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La verità, vi prego, sul ponte

Riuscire a trasformare la costruzione di un ponte in un’opera di ideologia è sinonimo dell’arretratezza ideologica e del dibattito del Paese. Normale quindi che il Ponte sullo Stretto sia soprattutto un tassello di propaganda – uno dei più costosi – che viene agitato per rappresentare un paradigma. Naturale anche che il costosissimo mausoleo che a destra da decenni sognano di intestarsi sia finito tra le mani di Matteo Salvini, campione della politica così schiacciata sulle immagini da avere perso qualsiasi simulazione dei contenuti.

Al di là della propaganda spiccia sul “partito del no”, rimane sempre la stessa domanda: a chi conviene il Ponte sullo Stretto?

Quei 14,6 miliardi che andranno spesi per la costruzione meriterebbero però anche un’analisi dei costi e dei benefici e anche per questo vale la pena leggere il report “Lo Stretto di Messina e le ombre sul rilancio del ponte” pubblicato nei giorni scorsi da un pool di esperti di Kyoto Club, Lipu e Wwf, con il contributo di numerose associazioni ambientaliste e della società civile, tra le quali il Coordinamento Invece del ponte – cittadini per lo sviluppo sostenibile dello Stretto.

All’interno delle 50 pagine si ricostruisce l’incredibile ritorno di un’idea riesumata dal governo Meloni con qualche riga all’interno della Legge di bilancio, dopo avere revocato la liquidazione di una società che da semifallita si ritrova a essere ora capofila nella realizzazione e gestione dell’opera (Stretto di Messina SpA) e dopo avere calpestato giudizi civili pendenti per resuscitare il progetto del 2011 di Eurolink.

Nel rapporto non si legge solo dell’assurdità di voler erigere un ecomostro di Stato in una delle zone più sismiche d’Europa ma si sottolineano i vantaggi economici inestinti che la rendono un’operazione fallimentare. Il progetto del ponte con una luce di 65 metri (com’è quello attuale) bloccherebbe il transito delle navi portacontainer maggiori in rotta verso Gioia Tauro, il più importante scalo italiano e allungherebbe il tragitto delle navi provenienti da Genova, Napoli, Livorno e Salerno.

Secondo gli ambientalisti, in base alle norme nazionali ed europee non si può poi riattivare l’intesa con il general contractor Eurolink, sciolta per legge nel 2013, ma occorre rifare la gara. Dal valore originario di 3,9 miliardi del 2003, il costo di riferimento sale oggi a 6,065 miliardi e il tetto entro può crescere senza gara (in base al Codice degli Appalti e alla direttiva 24 del 2014) è poco più di 9, molto sotto i 14,6 (quasi un punto di Pil) indicati dal governo.

Le carenze di analisi del governo fanno sì che i privati non siano disponibili a partecipare all’opera, tanto che il piano economico e finanziario pone a totale carico pubblico il rischio finanziario sia dell’investimento che della gestione. Non ripagheranno l’opera i pedaggi, non la ripagheranno i pochi pendolari quotidiani (circa 4.500) e le ricadute occupazionali sarebbero solo a breve termine. Quindi, al di là della propaganda spiccia sul “partito del no”, rimane sempre la stessa domanda: a chi conviene il ponte?

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Perché in Italia l’antimafia è sempre più debole

Breve riassunto dello stato dell’arte della cultura antimafiosa – e quindi dello stato della lotta alla mafia – nel Paese a cui sta passando finanche la voglia di celebrare stancamente Falcone e Borsellino. Nell’anniversario della morte di Giovanni Falcone a Palermo la sorella Maria è stata al centro delle polemiche per avere posato sorridente in foto con il sindaco di Palermo Roberto Lagalla, sostenuto
pubblicamente da Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro in campagna elettorale. Lagalla, dicono i critici, non ha mai preso le distanze da due condannati di mafia, Maria Falcone ha accorciato le distanze con il sindaco. Qualcuno sbologna la polemiche riferendo una fastidiosa “cultura del sospetto” ma senza l’intelligenza del dubbio (che con lo studio può evolversi in sospetto) l’antimafia in questo Paese non sarebbe mai esistita.

Giovanni Falcone (secondo da sinistra), circondato dagli uomini della scorta (Getty Images)

Morvillo: “Spesso segnali che invitano a convivere con ambienti in odore di mafia”

Sicuramente questo 31esimo anniversario è passato sotto tono. Il sindaco Lagalla ha potuto pomposamente annunciare la donazione di un palazzo comunale alla fondazione Falcone dove nascerà un museo intitolato a Falcone e Borsellino. Tenere i miti sotto teca è da sempre il modo migliore per renderli inoffensivi. Nel trentunesimo anniversario della strage di Capaci ha preso carta e penna Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, la moglie morta con il giudice e tre uomini della scorta. “Troppo spesso i cittadini ricevono dall’alto segnali che invitano a convivere con ambienti notoriamente in odore di mafia”, dice Morvillo, ex procuratore di Trapani, riferendosi chiaramente a Maria Falcone. “Se si vuole concretamente dare un seguito alle parole di Paolo Borsellino, – scrive Morvillo in una lettera uscita su Repubblica – dobbiamo adoperarci per tenere lontano dalla nostra vita tutto ciò che ha anche il più lieve odore di mafia. Anche quando queste scelte comportano la rinuncia a godere di quegli aiuti, di quegli appoggi che ben noti ambienti politico-mafiosi sono in grado di assicurare”.

