: se la media nazionale nel 2022 era superiore al 50%, guardando al dato per ufficio si va da situazioni come Bologna (27,2%), Catanzaro (27,3%) o Roma (26,2%) ad altre come Brescia (82,3%), Potenza (80,6%) o Trento (83,6%). L’articolo 35-ter prevede, in particolare, una riduzione della pena di un giorno per ogni dieci giorni passati in condizioni inumani e degradanti o, per chi ha già ultimato di scontare la propria pena, il riconoscimento di 8 euro per ogni giorno passato in tali condizioni.

Buon giovedì.

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L’onda nera resuscita le correnti. E nel Pd parte il processo a Elly

Il segnale è la missione rinviata a Bruxelles. Dopo la batosta alle elezioni amministrative la segretaria del Pd, Elly Schlein, ieri avrebbe dovuto volare a Bruxelles per incontrare suoi eurodeputati e discutere dell’importante voto di giovedì sul piano “Asap” con cui la commissione vorrebbe accelerare sull’invio di armi e munizioni all’Ucraina. La posizione della segretaria è sempre la stessa: massimo sostegno all’Ucraina ma che nessuno tocchi i soldi del Pnrr per investirli in armi.

Partito il logoramento in vista delle Europee. Il voto è lontano ma nel Pd è già guerra sulle candidature

All’interno dell’eurogruppo (come anche tra i parlamentari) invece sono in molti a temere che questa rigidità possa essere letta come un affievolirsi del sostegno a Kiev. Anche sulla guerra in Ucraina Schlein è schiacciata su due fronti, accusata di essere troppo moderata sia dalla parte più atlantista che da quella più pacifista del partito. Il viaggio è stato cancellato, dal Nazareno fanno sapere che “l’incontro si svolgerà online” ma è malumore che si aggiunge ai malumori.
Restare a Roma, spiega un deputato vicino alla segretaria, è anche una risposta a chi nel partito accusa Schlein di “evanescenza”, di essere stata troppo assente in queste ultime settimane e di essersi dedicata solo all’Emilia Romagna con il suo cerchio magico che tra alcuni suoi deputati è diventato il “tortellino magico”.

Nessuno si sogna di mettere in discussione l’utilità e l’opportunità della segretaria di recarsi nelle zone alluvionate ma i territori lamentano troppa disattenzione nei giorni caldi del ballottaggio. Qualcuno bisbiglia che avrebbe voluto vedere la sua segretaria molto “più presente e forte” sul “disastro di Fitto sul Pnrr”, altri sottolineano come ci sarebbe da lavorare per ottenere la nomina di Bonaccini commissario (che sembra ormai sfumata) e per risolvere una volta per tutte la questione delle presidenze dei gruppi. Tutte questioni che i dirigenti del partito vorrebbero affrontare nella direzione del partito che non è ancora stata convocata dalla segretaria. “Verrà convocata presto”, dicono dal Nazareno. Ma quel presto per la minoranza è già troppo tardi. Malumore che si aggiunge ai malumori.

Così mentre Schlein appare sempre più arroccata e assente dal dibattito pubblico la minoranza ha gioco fin troppo facile per caricare la narrazione logorante con cui, com’è nella natura del Pd, si cucinano i segretari prima di mangiarseli. La rotta la si può intuire dalle parole di Alessia Morani, ex parlamentare Pd e membro della commissione di garanzia dem, che nega che la “responsabilità” della sconfitta sia totalmente “in capo alla nuova segretaria nazionale” ma dice di non accontentarsi di avere il “vento forte di destra” come unica spiegazione: “Nella situazione in cui versa oggi il Pd – spiega Morani – dopo anni di scissioni, segreterie a dir poco confuse ed un congresso lungo 6 mesi in cui gli iscritti hanno indicato Bonaccini e alle primarie Schlein, non mi pare di potere dire che la condizione del partito unito sia realizzata”.

