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Il visto negato agli artisti ghanesi è la triste metafora di questa Italia

Essere un artista di fama internazionale con in tasca un invito ufficiale per partecipare alla 18esima edizione della Mostra internazionale di architettura di Venezia nota anche come Biennale Architettura, non «soddisfa i requisiti» per poter entrare in Italia. È una metafora del nostro tempo la storia che la docente di architettura e autrice scozzese-ghanese Lesley Lokko ha raccontato al giornale specializzato Building Design. Lokko è fondatrice dell’African Futures Institute, una scuola di specializzazione con sede nella capitale del Ghana, Accra, e curatrice della mostra centrale della Biennale che si concentrerà sull’architettura africana e sulla sua influenza nel resto del mondo. Lokko racconta che l’ambasciata italiana in Ghana, guidata da Daniela d’Orlandi, le ha negato il visto per tre dei suoi collaboratori che hanno lavorato all’edizione della Biennale. «Ho messo insieme (e raccolto fondi) affinché quattro team lavorassero alla Biennale, ad Accra, Dublino, Johannesburg e Londra. Ogni squadra è stata centrale per la mostra», ha detto Lokko. «Il fotografo del mio staff, un giovane e talentuoso ghanese, ha contribuito con fotografie sia alla mostra che al catalogo, in tutte le sue sezioni. Ma gli è stato negato il visto dal governo italiano, e in particolare dall’ambasciatrice italiana in Ghana, che mi ha accusato di aver tentato di portare in Europa “giovani uomini non essenziali”».

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Il presidente della Biennale Archiettura Roberto Cicutto e la curatrice Lesley Lokko (da Instagram).

Dietro a quel “giovani uomini non essenziali” c’è il barbaro manifesto politico di un’epoca terrorizzata dall’invasione

Dietro quel “giovani uomini non essenziali” si può intravedere il barbaro manifesto politico di un’epoca terrorizzata dalla fandonia dell’invasione. Il terrore di essere invasi da artisti sarebbe ridicolo anche in una distopia eppure accade qui, 2023, in riferimento a uno dei più importanti eventi italiani. Con pochi giri di parole Lesley Lokko ha definito l’ambasciatrice italiana in Ghana «un’ambiziosa diplomatica in carriera che vuole fare bella figura con il governo di destra in carica», promettendo che continuerà a sottolineare «l’assurdità e l’ipocrisia di una mostra sull’Africa a cui è negato l’accesso agli africani che hanno contribuito a costruirla» durante la conferenza stampa di apertura della Biennale. Come se non bastasse a stretto giro di posta è arrivata la burocraticosa replica di Daniela d’Orlandi che al Post ha spiegato che «la nostra ambasciata non risparmia sforzi per facilitare la partecipazione di artisti ghanesi a importanti mostre d’arte o eventi in programma in Italia. Solo per fare qualche esempio: all’edizione di quest’anno della Biennale sono presenti altri sette ghanesi, tra cui l’importante artista Ibrahim Mahama; i visti sono stati concessi anche ai partecipanti ghanesi all’edizione 2022 della Biennale e alla Triennale di Milano nel giugno del 2022». Secondo l’ambasciatrice i tre collaboratori di Lokko non erano infatti in possesso dei requisiti necessari per poter entrare legalmente in Italia. Impossibile per i giornalisti de Il Post sapere quali sarebbero questi requisiti.

Il visto negato agli artisti ghanesi è la triste metafora di questa Italia
L’ambasciatrice italiana in Ghana e Togo Daniela d’Orlandi.

I requisiti per ottenere un visto per l’Italia Essere ricchi, non maschi, e soprattutto bianchi

Come spiega Jacopo Storni sul Corriere della Sera «i requisiti per avere un visto sono quasi impossibili da sostenere per la maggior parte degli aspiranti migranti. Al viaggiatore che vuole entrare in Italia è richiesto, ai fini del rilascio del visto, un’assicurazione medica di 30 mila euro valida per i Paesi Schengen per il rimborso delle spese mediche, l’assistenza e il rimpatrio in caso di morte o malattia. E poi c’è la parte ancora più difficile. Serve la prova della disponibilità di mezzi sufficienti per sostenere le spese di soggiorno. Le prove richieste possono essere, ad esempio, gli estratti bancari dei sei mesi precedenti. E soprattutto, si richiede una documentazione giustificativa della propria condizione socio-professionale. Si richiede, di fatto, che l’aspirante migrante sia benestante». Ora non è più nemmeno così: i collaboratori della Biennale evidentemente non hanno problemi di mezzi sufficienti per un soggiorno che sarebbe stato pagato in toto dall’organizzazione, al pari delle spese mediche. Il Post segnala che nel 2019, per esempio, l’ambasciata italiana ad Accra su 1.275 richieste di studenti provenienti da Togo e Ghana che chiedevano di poter venire in Italia a proseguire gli studi universitari, il 95 per cento era stato negato. Allora che serve? Per venire in Italia bisogna essere ricchi, non essere pericolosi artisti gender, non essere maschi e possibilmente non essere prestanti per non rientrare nella morfologia del maschio predatore evocato da Meloni e Salvini, bisogna avere un appuntamento importante solo con la parte giusta del Paese, bisogna portare soldi o offrire l’opportunità di fare soldi ma soprattutto bisogna essere bianchi. E in Ghana di bianchi, ahinoi, ce ne sono pochissimi.