Il monumento a Capaci, nel luogo dell’attentato in cui morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta (GettyImages)

Ricercare la verità sulla stragi di mafia è passato di moda

Nell’anniversario della morte di Giovanni Falcone la ricerca della verità è una moda appassita, spazzata via dal frastuono delle fanfare. Sembra già dimenticato il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana, non è più un’urgenza conoscere le catene di comando dei servizi che
acconsentirono alla manipolazione delle indagini, né gli affidavit politici che ricevettero dal governo dell’epoca. Le bugie su via d’Amelio sarebbero opera di qualche poliziotto e un funzionario. Riuscire a commemorare una storia senza pretendere che venga raccontata per intero definisce la debolezza di un’antimafia diventata rito, sfilata di scorte e baci sulla guancia. Il 23 maggio di quest’anno si sono separati anche i cortei. Il corteo di CGIL e dei coordinamenti cittadini hanno deciso di andare da soli perché stanchi «delle passerelle» e di «una narrazione deviata della lotta mafia che non ci rappresenta». Leggendo i giornali si potrebbe credere che ci fosse il corteo ufficiale dei ben vestiti e che quell’altro fosse un accrocco di esagitati. Così è stato più facile raccontare le bastonate della Polizia come una normale azione di ordine pubblico contro disturbatori scapigliati. I manganelli nel giorno di Falcone contro un corteo antimafioso sono un evento gravissimo mai accaduto a Palermo nel giorno di Capaci ma il nervo dello sdegno e la pupilla per l’analisti sono stanchi per questi tre decenni di retorica.

Una protesta contro la mafia (Getty Images)

L’arresto “morbido” di Matteo Messina Denaro

Nel trentunesimo anniversario della morte di Giovanni Falcone, di sua moglie e di tre uomini della sua scorta, Matteo Messina Denaro è diventato un orpello al pari delle sue calamite di Masha e Orso che teneva sul frigorifero. Abbiamo saputo tutto quello che c’era da sapere sui suoi intrecci amorosi, abbiamo ascoltato i suoi goffi corteggiamenti via WhatsApp e ci siamo appassionati alle gesta dei suoi vivandieri. La sua rete di protezione è stata descritta come un reticolo di fruttivendoli e formaggiai. Al massimo si è accennato ai favori di qualche politico locale. Un arresto così morbido Messina Denaro non l’avrebbe potuto desiderare nemmeno nei suoi auspici migliori.

I resti della Fiat Croma su cui viaggiavano Giovanni Falcone, la moglie e la scorta al momento dell’attentato (Getty Images)

Le polemiche su Colosimo presidente dell’antimafa

Nel trentunesimo anniversario della morte di Giovanni Falcone “simbolicamente” il governo ha voluto insediare la Commissione parlamentare antimafia “per dare un segnale”. C’è da ringraziarli perché leggendo gli editoriali di alcuni “intellettuali” di destra abbiamo creduto che questo fosse l’anno buono per dichiarare la mafia sconfitta e la Commissione antimafia esaurita. Hanno pensato che fosse meglio svuotarla, probabilmente, e hanno scelto come presidente Chiara Colosimo che ha il merito di essere molto “vicina” alla presidente del Consiglio. Le nomine per vicinanza e appartenenza sono – lo sanno tutti quelli che studiano le mafie – una componente importante dell’antropologia mafiosa. Colosimo è stata criticata per una foto con il terrorista pregiudicato di estrema destra Luigi Ciavardini. «Solo una foto di un incontro a cui abbiamo partecipato insieme», spiega Colosimo. La nuova presidente della Commissione antimafia è stata contestata dai familiari
delle vittime di mafia. Esagitati, anche loro. Per concludere a Catania, in occasione dei comizi per il ballottaggio delle elezioni amministrative,
la presidente del Consiglio Giorgia Meloni parla delle tasse ai piccoli commercianti come «pizzo di Stato». Il “pizzo” è il contributo estorto dalla mafia agli imprenditori. Quindi per Giorgia Meloni lo Stato è un estorsore al pari della mafia. E lo dice a Catania.

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Onore ai cronisti morti in guerra e querele ai vivi

“Gli occhi degli inviati di guerra sono gli occhi di chi ha il coraggio di stare sul campo, al fianco dei civili, dei soldati, lungo la fragile linea che divide la vita dalla morte. I loro occhi sono gli occhi della guerra. Senza di loro noi saremmo ciechi, senza di loro noi non avremmo la possibilità di sapere davvero cosa accade nei teatri di guerra, facendoci sentire parte di quello che sta succedendo”. Lo ha detto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in un videomessaggio all’inaugurazione della mostra fotografica ‘Bearing Witness’ all’Istituto italiano di cultura di New York.