Il “disagio della parte più riformista e moderata” di cui parla Morani è il richiamo per chi ha orecchie per intendere: Base riformista non è contenta e il trucco sarà di continuare a chiedere “unità” fingendo di non sapere che è il sinonimo dolce di un desiderio di disarcionamento. È il peccato originale di questo Pd in cui le segreterie si consumano per fare sintesi tra differenze che non sono politiche ma sono solo strategia. Così la segretaria (o il segretario) di turno spendono gran parte delle energie per tenere a bada una disputa interna che è incomprensibile e non interessa.

L’opposizione – accade nei partiti e in Parlamento – è molto più comoda del governo e così è bastata qualche telefonata ai giornalisti giusti per raccontare le sconfitte come una “sconfitta di Schlein” e la vittoria a Vicenza con il sindaco Possamai come “una vittoria dei riformisti del partito”. Basti vedere come la minoranza dem stia sparando a palle incatenate contro Marco Furfaro, Marta Bonafoni, Francesco Boccia e Peppe Provenzano usando come clava i risultati dei loro territori. Quelli che invocano “l’unità del partito” sono gli stessi che allargano le crepe per scippare uno spicchio di sole.

“Misuratemi alle prossime elezioni europee”, dice Schlein ai suoi. Un’ingenuità che le potrebbe costare cara. Alle prossime elezioni europee (soprattutto dopo questi risultati alle amministrative) la troppa cautela della segretaria e il parossistico ardore della minoranza interna difficilmente partoriranno le liste che Schlein ha in mente. Sono troppi gli equilibri che la segretaria si illude di poter ancora preservare. Incombe il risultato alle europee del Pd che fu di Renzi (che già ieri qualcuno ha sfoderato come sciabola) e lo spettro di Bonaccini che potrebbe dimettersi dalla Regione Emilia Romagna per correre.

Infine ci sono le alleanze, di cui Schlein dice di non voler parlare ma che sono un elemento matematico imprescindibile. Gli appelli a Giuseppe Conte e al M5S sono caduti finora nel vuoto. Anche ieri Conte ha rifiutato di discuterne: “Siamo disposti a dialogare col Pd, ma su temi e sui progetti, misurandoci su delle proposte concrete ai bisogni delle comunità territoriali e della comunità nazionale, senza compromettere o annacquare le nostre principali battaglie”, ha detto ieri ai giornalisti tradendo un timore elettorale più che ideale.

Carlo Calenda azzarda una timida apertura ma ribadisce il suo “no al M5S”. “Si vince con una coalizione riformista”, dice il segretario di Azione, “non con un’accozzaglia”. L’incaglio è sempre quello. Di Matteo Renzi nemmeno parlarne ché, dice un parlamentare dem vicino alla segretaria, “ne abbiamo già troppo dentro il nostro partito”. Così nel Pd – roba da non crederci – a pochi mesi dalle elezioni della nuova segreteria c’è già chi lancia, come il sindaco di Pesaro coordinatore dei sindaci del Partito democratico, Matteo Ricci, una “Costituente vera del nuovo Pd” come “fase di rigenerazione, di riflessione e riorganizzazione guidata dalla nuova leadership del Pd per un nuovo centrosinistra”.

All’orizzonte c’è il solito finale già scritto: una segretaria che non riuscirà a tenere il partito e che non potrà nemmeno avere la soddisfazione di essere sconfitta sulle sue idee, sformate dalla sleale mediazione interna. Non vale la pena rischiare di perdere integri prima di perdere bolliti?

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Chiede del budget e la licenziano. Metodo Jobs Act al Riformista

Oneri e onori. Onori: Matteo Renzi giornalista può togliersi la soddisfazione ogni giorno di usare un quotidiano (il Riformista) per martellare i suoi avversari e perfino i suoi amici (chiedere a Carlo Calenda). Oneri: l’editore di Matteo Renzi politico, quell’Alfredo Romeo coimputato con il padre di Matteo in un filone romano della mega inchiesta nata dagli appalti Consip, ha licenziato in modi più che discutibili quella che doveva essere vicedirettrice di Piero Sansonetti a l’Unità.