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Débâcle informatica in Abruzzo ma sull’attacco hacker la destra tace. Trafugati 552 gigabyte di dati alla Asl di L’Aquila

Sul piano locale, manco a dirlo, la storia è una clava contro gli avversari politici. Stiamo parlando del più grave furto informatico ai danni di un ente pubblico, 522 gigabyte di dati della Asl di L’Aquila che sono stati comodamente trafugati con le cartelle cliniche di migliaia di pazienti che per giorni non hanno ricevuto nessun avviso, nessuna informazione.

Nulla. A questo si aggiunge la paralisi dei servizi e delle prestazioni. Gli esperti avvisano da tempo: il settore sanitario è tra quelli che fanno più gola ai cybercriminali per l’eterogeneità dei software e degli hardware che lo rende più esposto. Non è un caso che l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (Acn) che in questi giorni sta indagando sull’accaduto sia stata creata nel 2021 dopo un attacco analogo che aveva colpito il sistema sanitario nel Lazio.

Nel mirino della polemica politica ci sono il sindaco di L’Aquila Pierluigi Biondi e il presidente della Regione Marco Marsilio, entrambi fedelissimi di Giorgia Meloni. Loro, com’è costume della politica nostrana, si rimbalzano le responsabilità e accusano i loro accusatori di tradire la Patria nel momento del bisogno (il vittimismo è una costante).

L’Agenzia per la cybersicurezza nazionale fa presente che la Asl aquilana non si è mai presa la briga di aggiornare i propri sistemi informatici come raccomandavano le direttive. Per questo la crittografia e gli antivirus non hanno potuto respingere ransomware l’attacco dello scorso 3 maggio con i criminali – che si firmano “Collettivo Monti” e che sono già noti alla nostra intelligence – che per diversi giorni hanno avanzato richieste di riscatto, ovviamente sempre declinate.

Poi è accaduto che quel quintale di dati sia finito nel dark web, con file delicati come buste paga, percorsi di cura e prescrizioni mediche a disposizione del migliore offerente. Ieri è intervenuto il Garante della privacy per ricordare che “chiunque entri in possesso o scarichi i dati pubblicati sul dark web da organizzazioni criminali – e li utilizzi per propri scopi o li diffonda on-line, sui social network o in altro modo – incorre in condotte illecite che possono, nei casi previsti dalla legge, costituire reato”. Del fatto che i dati trafugati siano stati scaricati da quasi 10mila persone però non ne risponde nessuno.

Silenzio tombale sulla débâcle informatica in Abruzzo

Questo è il piano locale. Ma dalle parti del governo? Nessuna nota è uscita da Palazzo Chigi, dove evidentemente la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ritiene che la pubblicazione delle cartelle sanitarie dei suoi cittadini sia roba di poco conto. Niente arriva nemmeno dal ministero della Sanità, sempre pronto a inviare ispettori per qualsiasi notizia calda di cronaca locale e ora curiosamente silenzioso.

Nemmeno il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi mostra il benché minimo segno di reazione. Avevano promesso di stanare gli scafisti in tutto l’orbe terraqueo ma non sembrano interessati ai criminali entrati nei computer degli ambulatori e degli ospedali di provincia. A pensar male si potrebbe credere che l’imbarazzo sia per i protagonisti politici, tutti afferenti al partito della premier. A pensare ancora peggio si potrebbe pensare che anche per i reati informatici valga la regola aurea di tutti gli altri reati: se il presunto colpevole non è uno straniero la notizia deve essere tenuta “bassa”. S’ode in lontananza solo il presidente della Regione Marsilio che ripete di non avere ceduto alle richieste di riscatto, mostrando il petto. Qualcuno sommessamente gli fa notare che cedere al ricatto sarebbe stato anche un reato. Da Roma nessuno parla. “L’attenzione è alta”, assicurano. E certo, come non fidarsi dell’attenzione che è appena stata bucata

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Povera Giorgia, fuori dall’Italia rimedia solo schiaffi. Trudeau la bastona sui diritti: figuraccia internazionale della premier

La fotografia arriva direttamente dal governo canadese e già questo basta per capire che si tratti di qualcosa di più di un semplice incidente di percorso. Nell’immagine la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha improvvisamente perso la sua feroce sicumera che sfoggia in patria e attonita guarda i fotografi e i suoi collaboratori con un misto di rabbia malcontenuta e sgomento.