La giornalista Meloni tace su Rocchelli ucciso dagli ucraini. E dopo Saviano, La Notizia e molti altri querela Canfora

“Io – ha aggiunto Meloni – voglio cogliere questa occasione per ringraziare i tanti professionisti che attraverso questo straordinario lavoro rendono un servizio grandioso all’informazione, al giornalismo, a noi rappresentanti delle Istituzioni che attraverso quegli scatti vediamo una realtà che ci aiuta a prendere delle scelte più consapevoli, fino ai cittadini”.

Peccato che tra i dovuti ringraziamenti la presidente del Consiglio continui a ignorare un giornalista italiano inviato di guerra ammazzato il 24 maggio 2014 che ancora deve avere giustizia. Per l’assassinio di Andrea Rocchelli e del collega russo Andrej Mironov è stato processato Vitaly Markiv, militare della Guardia nazionale ucraina, condannato a 24 anni in primo grado e poi assolto in Appello e in Cassazione. “La nostra è una irrisolta domanda di verità e giustizia – ha detto Elisa Signori, madre di Andy, in un intervento pubblicato sul sito di Articolo21 e ripreso da La Provincia pavese – per un delitto che la magistratura italiana definisce un crimine di guerra, ma su cui si stende l’oblio. L’obiettivo che ci proponiamo è porre fine all’impunità per questo delitto, consapevoli di difendere così la vita di civili e giornalisti che operano in scenari di crisi e di guerra”.

E peccato che il governo di Giorgia Meloni con i giornalisti qui in Italia insista a usare l’arma delle querele come forma di intimidazione: da Roberto Saviano, alle cause a noi de La Notizia fino alla querela annunciata ieri a Luciano Canfora (nella foto) questo governo dimostra di avere una strana idea della libertà di opinione e di stampa, confidando più nell’effetto giudiziario che nel dibattito.

“Un giorno tornerò alla mia professione” di giornalista, “perché ho sempre pensato che la politica sia un passaggio transitorio per tutti e guardo sempre con un occhio di favore a questa professione fondamentale, per la sua capacità di fare il suo lavoro nel migliore dei modi guardando alla responsabilità che si porta dietro con condizioni di libertà e stabilità, anche salariale”, aveva detto la presidente del Consiglio, nella conferenza stampa di fine anno.

Del passato giornalistico della premier e leader di Fratelli d’Italia, si hanno poche tracce ma della sua idea di giornalismo possiamo capire qualcosa. Giorgia Meloni ama i giornalisti di guerra ma i giornalisti di pace Giorgia Meloni li vorrebbe ciechi e sordi, senza occhi e senza orecchie, per poter stare più tranquilla.

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La Romagna annega nel fango. A Roma litigano sul commissario

L’ignobile balletto politico intorno alla nomina del commissario per le alluvioni in Emilia-Romagna registra l’ennesima puntata. Si parte con l’intervista di ieri del presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini (Pd) che ripete che “il tema non è il nome”: “Io spero solo che chiunque scelgano non lo facciano per questioni di consenso senza tenere conto delle urgenze. Sarebbe deprimente. Io ora mi occupo di fare l’amministratore.

L’ignobile balletto politico intorno alla nomina del commissario per le alluvioni in Emilia-Romagna registra l’ennesima puntata

La politica è la mia vita, ma ci sono momenti in cui bisogna metterla da parte e darsi da fare senza tenere conto delle bandiere. Nell’emergenza lo schema politico salta. Io, l’ho già detto, spero solo che il commissario, chiunque sarà, non pensi di poter gestire questa situazione al telefono da Roma. Perché rallenterebbe tutto. Senza un confronto e una collaborazione serrata con gli amministratori di qui, sindaci in primis, la situazione non si risolve”, spiega Bonaccini a Repubblica. Il tema non è il nome ma è un attorcigliarsi continuo intorno al nome.

Giorgia Meloni non ha nascosto il suo fastidio sul dibattito che si è innescato, non mancando l’occasione di accusare i giornalisti di fomentare il chiacchiericcio e dimenticandosi che siano stati proprio i suoi presidenti di Regione (dal presidente della Calabria Occhiuto al veneto Zaia passando per il ligure Toti) a prendere posizione in favore di Bonaccini. “Non mi posso autonominare commissario, né mi interessa quale sarà il mio ruolo.

Ma la cosa certa è che in qualsiasi veste ho sempre dimostrato che ci metto sempre la determinazione per fare ciò che serve a questa terra”, ha detto ieri il presidente della Regione Emilia Romagna, intervenendo alla trasmissione di La7 L’Aria che tira. “Io ci sono e ci sarò finché non avremo ricostruito tutto indipendentemente dal mio ruolo – ha detto Bonaccini -. È il governo che deve decidere cosa fare”.