Da direttrice de l’Unità.it in pectore al siluramento. L’incredibile vicenda di Angela Azzaro al giornale di Romeo

A raccontarlo è Angela Azzaro, già firma storica de il Riformista (di cui Romeo è editore, come per l’Unità) che sottolinea come un licenziamento che lei ritiene ingiusto sia potuto accadere proprio sotto l’egida del giornale fondato dal Antonio Gramsci: “Venerdì tardo pomeriggio – racconta Azzaro sul suo profilo Facebook – sono stata chiamata dal responsabile Risorse umane della Romeo edizioni e sono stata prima licenziata e poi cacciata in malo modo dalla redazione, senza neanche avere il tempo di parlare con il direttore Sansonetti che in quel momento era fuori e senza avere neanche il tempo di fare mente locale per capire quali effetti personali portare via”.

Azzaro racconta che le era stata offerta la direzione dell’Unità on line: “Nella prima riunione fatta con Sansonetti (direttore de l’Unità dopo esserlo stato de Il Riformista) e con l’editore, ho chiesto conto delle risorse con cui affrontare la nuova sfida. Quanti giornalisti? Quale budget? La riunione si è chiusa bruscamente e nel giro di due giorni mi è stato comunicato che non sarei stata più direttrice dell’online. Il direttore in quell’occasione mi ha ribadito che sarei rimasta con lui alla vicedirezione dell’Unità. Conferma arrivata sempre da parte del direttore anche qualche giorno prima dell’uscita”.

Poi cambia tutto. “Il giovedì prima del debutto – spiega Azzaro – nuovo capovolgimento: mi si comunica che sull’Unità non sarebbe stato indicato neanche l’incarico di vicedirettrice. Dopo altre due settimane, cioè venerdì, mi è stata consegnata la lettera di licenziamento “per giustificato motivo oggettivo” legato – scrivono – agli investimenti sostenuti per l’acquisizione dell’Unità e alle perdite legate al Riformista nel 2022”. Nella lettera di licenziamento la Romeo edizioni comunica “la soppressione della posizione lavorativa” in quanto “ritenuta superflua e non necessaria”.

Come possa diventare in così breve tempo “superflua” una giornalista che era stata indicata come vicedirettrice è un mistero. La Commissione Pari Opportunità della Federazione nazionale della Stampa e l’associazione GiULiA giornaliste sottolinea il paradosso: “Tutto ciò a poche settimane dalla sua nomina a direttrice dell’Unità online (decaduta non appena lei ha chiesto notizie sul budget) e quindi da vicedirettrice del giornale cartaceo”. Stampa Romana parla di “un episodio grave che evidenzia ancora una volta quanto il quotidiano edito da Romeo sia distante dalla storia del giornale fondato da Antonio Gramsci”.

A Angela Azzaro non è stato nemmeno concesso (lo racconta lei stessa) liberare la scrivania dai suoi effetti personali. Nessun commento arriva da Alfredo Romeo, bocca cucita anche per il direttore de l’Unità Piero Sansonetti. Nessun commento, ovviamente, da Matteo Renzi (né il politico né il giornalista) su un licenziamento che sembra un inno al mondo del lavoro che sputa i vecchi arnesi diventati inutili, come nella migliore ideologia del Jobs Act. Oneri e onori. Il politico Matteo Renzi dimostra una singolare attitudine nel dimenticare di difendere i giornalisti dai suoi amici. Gramsci intanto si starà rivoltando nella tomba.

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Pronta la rivoluzione di Erdogan

Il primo report post elettorale dell’Osce-Odhir parlano di elezioni svolte in forma “sostanzialmente corretta”, altri credono che siano state tutt’altro che eque. Recep Tayyip Erdoğan è stato eletto per la terza volta (la prima è stata nel 2003) presidente della Repubblica turca con il 52% dei voti.