Qualche secondo prima il capo del governo canadese Justin Trudeau ha confessato la sua preoccupazione sul rispetto dei diritti Lgbtqia+ in Italia: “Siamo preoccupati per alcune delle posizioni che il tuo governo sta prendendo in materia, ma non vedo l’ora di parlarne con te”, dice Trudeau.

A quel punto il bilaterale tra Italia e Canada a margine del G7 diventa un caso politico. Giorgia Meloni all’estero, non potendo contare sui giornalisti timidi o compiacenti che ammaestra in casa, è molto meno brillante. China la testa, guarda i fotografi. Poveretta, si sono permessi di uscire dall’agenda dei riti stanchi e della retorica.

Peggio di così…

Questa volta non trova la battuta sapida con cui far titolare i telegiornali. “L’Italia sta seguendo le decisioni dei tribunali e non si sta discostando dalle precedenti amministrazioni”, si difende la presidente del Consiglio.

Ma come? Dov’è l’ostentazione per la famiglia tradizionale (e quindi contro i gay) che sventola con tanta fierezza qui da noi? Dov’è finita l’urlatrice al comizio di Vox che prometteva di combattere contro i gay e le fumose “teorie gender”? Niente di tutto questo. “Colpa dei tribunali”, dice sconsolata Meloni. Chissà che delusione tra i suoi elettori.

Disfatta mediatica

Riccardo Magi di +Europa si dice “imbarazzato per le persone Lgbti+ che vivono in Italia e per l’isolamento internazionale a cui il governo Meloni sta relegando il nostro Paese”. “Meloni farebbe bene a ricordare che al G7 non c’è Orban, non c’è Duda, ci sono i leader del mondo occidentale dove i diritti sono patrimonio comune. Quella fuori posto è solo lei”, scrive su Twitter il deputato Pd Alesandro Zan.

La dem Laura Boldrini parla di un governo “che danneggia l’immagine del’Italia in tutto l’orbe terraqueo”. Dalle parti del governo difendono la premier ma quella foto parla da sola. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di scriverci il pezzo.

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Scarponi e giubboti ai soldati russi pure dall’Italia

Alla faccia dell’embargo. L’Europa veste e arma i soldati russi. Le sanzioni contro Mosca non interferiscono con le forniture occidentali: dietro la “Z” dell’esercito russo ci sono anche aziende italiane. La notizia la dà The insider, il giornale online indipendente di giornalismo investigativo che due anni fa è stato inserito da Putin nell’elenco dei mass media nemici della Russia.

Il sito fondato nel 2013 da Roman Dobrokhotov racconta che c’è l’Europa, ad esempio, nella fornitura di attrezzature tecnologiche arrivate alla Moscow Stan LLC, un’azienda parte della della Rostec State Corporation che dovrebbe essere sotto sanzioni. Spulciando il database ImportGenius The Insider ha scoperto che l’ordine sarebbe stato evaso nel luglio del 2022 da una società tedesca, la Vansped Logistics, per conto di Reißaus & Baumberg Maschinenbau GmbH. La Stan è un fornitore fondamentale per il ministero della Difesa russo.

Dopo lo scoppio della guerra contro l’Ucraina, il primo vicedirettore generale di Rostec Vladimir Artyakov ha parlato dell’importanza delle forniture da Stan LLC per la produzione di portaerei Tu-160 (è da loro che i missili da crociera Kh-555 vengono lanciati in tutta l’Ucraina). Lì dentro c’è anche un “aiutino” tedesco. Ai piedi dei soldati russi ci pensa la società di Rostov Donobuv. Sui suoi anfibi campeggia la “Z” simbolo dell’invasione in Ucraina. Come ha scoperto The Insider, Donobuv si avvale dell’aiuto di aziende tedesche e italiane per la colla per scarpe (fornita da Jakob KECK Chemie GmbH) per la pelle (Salamander SPS GmbH Co. KG).

Alla faccia dell’embargo, il made in Italy non manca

Le suole sono importate dall’Italia (Tacchificio Campliglionese). Sia gli italiani che i tedeschi hanno continuato le consegne a Donobuv dopo il febbraio 2022. Salamander vendette anche pelle a un altro appaltatore del ministero della Difesa – Faraday (scritto anche “Faradei”) – durante la guerra. Anche le suole di Faraday provengono dall’Italia, fornite da Suolificio Morrovallese.