A stopparlo ci ha pensato subito il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri: “Ha ragione Giorgia Meloni quando dice che la questione del Commissario verrà affrontata a tempo debito. In questi giorni – dice Gasparri – il presidente della Regione Emilia Romagna Bonaccini ha ringraziato pubblicamente per aver avuto la possibilità di incontrare la premier Giorgia Meloni e i ministri competenti a Palazzo Chigi per discutere le azioni da adottare nei territorio colpiti dall’alluvione. Poi, sulla base di diverse valutazioni, sarà il governo stesso a decidere se il Commissario dovrà essere Bonaccini oppure un’altra figura nazionale. Dipenderà dall’entità dell’emergenza”.

Ieri il capogruppo di Fratelli d’Italia Foti ha rilanciato l’accusa contro il presidente dell’Emilia Romagna di non essere riuscito a spendere i fondi del Ministero alle Infrastrtture per la messa in sicurezza dei corsi d’acqua esondati in questi giorni. Dura la reazione del Pd che in una nota congiunta di Marco Simiani, capogruppo Pd in Commissione Ambiente e Virginio Merola Capogruppo Pd in Commissione Finanze di Montecitorio intima alla maggioranza di “gettare discredito sull’operato del governatore Bonaccini: la sua regione, secondo i dati Ispra, visto l’ultimo rapporto del ReNDiS, con 4,4 anni, è infatti la prima, nelle regioni del nord in Italia per i tempi di l’attuazione degli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico, a dispetto del Veneto che è l’ultima con 6,8 anni.

Le fake news, in questo contesto, rilanciate dal Capogruppo di Fdi Foti a Montecitorio su presunte inadempienze, si commentano da sole e hanno come unico scopo quello di giustificare i ritardi del governo sulla nomina del Commissario”, scrivono. Il problema politico di fondo è che Bonaccini insiste, anche nelle sue ultime interviste, a contrapporre l’ambientalismo al lavoro come un Feltri qualsiasi. Parlando dell’obiettivo i consumo di suolo a saldo zero a Repubblica Bonaccini ha risposto che “ci si può anche ragionare. Purché si tenga conto che questa regione, da poverissima che era nel primo dopoguerra, è diventata ricca. E che ha il tasso di disoccupazione più basso del Paese. Oltre ad avere il numero più alto di studenti universitari. E livelli altissimi di welfare.

Insomma che non si commetta l’errore di mettere in contrapposizione ambiente e lavoro, perché sarebbe uno sbaglio madornale”, spiega il presidente. Dare per scontato che solo il nuovo cemento possa essere motore dell’economia è un’idea miope e superata da anni ma sopratutto è un’idea considerata vecchia e sbagliata nella gran parte dei partiti socialdemocratici europei.

Il nocciolo politico della questione (vale a destra e a sinistra) è che non c’è più tempo per le promesse di una classe dirigente che sul consumo di suolo e sulla coscienza ambientalista ha già fallito. Le alluvioni recenti e quelli che verranno sono la plastica dimostrazione di un allarme che richiede una svolta di uomini, di pratiche e di idee. E il balletto sul commissario mentre i romagnoli faticano a ripulirsi dal fango è solo l’ennesimo dibattito fuori fuoco.

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Inutili e con paghe da fame. Professori in rivolta contro i tutor di Valditara

Per il ministro Giuseppe Valditara, manco a dirlo, doveva essere “una rivoluzione”. Il ministro della Scuola e del Merito immaginava 40mila professori delle superiori nei percorsi di formazione per la funzione di tutor e di orientatore, lasciando poi ai dirigenti la selezione tra i professori che avrebbero dovuto candidarsi su base volontaria. Non è andata propriamente così.

Per il ministro Valditara si annuncia un altro flop. Sindacati in rivolta contro i percorsi di formazione per la funzione di tutor e di orientatore

Di “merito” nell’idea del governo ce n’era pochissimo. Il tutor arriverebbe a guadagnare tra gli 2.850 e i 4.750 euro lordi per intervenire su gruppi composti da 30 o 50 studenti. I conti al netto sono semplici: si tratta di poco più di 7 euro all’ora. Dell’inutilità di nuove figure professionali sotto pagate in questa scuola non se ne sente proprio il bisogno.

Come sottolinea Cobas Scuola si tratta di un’ulteriore “perdita di ruolo dei docenti disciplinari e alla destrutturazione del processo didattico-educativo: non saranno più la formazione culturale e la consapevolezza critica a determinare la scelta del percorso post-scolastico, ma le competenze di apprendimenti personalizzati”, dicono i Cobas.

Secondo la Flc Cgil “si tratta di un modello che si sovrappone all’attuale impostazione didattica delle scuole, fondata sulla corresponsabilità dei consigli di classe. Avrebbe avuto senso l’istituzione di un tutor per classe e non per gruppi così estesi con scarsa efficacia di orientamento del singolo”. Il fallimento previsto si è avverato.

I numeri che arrivano dalle scuole in previsione della chiusura del bando a fine mese sono impietosi: “Sono ormai tantissime le scuole italiane in cui è in corso una vera e propria rivolta contro l’idea di Valditara di trasformare i professori e professoresse in tutor a 7,34 euro l’ora. C’era da aspettarselo. Da anni il corpo docente chiede salari più alti, non lavoretti part-time per arrotondare”, spiega Elisabetta Piccolotti dell’Alleanza Verdi Sinistra.