Erdogan è decisivo per bloccare i flussi migratori verso l’Ue. Con il piede in due staffe, in Ucraina tra Mosca e gli Usa

Agli osservatori non è sfuggito il senso di arringare la folla dopo la vittoria dal palazzo presidenziale, rinunciando al balcone della sede del suo partito Giustizia e Sviluppo (Akp). Il presidente turco vuole apparire come il rappresentante delle istituzioni, allontanato l’idea di un Paese fortemente diviso. Il risultato del suo oppositore Kemal Kilicdaroglu, nonostante il boicottaggio mediatico e giudiziario (quasi 300 arresti solo tra il primo e il secondo turno). Sul fronte interno è molto probabile che l’alleanza eterogenea che si era costituita per sfidare il sultano Erdoğan si sciolga.

I sei partiti che la compongono vanno dal secolare centrosinistra del CHP a partiti nazionalisti e partiti islamisti. Sfruttando questo momento di debolezza dell’opposizione Erdogan ha già lanciato la campagna elettorale per le elezioni del prossimo anno per riprendersi le principali città turche attualmente in mano all’opposizione, vincitrice nel 2019 con il sostegno dei curdi. Nel suo primo discorso dopo la vittoria di domenica Erdoğan l’ha detto: “Sarò qui finché non sarò nella tomba”.

Cambiare la Costituzione per potersi ricandidare ad una delle sue prossime battaglie politiche. Ma il primo scoglio per il presidente turco è sicuramente l’economia. In vista delle elezioni Erdoğan ha mantenuto bassi i tassi di interesse forzando la Banca centrale e ha dovuto alzare i salari minimi approvando alcune misure di welfare per non perdere i suoi elettori più fedeli. Un po’ di ossigeno gliel’hanno concesso i finanziamenti dei Paesi del Golfo (Qatar in primis) e la dilazione dei pagamenti del gas russo ma l’inflazione al 50% (che ha toccato punte dell’80%) e la svalutazione della lira turca potrebbero presagire un imminente crollo. La Banca centrale non ha più riserve e secondo The Economist sarebbero almeno 70 i miliardi di euro da restituire. La partita, ancora una volta, si giocherà sugli scenari internazionali.

Erdoğan punterà sull’immagine di un Turchia indipendente (o bifronte, secondo qualcuno) che solidamente sta nella Nato e intanto dialoga con la Russia di Putin, come avvenuto per il negoziato sul grano. Da Putin Erdoğan ha ottenuto supporto per l’approvvigionamento energetico di gas e per la costruzione di nuove centrali nucleari. Con l’Unione europea non faticherà a far valere il proprio ruolo di tappo a cui subappaltare i confini dell’Europa. Per quanto riguarda i siriani Erdoğan vuole rimpatriare almeno un milione di rifugiati ma per farlo deve prima arrivare ad un accordo con il governo di Damasco, che chiede in cambio il ritiro delle truppe turche presenti nel nord della Siria.

Sul fronte dell’immigrazione la Turchia ha già dimostrato di poter frenare la rotta balcanica (con buona pace del diritto internazionale e dei diritti umanitari) facendo pagare a caro pezzo (6 miliardi di euro) il proprio servizio. Continuerà a farlo. In cambio l’Unione europea continuerà a fingere di non vedere i diritti calpestati in Turchia. Nel suo discorso dopo la vittoria Erdoğan ha promesso di proteggere la sacralità della famiglia tradizionale, si è espresso ancora una volta contro la comunità Lgbtqia+ e ha accusato la minoranza curda di terrorismo, promettendo di lasciare in carcere Selahattin Demirtaş, ex presidente del partito filo-curdo Hdp in galera dal 2016.

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Torriero: “Troppe ambiguità nella destra italiana. Il sovranismo pragmatico è rischioso”

Fabio Torriero insegna comunicazione politica all’Università Lumsa di Roma. Con lui abbiamo discusso della destra che verrà, in Italia e in Europa, dopo la vittoria in Spagna.

Torriero, in Spagna Sanchez ha deciso, si andrà a nuove elezioni.
“Innanzitutto onore a lui. La sconfitta, anche se erano elezioni parziali, e la sensazione di un vento che sta cambiando l’hanno portato alle dimissioni. La Spagna tra le altre cose assumerà la presidenza del Consiglio europeo a luglio, quindi doppio onore. Tutto lascia prefigurare uno spostamento a destra del futuro Parlamento europeo. Basta pensare alla Spagna, l’Italia, la Finlandia. Macron non se la passa molto bene. La stessa vittoria di Erdogan – anche se non è annoverabile con il resto – indica uno spostamento a destra. Si torna all’accordo di cui si sta parlando in Europa tra Ppe e Conservatori”.