Anche i cuscinetti in plastica dell’azienda sono italiani, prodotti da Formificio Milanese Team. I rivetti sono forniti dalle aziende italiane Hawai Italia (che però precisa e smentisce, vedi la nota a fondo articolo) e Sammi Export, le solette provengono da Cunial Components con sede in Italia, mentre i solventi sono forniti dalla tedesca Jakob KECK Chemie GmbH. La scorsa estate, il produttore di calzature militari ha ricevuto 1,3 tonnellate di pelle di cuoio bovino dalla Conceria Cervinia, con sede a Verona. Gli altri fornitori di Faraday sono le società slovacche Export-Import e Moneta SK spol.

L’Italia la troviamo anche nell’equipaggiamento. Il produttore di giubbotti antiproiettile per le forze di sicurezza e militari, Jsc Npp “Class” ha importato cutter dall’Italia. Il fornitore è la Minelli Carmelo Srl. È francese invece la Radiall S.A. che fornisce gli interruttori per i sistemi i controllo missilistico della Jsc “Information Satellite Systems” (“Iss”). L’Iss per ora è solo sotto le sanzioni statunitensi. Pertanto, può importare liberamente interruttori dall’Europa.

Francese anche la Marchante che forniva alla società di armi russa Kurganpribor prodotti tecnici durante la guerra. I francesi non sono sembrati imbarazzati dal fatto che il proprietario della Kurganpribor sia il senatore russo Sergei Muratov, inserito a dicembre nella lista nera Ue. A The Insider risulta che le sanzioni e l’embargo non abbiano interrotto il rapporto d’affari con Marchant. In Italia la violazione delle sanzioni comporta sanzioni penali e amministrative e confisca. The Insider ha lanciato il sasso. Ora resta da vedere la risposta.

*Hawai Italia srl sottolinea l’assenza di qualsiasi documento che attesti che Hawai Italia s.r.l. ha commercializzato i propri prodotti con la ditta Faraday successivamente all’entrata in vigore delle restrizioni imposte dall’Unione Europea, e sottolineando che l’autore non ha reale contezza dell’implicazione di Hawai Italia s.r.l. nella vicenda oggetto dell’articolo apparso sul quotidiano russo The Insider.

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Negazionisti del clima, tanto pochi quanto rumorosi. Lo scrittore Deotto: “Ci si ferma al 5-8%, quasi quanto i terrapiattisti”

Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Il suo ultimo libro L’altro mondo è edito da Bompiani.

Nonostante gli effetti evidenti in tutto il mondo e il parere quasi unanime della comunità scientifica anche in questi giorni, di fronte alla tragedia, fioccano i negazionisti del cambiamento climatico nella politica e sui media. Perché?
“Innanzitutto esistono due tipi di negazionisti climatici: quelli che conoscono il problema e i rischi che comporta, e per interesse lo negano e distorcono; e quelli che davvero sono scettici sulla responsabilità antropica del riscaldamento globale e sui rishi che comporta. Spesso sono i primi a falsare consapevolmente il piano di discussione. Ricordiamoci che nel 2022 le grandi compagnie del fossile hanno registrato profitti per centinaia di miliardi di dollari. È almeno dagli anni ’80 che questo settore investe milioni per diffondere falsità sull’impatto dei loro prodotti, e a maggior ragione continua a farlo oggi che si parla sempre più spesso di transizione”.

Quanto è diffusa l’idea che il cambiamento climatico non esista o non sia causato dall’uomo?
“Poco, in realtà, le statistiche parlano di una quota compresa tra il 5% e l’8%, non così lontana dalla percentuale di quanti pensano che la Terra sia piatta. Il problema è che si tratta di una minoranza molto rumorosa. Inoltre, spesso i media danno ai negazionisti uno spazio pari a quello di persone che hanno dedicato una vita a studiare il problema, con il risultato di far passare l’idea che la comunità scientifica sia divisa, quando il livello di consenso è paragonabile a quello sull’evoluzione o la tettonica delle placche”.

Secondo lei perché il negazionismo climatico prende così piede al di fuori della comunità scientifica È solo una questione di interessi?
“Ha anche a che fare con il modo in cui sono fatti i nostri cervelli. Non siamo cognitivamente equipaggiati per inquadrare con un solo sguardo un fenomeno complesso, stratificato e interconnesso come la crisi climatica. Il nostro sistema di allarme non si attiva in automatico come per altre minacce, non proviamo quella paura viscerale che ci indurrebbe a trattare fin da subito questo problema con urgenza. A fronte di ciò, per molti il negazionismo climatico è prima di tutto una risposta confortante.