“Il tema è alzare gli stipendi di tutti e non solo di chi – prosegue la parlamentare rossoverde della commissione cultura di Montecitorio – si trova nella condizione, o nella necessità, di fare lavoro in più per pochi euro. I professori e le professoresse devono essere messi in condizione di occuparsi pienamente della didattica, riversando sull’insegnamento tutte le proprie energie. Questa priorità è già stata messa in discussione dal continuo aggravio burocratico a cui gli insegnanti sono stati sottoposti. Come fossero degli amministrativi o dei funzionari. Ora la novità è il docente tutor, orientatore o consulente”.

Secondo Piccolotti si tratta dell’ennesima “scelta inutile del Governo laddove per combattere la dispersione scolastica servirebbe il riconoscimento della professionalità dei docenti con un aumento generalizzato della retribuzione, almeno fino alla media europea, e l’aumento del numero degli insegnanti e del tempo scuola in tutti gli istituti, soprattutto nelle aree a grave disagio sociale ed economico”.

I bandi per il corso di formazione di 20 ore per diventare “tutor” è andato deserto. I docenti, com’era immaginabile, non rinunciano a ore per l’istruzione dei ragazzi per “formarsi” a un ruolo che è già nelle loro funzioni. I “tutor” rimangono un’idea buona per averci fatto la conferenza stampa.

“Aspettiamo i numeri, gli esiti finali delle candidature a tutor e poi vediamo. Anche se ritengo che l’operazione tutor e orientatore andava costruita, proprio dal punto di vista comunicativo, in modo più approfondito e più organico”, dice Ivana Barbacci, segretaria generale Cisl Scuola. La scadenza delle candidature è fissata per il prossimo 31 maggio. Il finale è già scritto.

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Dove sono quei 500?

Nel Mediterraneo non si trova più un’imbarcazione alla deriva da più di due giorni con circa 500 persone a bordo. Per ore ha lanciato sos ad Alarm Phone mentre si trovava in zona Sar maltese. È accaduto ciò che accade sempre: Malta e Italia non hanno voluto coordinarsi.

Nel comunicato di Emergency si legge che a lanciare l’allarme è stata per prima la ong Alarm Phone, con la quale i naufraghi si sono messi in contatto per chiedere l’intervento delle autorità marittime. Secondo l’organizzazione, a bordo del mezzo c’erano 500 persone, tra cui almeno 45 donne, alcune in stato di gravidanza, e 56 bambini, uno dei quali nato durante la traversata dalle coste nordafricane. Quando è scattato l’allarme, si legge, “Emergency ha chiesto alle autorità competenti a Malta e in Italia di coordinare i soccorsi, ma queste si sono rifiutate di condividere qualsiasi informazione”.

Non arrivando risposte il Life Support di Emergency ha così deciso di dirigersi verso la posizione dell’imbarcazione per portare in salvo i naufraghi e ha effettuato “una ricerca attiva 24 ore su 24, ma dal pomeriggio di ieri, 24 maggio, non vi è stato alcun contatto da parte delle persone a bordo e nessuna traccia della nave”. Anche la ong Sea Watch ha svolto una ricerca durata due giorni consecutivi con il suo velivolo Sea Bird, senza però trovare indizi sulla posizione della nave. “Né Life Support né Ocean Viking, che pattugliavano la zona, hanno trovato segni di naufragio. Pertanto, dato il peggioramento del tempo, saremo costretti a spostarci in un’altra zona se non troveremo la barca nelle prossime ore”, ha aggiunto Emergency.

Albert Mayordomo, capo missione di Life Support, ha spiegato che “attualmente siamo nel Mediterraneo orientale. Continueremo le operazioni di ricerca in quest’area fino a questa sera, con attività di vedetta sul ponte. Poi a causa del peggioramento delle condizioni meteorologiche ci sposteremo in acque internazionali, nell’area libica di ricerca e soccorso. Un’ipotesi potrebbe essere che il motore abbia ripreso a funzionare e la barca stia navigando verso la Sicilia, ma di questo non abbiamo prove”.

Potrebbero essere vivi, potrebbero essere morti, né Malta né l’Italia ne hanno contezza. L’importante è che gli eventuali cadaveri non arrivino sulle nostre spiagge.

Buon venerdì,

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Mai tante armi italiane vendute all’Egitto. Regeni è già dimenticato

C’è l’impronta italiana nelle armi che in Egitto vengono usate per reprimere i diritti umani e l’uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni non ha fermato il flusso. Anzi l’ha rimpinguato. È il risultato del rapporto Made in Italy per reprimere in Egitto di EgyptWide, l’Ong egizio-italiana che si occupa di diritti umani. I ricercatori e le ricercatrici di EgyptWide hanno condotto un’analisi incrociata su dati provenienti da diverse fonti ufficiali e governative, arrivando a documentare il volume e il valore delle armi italiane piccole e leggere esportate in Egitto tra il 2013 e il 2021.