Accordo che avrebbe Giorgia Meloni in prima fila. Però non sembra che la destra italiana sia moderna come molte altre che vediamo in Europa. Qui siamo al patriottismo quasi pittoresco…
“La forma è sostanza. Se è vero come dice Donzelli che Fratelli d’Italia sia pronto a abbandonare la fiamma significa che si vuole costruire un nuovo partito conservatore disposto a rinunciare al passato. È una delle condizioni necessarie. Non è un tema di lana caprina. E questo richiama all’ambiguità di Fratelli d’Italia che io vedo: la sindrome elettorale, la chiamo. Quando si va al voto cercano di sommare più mondi possibili (europeisti, euroscettici, liberali, statalisti, cattolici, laici) e poi quando vanno al governo non riescono a sintetizzarli. Tutte queste componenti non producono una cultura moderna e omogenea. Anche perché le sintesi vanno fatte verso il nuovo, non verso il vecchio. Anche la comunicazione che vediamo a Palazzo Chigi non è così efficace come quando Meloni stava all’opposizione”.

Ma queste uscite come “la sostituzione etnica” sono solo sbavature pittoresche o rivelano i limiti della classe dirigente?
“Se parliamo di classe dirigente non all’altezza mi pare una riflessione trasversale. Io che ero uno che ha combattuto la Prima Repubblica ogni tanto ho qualche nostalgia almeno per la forma mentis. Quando lanci una campagna culturale devi avere una solidità, altrimenti rimane tutta slogan. La Russa e Lollobrigida chiedono scusa, fanno marcia indietro ed è un errore dal punto di vista comunicativo. Anche perché destra e sinistra rappresentano due modelli contrapposti e incompatibili. Allora la destra faccia la destra – senza essere becera – e la sinistra faccia la sinistra. Se parliamo di destra moderna e di destra antica una riflessione sulle nuove povertà e sulle nuove indigenze la destra la deve fare. Non è che la destra non si sia resa conto del mondo che si è evoluto ma mantiene quell’ambiguità di fondo che non ha risolto perché deve strizzare l’occhio a un certo target legato al passato e vuole proiettarsi al futuro. Ora siamo al “sovranismo pragmatico” ma è una strada molto rischiosa. Anche perché di Fondo Meloni ha confermato molte scelte di Draghi. Sul sovranismo per ora c’è solo il cambio di nome dei ministeri”.

Salvini può essere un problema
“Sul patto Conservatori-Ppe Forza Italia sembra d’accordo. Salvini evidentemente gioca nel gioco. Ha chiesto ai suoi un anno per tornare in auge, nella sua comunicazione gli interessa più la visibilità legata alla risalita della Lega che la compattezza del governo”.

E il centrosinistra italiano?
“Dovranno lavorare per il dopo Meloni, quando ci sarà. Devono creare un nuovo modello. Ma senza il Terzo polo è destinata all’opposizione”.

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Sballottaggi

La sconfitta è netta, per più di un motivo. Non c’è solo quel sonoro 6 a 1 che dice chiaramente le proporzioni: l’unica vittoria del Pd (Vicenza) è quella di un sindaco che con la “svolta” di Elly Schlein c’entra molto poco. Giacomo Possamai è una trentatreenne fieramente moderato e vicinissimo a Enrico Letta che non ha voluto i “big” del partito (vecchi e nuovi) per la sua campagna elettorale. C’è un altro dato: il Partito democratico e il centrosinistra hanno perso il tocco magico nei ballottaggi in cui spesso la spuntava. Tanto da indurre la destra a ipotizzare di eliminarli dal meccanismo elettorale.