Come arginare l’onda negazionista
“Con grande pazienza, prima di tutto: liquidare chi non crede al cambiamento climatico come sciocco o ignorante significa dimenticare che in molti casi i negazionisti siano più vittime che colpevoli. Spesso sono persone disorientate, in cerca di una forma falsata di speranza che consente di non accettare un’evidenza scomoda, di non sentirsi disarmati e impotenti. C’è un preoccupante deficit di informazione sulla questione, ed è fondamentale replicare alle semplificazioni con argomentazioni circostanziate che sappiano restituire complessità alla questione, possibilmente senza spingere il nostro interlocutore nell’angolo con un cappello d’asino in testa”.

Leggi anche: Da Istat e Cnr un doppio ceffone ai negazionisti.

 

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Azione non gli serve più. Ora Renzi può spedire Calenda nel Gruppo Misto

La sceneggiata di Renzi e Calenda che litigiosamente ballano sulle macerie del cosiddetto Terzo polo si trascina di giorno in giorno. Ad alimentare le baruffe chiozzotte c’è Matteo Renzi, leader di Italia Viva, che spara contro l’alleato dalle pagine del giornale di cui è direttore, Il Riformista, fedele alla linea di non rispettare mai nemmeno uno straccio di promessa: “Non userò Il Riformista per interessi di partito”, disse il senatore fiorentino che ora agita il quotidiano come un randello per dirimere le sue questioni interne. Dall’altra parte Carlo Calenda, leader di Azione, diventa ogni giorno più scuro e accentua la sua straboccante opinione di sé.

La telenovela

A pesare è la diaspora di calendiani che negli ultimi giorni si sono dimessi da incarichi direttivi o sono passati direttamente tra le braccia di Renzi, accomunati dall’insofferenza per la chiusura del dialogo con Italia Viva. I renziani sorridono accennando all’Operazione Carletto, come da quelle parti chiamano il premeditato affossamento di Calenda e della sua creatura politica.

Per portare a compimento il “capolavoro” (come lo definisce un parlamentare renziano, fiero del machiavellismo del capo) servivano due senatori in più per avere i numeri per un gruppo autonomo. Missione compiuta. Il primo è stato Enrico Borghi che ha abbandonato il Pd accusando Elly Schlein delle peggiori malefatte, quasi tutte presunte. Poi Renzi ha cercato di isolare Calenda insinuando che Gelmini e Carfagna sarebbero tornate all’ovile, per riprendersi in mano Forza Italia ormai allo sbando. E infine è toccato a Naike Gruppioni, deputata eletta nelle file di Azione.

A questo punto Calenda, come al solito, ci ha messo del suo per peggiorare le cose: prima ha confessato davanti ai suoi elettori di non aver mai parlato e sentito parlare Gruppioni, smentendo in pochi secondi tutta la sua narrazione sulla “competenza” e sulla politica basata sul merito. “Colpa della legge elettorale”, ha detto Calenda, provando a negare perfino la responsabilità di candidare qualcuno.

Ma la fotografia di una temperatura altissima è quel Calenda ospite in una trasmissione televisiva che racconta l’origine del fu Terzo polo, dicendo di un Renzi che l’avrebbe rassicurato di prendere “un pacco di soldi dagli arabi” che se ne sarebbe stato buono in disparte lasciandogli in mano le redini del gioco.

Da Italia Viva fanno sapere che il chiarimento (e la presumibile rottura dei gruppi) avrebbe dovuto essere calendarizzato per sabato ma Raffaella Paita, presidente del gruppo Azione-Italia viva in Senato, spiega che “seguire i cambi di opinione di Calenda richiede la pazienza di Giobbe”: “Ieri alle 17.25 – dice Paita – ho convocato la riunione per sabato (domani, ndr), online. Alle 17.28 Calenda ha ringraziato confermando la presenza. Adesso ha cambiato idea e vuole cambiare giorno. La verità è che questo modo di fare è inspiegabile: va nei talk a insultare Renzi ma non accetta che se ne parli in riunione di gruppo”.

Calenda alza i toni: “Faranno la riunione tra di loro e noi leggeremo il loro comunicato stampa”, sibila inferocito ai giornalisti”. Tutto rinviato a martedì. Dove i due litiganti arriveranno con ancora più pesti di botte. Il cosiddetto Terzo polo non era neppure un polo. Chi l’avrebbe detto? Tutti. Tranne Calenda.

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Di lotta nel governo

Tira una brutta aria tra Fratelli d’Italia e Lega. Tra le compagini di governo si discute dell’autonomia differenziata che anche in questo giro rimarrà una bandierina promessa e mai risolta. I leghisti non nascondono il sospetto che la pubblicazione su LinkedIn del dossier che stroncava il decreto Calderoli sia stata un’idea del presidente del Senato Ignazio La Russa. Un segnale politico chiaro: l’autonomia differenziata si discute, forse, dopo le elezioni europee. Rimandarne la discussione però è solo un modo per allungarne l’agonia. Il partito di Giorgia Meloni sa bene come la questione sia un campo minato dal punto di vista elettorale e a differenza dei leghisti il tema non è una sua priorità. Il governatore del Veneto Luca Zaia alla Stampa è arrivato addirittura a spiegare che senza autonomia “viene meno la maggioranza”.