L’export di armi verso l’Egitto crollò dopo il caso della morte di Giulio Regeni. Ma dal 2019 è tornato a volare

L’uso di armi piccole e leggere italiane in violazioni dei diritti umani è stato indagato analizzando un campione di materiali audiovisivi di oltre 169 unità, dal cui studio sono emerse prove fotografiche dell’uso di Salw italiane nelle violazioni dei diritti umani in Egitto. Secondo il rapporto, tra il 2013 e il 2021, l’Italia ha esportato in Egitto armi piccole e leggere per un valore di circa 19 milioni di euro.

Il valore delle armi piccole e leggere autorizzate per l’esportazione verso l’Egitto nello stesso periodo potrebbe superare i 62 milioni, escludendo quello di munizioni e componenti di ricambio. Il materiale ricevuto dall’Egitto include oltre 30.120 revolver e pistole, più di 3.600 fucili e oltre 470 fucili d’assalto, a cui si aggiunge un numero imprecisato di carabine, mitragliatrici, munizioni, parti di ricambio e attrezzature per la direzione del tiro, tecnologie militare e software.

Tra il 2013 e il 2021, nonostante le conclusioni del Consiglio d’Europa dell’agosto 2013, con le quali i Paesi membri dell’Ue avevano concordato una sospensione delle forniture di armi all’Egitto alla luce delle gravi violazioni dei diritti umani, e in aperta violazione della legge italiana sul commercio di armi (L.1990, N. 185), nonché del quadro normativo europeo sull’esportazione di armi (Posizione comune 2008/944, da qui in avanti 2008/944/Pesc), l’Italia non ha mai interrotto la fornitura di armi all’Egitto.

Alcuni dei più comuni modelli italiani di armi piccole e leggere esportati nel periodo tra il 2013 e il 2021 (come i fucili Arx 160, prodotti dalla Fabbrica d’Armi Beretta S.p.A.), sono stati utilizzati nel contesto di esecuzioni extragiudiziali nel Sinai settentrionale; modelli italiani di armi piccole e leggere Beretta 70/90, Benelli SuperNova Tactical e Beretta 92FS sono stati utilizzati da militari e forze di sicurezza egiziane per intimidire e disperdere civili nell’ambito di operazioni di sicurezza urbana; fucili Beretta 70/90 sono stati utilizzati dalle forze speciali ad Al-Nahda e Rabaa Al-Adawiya, durante il massacro del 2013 in cui hanno perso la vita quasi mille civili.

Dopo il crollo di esportazioni di armi in Egitto (da 37 a 7 milioni) nel 2016 in seguito all’uccisione di Giulio Regeni dal 2019 in poi l’esportazione di piccole armi italiane ha raggiunto il suo picco. Dalle nostre parti le ingiustizie subite da nostri concittadini e la repressione dei diritti civili sono un ottimo motivo per rinforzare le collaborazioni. L’importante è mantenere un profilo impegnato e contrito di fronte alle ingiustizia e avere sempre pronto un discorso in occasione dei funerali e dei loro anniversari.

Poi quando irrompono i numeri, come in questo caso, la notizia potrà incagliarsi in qualche giornale che crede ancora nel proprio ruolo. Lo sdegno sui soldi insanguinati per il potere è un piccolo intoppo che si risolve facilmente. Questa è solo l’ennesima cicatrice sul corpo già morto di Giulio Regeni.

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Bonaccini flirta con Meloni per i soldi dell’alluvione

Sorride la premier Giorgia Meloni mentre annuncia in conferenza stampa “l’estensione delle competenze del commissario alla Siccità, per la verifica e il monitoraggio delle opere di drenaggio dell’acqua”. “C’è un passaggio bizzarro perché il commissario alla Siccità oggi si occupi anche dell’alluvione ma è la situazione climatica in cui ci troviamo”, dice Meloni, e dentro quel “bizzarro” c’è l’ignoranza – se non addirittura il negazionismo – di chi crede che siccità e alluvioni siano due fenomeni che si smentiscono e non gli effetti dello stesso male.

Il presidente del Pd, Stefano Bonaccini, che amoreggia con la leader di FdI. Cosa non si fa quando ci sono tanti miliardi in ballo

Al suo fianco Stefano Bonaccini non proferisce verbo. La lotta politica, dice lui e dicono i suoi, deve essere lasciata da parte in nome dell’emergenza. Come si possa non polemizzare con chi non riconosce le vere cause dell’emergenza e quindi a rigor di logica non farà nulla per fermarla è un concetto che sfugge. Ora il presidente dell’Emilia Romagna punta ai ristori – c’è da capirlo – che siano il più veloci e funzionali possibili per aiutare i suoi concittadini a rimettersi in piedi. Ma a suon di ristori, di emergenza proclamate e di sconti fiscali, non si fa altro che aspettare la prossima tragedia.

All’esponente Pd, presidente della Regione, ciò che interessa ora è essere nominato commissario. Il commissario alla ricostruzione dopo l’alluvione in Emilia-Romagna “deve conoscere bene il territorio”, dice Bonaccini riferendosi ovviamente a se stesso. “Riteniamo che Bonaccini sia la figura più adatta a fare il commissario e a gestire questa emergenza perché conosce l’Emilia Romagna e la macchina meglio di chiunque altro. In Emilia è ancora in piedi la cabina di regia per la ricostruzione post terremoto, ed è una macchina già oliata che ha lavorato bene”, spiega l’ex capogruppo al Senato dei dem, Simona Malpezzi.