L’onda della destra è forte e chiara. Inutile nasconderlo. È un vento che spira in tutta Europa e che potrebbe cambiare gli equilibri alle prossime europee se Ppe e Conservatori troveranno l’accordo. Elly Schlein ci mette la faccia: «è una sconfitta netta», dice, «ci vuole tempo per costruire una sinistra vincente e il fatto che il Pd sia il primo partito nel voto di lista non può essere una consolazione». Inevitabilmente ora le salteranno al collo. Lo farà la destra (sta nelle regole d’ingaggio della tenzone politica) e lo stanno facendo stamattina i giornali vicini al cosiddetto Terzo polo e al Movimento 5 Stelle. Qui sta la debolezza dell’aspirante centrosinistra: non esiste. Quando Schlein dice che «il Pd da solo non ce la fa» non si riferisce solo a una questione meramente matematica: il “campo largo” che sognava Letta si è infeltrito ed è diventato un arcipelago di isole che non vogliono ponti.

Il cosiddetto Terzo polo e il Movimento 5 Stelle hanno collezionato risultati pessimi, in alcune città quasi inquietanti, ma sono riusciti a ritagliarsi una posizione comoda: colpa di Elly. Nei tempi brevi non c’è nessuna voglia di organizzare un’opposizione degna di questo nome in Parlamento e qui fuori. La paura di farsi logorare da qualche alleato è più forte di qualsiasi senso di responsabilità. E la destra, com’è normale che sia, vince. Ma se è vero che nella strategia del cosiddetto Terzo polo la segretaria del Partito democratico è un elemento disturbante non si capisce cosa ci guadagnino Giuseppe Conte e Schlein nel guardarsi in cagnesco. Anzi, ci guadagnano la speranza di limare qualche voto che non serve a niente e a nessuno.

Due mesi sono troppo poco per aspettarsi un cambiamento di rotta dalla nuova segreteria ma Elly Schlein una rotta la deve indicare il prima possibile. L’”effetto Schlein” non durerà per sempre, sicuramente non fino alle prossime elezioni europee. È vero che il partito è salito nei sondaggi ma manca la risposta alla domanda chiave: “come faremo a vincere?”, chiedono gli iscritti e gli elettori. Ci sono due possibilità: aspettare che passi l’onda della destra (è la soluzione più facile) oppure fare e organizzare l’opposizione.

Buon martedì.

Nella foto: Elly Schlein, frame del video sul commento sui risultati alle amministrative

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Dio, Patria, famiglia e… l’italiano. Il Bestiario linguistico della destra

Ci hanno provato con la razza, poi con l’etnia, poi con il ceppo e ora hanno trovato la leva: la lingua. L’idea è del senatore di Fratelli d’Italia Roberto Menia che ha depositato un Ddl per mettere mano addirittura alla Costituzione. Obiettivo: aggiungere all’articolo 13 il comma “L’italiano è la lingua ufficiale dello Stato. Tutti i cittadini hanno il dovere di conoscerlo e il diritto di usarlo”. Il senatore ha già pronto anche lo slogan: “Sacralizzare la lingua italiana – spiega – riconoscendola costituzionalmente è al tempo stesso riconoscere un patrimonio inestimabile e assieme proiettarlo nel futuro!”.

Menia vuole inserire la nostra lingua in Costituzione. Per difenderla dalla presunta invasione di migranti

L’urgenza di inserire la lingua Italiana in Costituzione, secondo il senatore di Fratelli d’Italia, è urgente “per una pluralità di motivi”. Innanzitutto, dice Menia, perché “nel secolo della globalizzazione vanno mantenuti e rafforzati gli elementi identitari che danno un senso comune alla vita di una nazione” la lingua quindi diventa “elemento costitutivo e identificante della comunità nazionale, a prescindere dalle diversità locali”.

Dalle parti di Giorgia Meloni devono avere pensato che se la lingua “contiene tutti gli elementi qualificanti la storia e l’identità del popolo che la parla” allora la si può usare tranquillamente al posto della razza senza incorrere nelle sculacciate del Presidente della Repubblica e della comunità internazionale. Spiega Menia che “nell’articolazione del linguaggio non c’è soltanto l’espressione del pensiero in termini comprensibili, ma vi si condensano esperienze, relazioni, contatti, abitudini, vicende, aspirazioni e creazioni che, nel loro insieme, rappresentano l’evoluzione secolare di una comunità, cioè la sua identità nazionale”.