Ieri è accaduto altro. In audizione alla Camera sulla delega fiscale il capo del Servizio assistenza e consulenza fiscale della Banca d’Italia Giacomo Ricotti ha detto che la flat tax “è poco realistica in un Paese con ampio welfare” aggiungendo che gli studi “concordano nel dire che ha effetti negativi su redistribuzione e diseguaglianza”. Poi ha concluso dicendo che le coperture della delega fiscale latitano e la norma “fa perdere gettito”.

Nella Lega fremono. La strategia concordata tra i vertici del partito con l’accordo di Matteo Salvini è quella di raccontare Giorgia Meloni e il suo partito come “ostaggi” dei poteri romani, incapaci di affrontare le riforme che servono. Nel centrodestra si proverà a usurarsi tra alleati. “Qui rischia davvero di venire giù tutto se non veniamo riconosciuti nelle nostre battaglie politiche”, sibila un senatore leghista. Giorgia Meloni ripete ai suoi di non preoccuparsi, convinta che alla fine la gioia del potere non scalfirà la tenuta del governo. Ma la Lega senza flat tax e senza autonomia differenziata come potrà ripresentarsi ai suoi elettori? Male, molto male, e Salvini non ha intenzione di ripetere la figura dell’alleato debole.

Buon venerdì.

Nella foto: Il presidente del Senato Ignazio La Russa alla Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti Ue, 23 aprile 2023 (Archivio fotografico Senato)

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Beni confiscati alle mafie, il Governo scarica tutto sui Comuni

I Comuni non hanno i soldi per riutilizzare i beni confiscati? Si ingegnino, li chiedano all’Europa, alle loro Regioni e non disturbino il governo. In estrema sintesi è questa la risposta che il ministro per Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani (che ha sostituito il ministro dell’Interno Piantedosi impegnato in Emilia Romagna) ha dato alla deputata Daniela Ruffino (Azione-Italia Viva-Renew Europe).

L’assurda risposta del ministro Ciriani a un’interrogazione sui beni confiscati alle mafie. I sindaci invitati a elemosinare fondi col portale di supporto

Ruffino aveva chiesto al Viminale cosa intendesse fare per i molti immobili che rimangono parcheggiati a causa della mancanza di fondi da parte dei Comuni che dovrebbero restituirli alla collettività. Nei giorni scorsi anche la Corte dei conti aveva sottolineato come gli ostacoli maggiori nel destinare a nuovo uso i beni sequestrati alle mafie sono legati, oltreché alla lunghezza dei procedimenti, alla ridotta disponibilità finanziaria dei Comuni e degli enti del terzo settore, che rende difficoltoso l’avvio dei progetti di reimpiego sociale delle strutture sottratte alle organizzazioni criminali, soprattutto nel caso di immobili in cattivo stato manutentivo o soggetti a spese di gestione.

Nella sua risposta il ministro Ciriani ha seguito il copione del governo adattabile a tutte le carenze. “Uno degli obiettivi fondamentali del governo è il contrasto alla criminalità organizzata”, dice Ciriani (ci mancherebbe altro), che poi spiega “il valore simbolico di un bene confiscato sul territorio” che possa diventare “presidio di legalità”. Dopo la retorica antimafiosa – inutile e stanca – il ministro ha evidenziato l’aumento del 147% dell’attività dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata promettendo almeno cento nuove assunzioni, oltre ai 200 dipendenti attuali, per potenziare l’agenzia.

Ciriani si è anche soffermato sul prossimo bando che assegnerà 260 immobili. Ma i soldi per i Comuni? Qui la risposta del governo diventa un capolavoro di malcelato disinteresse. Per Ciriani i comuni possono “avvalersi di un portale di supporto” creato ad hoc “per la progettazione e la valorizzazione” dei beni confiscati. La domanda rimane. Ma i soldi? “I Comuni si possono rivolgere ai nuclei di supporto nelle Prefetture”, dice Ciriani.

Per i soldi? E no, i “nuclei di supporto” possono indirizzare il malcapitato sindaco con le tasche vuote all’Unione europea o alle Regioni per recuperare qualche spicciolo. Non solo. Per Ciriani “un altro importante canale di finanziamento sono le fondazioni bancarie” dice all’incredula Ruffino, e “risorse addizionali per i comuni sotto i 15mila abitanti possono essere recuperate con progetti di rigenerazione urbana”. Per farla breve: il governo Meloni non ha intenzione di aggiungere un solo centesimo alla bacinella già vuota dei Comuni che si ritrovano edifici confiscati che non riescono nemmeno a mantenere.