A spingere sulla nomina di Bonaccini ci sono anche metri della maggioranza come il presidente della regione Calabria Roberto Occhiuto, Vittorio Sgarbi, il presidente ligure Giovanni Toti e il calendiano Osvaldo Napoli. L’ex candidato alla segreteria del Pd tiene un profilo diplomatico ma ha qualche sbavatura: “Sulla nomina del commissario in Emilia-Romagna lascio alla Lega polemiche e speculazioni politiche. Io mi occupo di stare vicino alle popolazioni colpite”. Il presidente dei deputati della Lega Riccardo Molinari gli risponde a stretto giro: “Non c’è nessuno da Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega che ha detto no a Bonaccini per una ragione politica, immagino che in questo momento nel governo ci sia una discussione di opportunità”.

Si è in quel bivio in cui le parole vanno misurate ma l’effetto dall’esterno è stordente. Bonaccini ripete che non bisogna chiedersi “se” l’alluvione accadrà di nuovo ma quando e dal governo rispondono che si tratta solo di una sfortunata serie di eventi. “Stefano si sta comportando così per il bene della sua gente, ora occorre unità”, ci dice un senatore del Pd. Sarà. Intanto il centrodestra in Regione avverte Bonaccini. “è evidente che se verranno accettate responsabilità ci aspettiamo dimissioni di massa”, dice la Lega in Regione: “Quello che è stato fatto è troppo poco e forse non è conforme”. Con chi ce l’hanno? Con Bonaccini, appunto. A questo punto la sua nomina o la sua mancata nomina non potrà non apparire un altissimo esercizio di ipocrisia.

 

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Avanza il camerata Bignami. Un altro flagello si abbatte sull’Emilia-Romagna

Se non dovesse essere il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini (Pd) il prossimo commissario straordinario in Emilia Romagna, Giorgia Meloni ha già in mente il suo nome: il suo compagno di partito viceministro alle Infrastrutture Galeazzo Bignami. La Lega sta lavorando alacremente a qualche nome dei suoi ma questi mesi hanno già chiarito che le scelte di Meloni sono le uniche che contano. Lui, Bignami, ieri ha parlato in un’intervista a QN: “La stima di un miliardo di danni alle infrastrutture regionali di Bonaccini è “destinata a cambiare nelle prossime settimane, sia a causa delle frane sia per le altre lesioni subite dal territorio.

Il vice ministro di FdI, Galeazzo Bignami, fotografato con la divisa delle SS in pole per il ruolo di commissario all’emergenza alluvione

L’orografia di interi luoghi è stata trasformata: ci aspetta una lunga fase non solo di ripristino, ma anche di vera e propria progettazione di strade e infrastrutture danneggiate”, dice. “Tutte le strade che si potevano liberare – spiega – sono già state liberate, altre presentano lesioni così significative che il loro recupero è impossibile in condizioni di sicurezza, altre infine non esistono proprio più”. Per l’estate però “sono convinto che le principali strade saranno tutte riattivate per garantire, a chi vorrà andare in vacanza in Romagna, di poterlo fare. Così come di raggiungere e muoversi da quei territori per ragioni lavorative”.

Difficile non riconoscere nelle sue parole la postura di chi pregusta la sedia da commissario. Nel pomeriggio di ieri il viceministro ha incassato anche l’endorsement del berlusconiano Alessandro Cattaneo: “Bignami è stato un amministratore locale ed è legato al territorio, e oggi ha un ruolo operativo. Come lui ci sono altre figure, per me quando si parla di queste emergenze vanno scelte le persone migliori al di là dell’appartenenza al partito”, ha detto il deputato di Forza Italia. Ma qual è il curriculum di Bignami che lo proietta nel novero degli abili gestori di un’emergenza Galeazzo Bignami è salito agli onori della cronaca per gesta non sue: in diretta a Sanremo Fedez ha strappato la foto in cui il viceministro era allegramente travestito da gerarca nazista. “Era solo una festa di addio al nubilato”, ha spiegato Bignami. Del resto chi di noi non si è mai vestito da nazista per ridere in compagnia

Attivo nella politica bolognese dal 1996, Bignami è stato prima consigliere comunale e poi regionale, prima di diventare deputato con Fratelli d’Italia nel 2018. Di lui si ricordano le prese di posizioni contro i diritti (degli altri). Come raccontò l’Espresso, per esempio, presentò un esposto alla Procura contro il centro per la comunità Lgbtq+ Cassero di Bologna, definendolo luogo di “iniziative volgari che offendono l’intelligenza e il decoro di chiunque abbia un minimo senso di decenza”. Sua fu la richiesta di cancellare la serie A casa dei Loud, perché un personaggio veniva presentato come bisessuale, e quella di schedare le scuole di Bologna con un bollino rosso, giallo o verde a seconda del livello di “ideologia gender” contenuta nei programmi scolastici contro omofobia e bullismo.