Il ceppo, l’etnia, la lingua. Ma l’invasione? Leggendo il testo del Ddl si trova anche quella: secondo il senatore rinsaldare il valore unificante della lingua serve “anche di fronte ad alcuni segnali negativi che vengono da alcune parti del territorio nazionale, in cui la centralità della lingua italiana è messa seriamente in discussione”. Eccoli qui, i nemici. L’idea di usare la lingua – strumento per aprirsi – per chiudersi è il cortocircuito della cultura di questa destra.

L’iniziativa fa il paio con il disegno di legge di un nutrito gruppo di senatori Fdi (prima firmataria la senatrice Giovanna Petrenga) che vorrebbero coinvolgere l’Unesco per salvare il liceo Classico. “Latino e greco – scrivono i senatori di Fratelli d’Italia – vengono considerate lingue non più parlate (infatti non lo sono nda), senza alcuna utilità pratica ed immediata, morte, e in quanto tali inutili, sebbene il nostro Paese abbia ovunque monumenti ed opere che riportano frasi in latino e corsi di laurea importanti dove la conoscenza di parole nelle lingue latina e greca non è affatto trascurabile. Nuove generazioni di laureati italiani che non sono in grado di leggere il significato di una scritta in latino su un monumento al contrario di molti loro coetanei stranieri”. Per in leggere i cartelli sui monumenti. Non stanno scherzando.

Del resto proprio ieri il ministro alla Cultura Gennaro Sangiuliano, dopo averci fatto sapere di essersi “imposto” di leggere un libro al mese come se fosse un’afflizione” ha annunciato di voler regalare un libro a ogni nato. Peccato che nell’età dai 4-14 anni il 96% dei ragazzi e delle ragazze ha letto almeno un libro non scolastico nell’ultimo anno. I libri andrebbero fatti leggere agli adulti che li vedono come questione di “disciplina” e non come opportunità. Cioè a quelli esattamente come il ministro Sangiuliano.

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Dove sono quei 500? Riportati all’inferno (e sono 600)

Le centinaia di disperati che farcivano un’imbarcazione alla deriva nel Mediterraneo di cui dal 24 maggio non si è occupato nessuno sono tornati nell’inferno libico, probabilmente respinti illegalmente per l’ennesima volta dal governo di Malta. A farcelo sapere sono i libici, feroci, fieri, con un video pubblicato dalla cosiddetta Guardia costiera libica. Nel filmato un cittadino egiziano racconta che il peschereccio è stato intercettato sulle coste di Malta e riportati in Libia dalle forze militari.

Per l’ennesima volta Malta se ne fotte dei trattati internazionali, dei diritti umani e del diritto all’asilo. La nave era stata intercettata il 24 maggio dalla Ong Alarm Phone che aveva inutilmente allertato l’Italia e Malta. Il Life Support di Emergency, la ong Sea Watch e  Ocean Viking hanno inutilmente pattugliato la zona cercando l’imbarcazione ma avevano dovuto fermare le ricerca per il peggioramento del tempo.

Le persone detenute (tra cui un neonato, 45 donne, alcune in gravidanza, e 56 bambini sono ora in un centro di detenzione libico dove mancano i servizi più elementari e dove verranno sistematicamente sottoposti a violenze, sevizie, stupri e torture. I centri di detenzione libici – che rientrano nell’accordo Italia-Libia – sono o sacchetti dell’umido dei nostri errori e dei nostri orrori.

Comunque vada a finire per loro, se ci capiterà di incrociarli da vivi o da morti, tra le molte cicatrici sulla loro pelle ci sarà questa il segno di quest’Europa che li ha deliberatamente riportati nei lager perché hanno commesso l’imperdonabile orrore di volersi salvare.

Buon lunedì.

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