Lo schema è semplice: le forze dell’ordine e la magistratura arrestano i mafiosi e confiscano i loro beni, i sindaci si ritrovano ad affrontare la vendetta dei clan e il peso economico di immobili. Il governo, in disparte, si fregia di lottare contro la mafia e rilascia interviste. Ha ragione Ciriani quando dice che il “valore simbolico” dei beni confiscati è la testimonianza della forza dello Stato contro le mafie. Il problema è che in quella fotografia il governo tiene un corso di elemosina agli amministratori locali con un messaggio chiarissimo: il mafioso è un problema di polizia e carabinieri, le sue case sono un problema del sindaco. Da Roma arrivano al massimo per l’inaugurazione.

Leggi anche: Beni confiscati ai clan. La gestione resta scandalosa. Disarmante fotografia scattata dalla Corte dei Conti. Zero trasparenza in oltre sei città su dieci

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Sicuri che sia maltempo?

«Una nuova ondata di forte maltempo», l’ha chiamata Giorgia Meloni.

La climatologa del Cnr Marina Baldi intervenuta nella trasmissione L’Italia s’è desta su Radio Cusano Campus spiega: «Dobbiamo ancora valutare questo tipo di configurazione atmosferica, è difficile attribuirlo direttamente ad un cambiamento climatico al momento. Quello che possiamo attribuire al cambiamento climatico è l’intensità di questi fenomeni». «È un fenomeno – spiega Baldi- che si verifica molto raramente nel mese di maggio. Fenomeni così intensi si vedono di solito nel periodo autunnale. Abbiamo l’aria fredda che arriva dal Nordest, dall’altra parte dell’Europa abbiamo invece un’aria molto più calda. Questa differenza di temperatura attira l’aria umida da Sud che va a concentrarsi sull’Adriatico. Per questo vediamo fenomeni così intensi. Queste grandi piogge seguono un periodo molto siccitoso durato quasi anni».

Silvio Gualdi, senior scientist al Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc) dove dirige la divisione Climate simulations and predictions, al Corriere della sera dice che «le condizioni di alta pressione che fiancheggiano questa depressione le impediscono di fluire da ovest verso est, seguendo il normale flusso della circolazione atmosferica. Ciò ha generato sulla Romagna questa enorme quantità di pioggia» ma l’altro fattore che contribuisce a rendere questo evento eccezionale è il riscaldamento globale: un’atmosfera più calda contiene una maggiore quantità di vapore acqueo che, quando si verificano queste condizioni meteorologiche, è quindi in grado di produrre molta più pioggia». La siccità prolungata dei mesi scorsi ha poi aggravato l’impatto, «perché un terreno particolarmente secco non riesce ad assorbire le precipitazioni in modo efficace, pertanto la pioggia tende a scorrere sul terreno». Meglio abituarsi, e adattarsi, a quella che rischia di diventare la «nuova normalità». «È probabile che questi eventi estremi diventino più frequenti in futuro. Piove meno frequentemente, e quindi aumenta la probabilità di periodi siccitosi, ma quando piove le precipitazioni sono più intense. È una tendenza che stiamo già osservando e secondo le proiezioni dei modelli climatici si accentuerà ulteriormente in futuro», prosegue Gualdi. Ora prepariamoci ad un’estate più calda ed umida del solito.

Paola Mercogliano, responsabile della divisione Remhi (modelli regionali ed impatti geo-idrologici) del Cmcc, conferma l’attesa variabilità. «Le attuali condizioni estreme sono simili a quelle che portarono all’alluvione del Po nel 1994 e nel 2000. Quindi non possiamo affermare che si tratti di eventi mai visti prima ma sicuramente il cambiamento climatico amplifica la loro frequenza e intensità». Mauro Rossi, ricercatore dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Consiglio nazionale delle ricerche di Perugia (Cnr-Irpi) a Fanpage spiega a proposito dell’Emilia Romagna e degli eventi estremi: «Quest’anno ne abbiamo avuti vari: a settembre c’è stato l’evento di Senigallia, anche se è stato più corto, con pioggia elevatissima, poi c’è stato qualche settimane fa un evento simile sempre in Emilia Romagna, e la stessa cosa è successa anche in Sicilia e Calabria. Il problema è che la frequenza quest’anno è estremamente elevata. Frequenza che può essere sì contingente ma anche un qualcosa che purtroppo sta diventando normalità. Questo è chiaramente attribuibile ad un contesto di cambiamento climatico, che sta rivoluzionando il modo in cui il clima fa pressione sul nostro territorio. Ci sono indicazioni inequivocabili che stiamo osservando il cambiamento climatico e questi sono i suoi effetti».