Una vita passata a contestare i Gay Pride, le manifestazioni che celebrano le conquiste per i diritti civili e l’uguaglianza della comunità Lgbtq+, e contro il Gender bender festival, finanziato con fondi europei pari a 1 milione e 200 mila euro, che secondo Bignami servirebbe a “smontare la sessualità maschile e femminile, irridere la religione ed esaltare le forme di dominio e di sottomissione gay”.

Bignami ha anche tentato di limitare il diritto ad accedere all’interruzione di gravidanza per le donne in Emilia Romagna, proponendo di riformare il sistema dei consultori e ridurre gli aborti. Contemporaneamente si è anche impegnato in una “schedatura” discriminatoria in diretta Facebook, andando a leggere ad alta voce i nomi degli inquilini della case popolari nel quartiere della Bolognina, violando la privacy delle persone per denunciare la “sostituzione etnica”, per la presenza di persone di origine straniera tra gli inquilini. Un commissario perfetto, insomma, con un curriculum incontestabile.

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Il ritorno dei manganelli

Il popolo dell’antimafia di Palermo è stato manganellato perché avrebbe voluto ricordare (a loro e a noi) che in Sicilia c’è un sindaco a Palermo e un presidente della Regione che non rifiutano l’appoggio politico di due condannati per mafia come Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri.

Manganelli anche a Milano. In via Sarfatti una donna trans brasiliana di 41 anni appare in un video mentre viene manganellata inerme, poi presa a calci, poi attaccata con spray al peperoncino. Come accade in questi casi dell’episodio ne siamo venuti a conoscenza solo grazie al video amatoriale girato da un cittadino. Sarebbe stato probabilmente uno dei tanti pestaggi che non si ritrovano nei verbali, finché non ci scappa il morto. Il sindaco di Milano Beppe Sala ammette che «non è certo una bella immagine, anzi mi sembra un fatto veramente grave». La segretaria metropolitana del Pd e deputata Silvia Roggiani parla di scena “orribile e intollerabile”  e spiega: «Resta in ogni caso da sottolineare – ha aggiunto – che nulla di ciò che è accaduto prima può giustificare quella violenza, in particolare, su una persona che dalle immagini del video appare inerme». «Le immagini sono disgustose. Qualsiasi sia il contesto e qualunque cosa sia accaduta ‘prima’ di quanto filmato» commenta il capogruppo in Regione Lombardia Pierfrancesco Majorino. La consigliera regionale M5s Lombardia Paola Pizzighini denuncia “la violenza smisurata degli agenti e i colpi reiterati ingiustificabili». «Una violenza di questo tipo non è mai accettabile. Mai» conclude. Critica anche Sinistra Italiana con il consigliere regionale Onorio Rosati che parla di “immagini inquietanti“: «Qualsiasi eventuale reato abbia commesso quella donna non giustifica questa violenza».

A destra il deputato e coordinatore milanese di Fratelli d’Italia Stefano Maullu è di diverso avviso: «Hanno fatto il loro dovere – dice – evitando che quella persona potesse dar seguito alle minacce ai bambini di una scuola milanese» visto che «un trans brasiliano, evidentemente fuori di sé, si è denudato davanti la scuola di via Giacosa, nei minuti in cui i bambini stavano entrando per l’inizio delle lezioni». «Quotidianamente – aggiunge la Lega per bocca della commissaria cittadina Silvia Sardone e il capogruppo in Comune Alessandro Verri – vediamo aggressioni nei confronti delle forze dell’ordine sulle quali la sinistra mai si espone, non mostrando mai solidarietà a uomini e donne in divisa. In questa occasione invece sono uscite immediate dichiarazioni con la sentenza in tasca». Sardone e Verri ricordano che l’intervento dei vigili è arrivato dopo le escandescenze della 41enne: «Prima di attaccare sia fatta una relazione approfondita sui fatti»

Fabrizio Marrazzo, portavoce partito Gay LGBT+, sottolinea il fatto che si tratti di una donna trans: «Nulla potrebbe mai fornire una copertura a quanto si vede in quel filmato, chiediamo al sindaco Sala una immediata verifica dei fatti e la sospensione immediata degli agenti che hanno aggredito. Evidenziamo al ministro Piantedosi, che quanto accaduto ad una settimana dalla giornata mondiale contro l’omobistransfobia, mostra l’urgenza di una legge che ci tuteli e punisca con aggravante anche le forze dell’ordine che si macchiano di tali reati», spiega.

Ci sarebbe un modo per sapere cosa sia accaduto: dotare gli agenti di bodycam, la telecamera addosso agli operatori, e codice identificativo. Non l’ha fatto il centrosinistra quando era al governo e non lo farà certamente questa destra che vorrebbe abolire il reato di tortura. Una cosa è certa. Come scrive il direttore di Oggi Carlo Verdelli «Dal passato che non passa, rispunta prepotente una parola scongelata di fresco: manganello. E fa male, non solo a chi se lo prende in testa».

Buon giovedì.

 

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