Qualche giorno fa l’’Istat ha reso disponibile l’aggiornamento al 2021 della serie storica delle statistiche meteoclimatiche di precipitazione e temperatura per i 109 Capoluoghi di Provincia e la Normale Climatologica 1981-2010. Si legge: “Nel periodo 1971-2021, i valori più alti della temperatura media annua dei capoluoghi di Regione si registrano negli anni 2011-2021 (media del periodo 15,8°C). Nel 2014, per la prima volta sono stati raggiunti i 16°C (+1,5°C sul CLINO 1971-2000). La precipitazione totale presenta nel lungo periodo una variabilità inter-annuale: nel 2011-2021 è in media pari a 769 mm. Nel 2021, gli Indici di estremi di temperatura mostrano aumenti per gran parte dei capoluoghi di Provincia. I giorni estivi sono in media 120 e le notti tropicali 44 (in crescita di +4 giorni e +6 notti rispetto al valore medio del periodo 2006-2015). Sale anche il numero di giorni senza pioggia (in media pari a 286 nell’anno) di +5 rispetto al periodo 2006-2015”.

Buon giovedì.

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Tante piazze contro l’omotransfobia. Che in Italia continua a dilagare

“Nella Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia il Governo ribadisce il suo impegno contro ogni forma di discriminazione, violenza e intolleranza”, dice così la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nella nota obbligata che detta da Palazzo Chigi. Celebrare le varie giornate mondiali di un diritto qualsiasi del resto è una liturgia a cui Meloni si sottopone con osservanza da burocrate. Nessuna riflessione al di là della retorica, nessuno slancio, nessun occhio ai numeri.

Cresce la paura di aggressioni e il senso di discriminazione. Il nostro Paese perde un’altra posizione in classifica

I numeri, ad esempio, dicono che l’Italia secondo il rapporto Ilga (associazione internazionale per i diritti Lgbt presente all’Onu) sull’uguaglianza sia scivolata dal 33esimo al 34esimo posto. Nel 2018 eravamo in 32esima posizione. Non benissimo. Come osserva Corinna De Cesare “le notizie nei telegiornali sui temi arcobaleno sono diminuite del 50% rispetto al 2021” e la mancata rappresentazione produce discriminazione, a dirlo è l’Agenzia europea dei diritti fondamentali.

Sempre a proposito di numeri dice molto quel 62% di persone Lgbtqia+ che evitano di tenere per mano la persona amata in pubblico. Il 30% delle persone Lgbtqia+ in Italia evita alcuni luoghi per la paura di subire aggressioni. Il 39% delle lesbiche e il 29% dei gay si è sentito discriminato nei luoghi pubblici, a scuola, sul luogo di lavoro. Una persona su quattro non denuncia le aggressioni. Gay Help Line racconta di avere ricevuto 21mila contatti solo nel 2022. Su circa 400 casi di giovani Lgbtqia+ cacciati di casa solo il 10% riesce e trovare ospitalità nelle case famiglia protette.

Nel 12,6% dei casi, violenza e discriminazione omotransfobiche sono state causa di marginalità sociale e disagio abitativo anche nelle fasce di età adulte (fino a 70 anni): le risposte del sistema dell’accoglienza risultano a oggi insufficienti, in particolare per le persone trans. Dell’11,4% di segnalazioni di discriminazione lavorativa, 3 casi su 4 riguardano persone trans per cui la barriera nell’accesso al mondo del lavoro è elevatissima.

Il 12% delle segnalazioni riguarda aggressioni, molestie e atti di odio omotransfobico in luoghi pubblici o sul posto di lavoro, scatenati dalla visibilità delle vittime. Solo il 38% delle vittime di aggressione si è recato in pronto soccorso dopo aver riportato lesioni e nella maggior parte dei casi non ha dichiarato di aver subito violenza perché Lgbtqia+.

Per il 17% i giovani che hanno contattato Gay Help Line raccontano di aver subito la perdita del sostegno economico da parte dei familiari: la maggior parte di questi sono stati abbandonati e questo ha compromesso i loro percorsi di studio e formazione. “Ogni aggressione alle persone Lgbtqia+ – dice il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres – è un attacco ai diritti umani e ai valori che ci stanno a cuore. Non possiamo e non vogliamo tornare indietro”.

Di “insopportabile piaga sociale” ha parlato anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha chiesto “una risposta di condanna unanime”. Mentre Alessandro Zan, deputato e responsabile Diritti della segreteria Pd, ricorda che “gli attacchi continui e i discorsi d’odio di molti esponenti di governo sono responsabili di un arretramento del nostro Paese sul piano dell’inclusione e della piena uguaglianza di tutti i cittadini, in particolare colpendo i diritti dei figli delle famiglie arcobaleno e acuendo una discriminazione odiosa e inaccettabile”.

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