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Ritorsione di Stato sugli studenti. Sparito il fondo contro il caro-affitti

La protesta dilaga e il governo agisce per ritorsione. Mentre ieri in tutta Italia gli studenti universitari hanno protestato contro il caro affitti che di fatto toglie la possibilità di accedere al diritto allo studio, il governo Meloni pasticcia sui 660 milioni del Pnrr per gli alloggi agli studenti.

La protesta degli studenti universitari contro il caro affitti dilaga in tutto il Paese e il governo agisce per ritorsione

L’emendamento che prevedeva lo stanziamento (utile anche ad ammorbidire la protesta studentesca) rischiava di essere inammissibile inserito nel dl sul rafforzamento della pubblica amministrazione. Il presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera Nazario Pagano ha spiegato che l’esecutivo ha annunciato l’intenzione di “spostare” l’emendamento in un altro decreto, l’omnibus con norme su Inps, Inail ed enti lirici, che sarà esaminato da questa settimana dalle Commissioni Affari costituzionali e Bilancio di Montecitorio. Solo “questioni di attinenza materiale” della misura, si giustifica il ministero dell’Università specificando che non c’è stata “nessuna retromarcia”.

L’errore cade proprio nel giorno in cui il collettivo studentesco Cambiare rotta ha allargato la protesta delle tende anche a “lavoratori, disoccupati e classi popolari“. Quei fondi dovrebbero finanziare i 52.500 nuovi posti previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza di qui al 2026. Ad aggiungere una tragica nota comica risuonano le parole di Tommaso Foti, capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia che alcuni giorni fa aveva dichiarato: “Con buona pace dei sinistrorsi che fomentano le polemiche, il governo Meloni non si limita a chiacchiere e vacue soluzioni per il caro affitti: sblocca 660 milioni per gli alloggi universitari”. “Un gioco delle tre carte davvero mal riuscito scaricato sulla pelle di chi cerca soluzioni e trova invece approssimazione”, dice Matteo Richetti, capogruppo di Azione-Italia Viva alla Camera.

Duro anche il capogruppo al Senato del Pd Francesco Boccia: “Avevamo già denunciato che i 660 milioni annunciati dal governo non risolvevano il problema – spiega – perché si trattava di risorse già previste che garantivano solo un po’ di alloggi universitari in più gestiti però da privati. Ma oggi la retromarcia del governo su quell’emendamento, tanto sbandierato, al decreto sulla pubblica amministrazione dimostra che abbiamo di fronte un governo capace solo di fare propaganda ma incapace di affrontare in modo strutturale un problema che colpisce soprattutto i nostri giovani”. Secondo Boccia “quello di oggi è l’ennesimo bluff di un governo che fa il gioco delle tre carte sulla pelle di studenti e famiglie”.

“Il governo Meloni è riuscito a fare l’impensabile e a collezionare un’altra clamorosa figuraccia“, rincara Francesco Silvestri, capogruppo M5S alla Camera: “Tra l’altro, a rendere il tutto ancor più ridicolo, c’è che quello del governo Meloni era un vero e proprio bluff visto che quelle annunciate e poi ritirate, non erano nuove risorse, ma quelle già previste nel Pnrr. Purtroppo il governo sceglie di vivere di sola retorica, ma al Paese serve la sostanza”. Per l’Unione degli Universitari, il ritiro dell’emendamento “è solo l’ultimo errore di una lunga sfilza che il governo ha compiuto sulla residenze universitarie”.

“Questo emendamento – dice Simone Agutoli dell’Udu – è stato inserito all’ultimo momento, all’interno di un decreto che riguarda tutt’altro. Non ci stupisce che sia stato ritirato, ci è sembrata subito un intervento propagandistico. Il Governo continua a fare passi falsi sul tema delle residenze universitarie. Il Pnrr sugli studentati sta facendo un disastro: non solo denunciamo come stia dando soldi soltanto ai privati, senza regole, ma contestiamo anche che il ministero dell’Università abbia effettivamente raggiunto il target fissato del Pnrr. Nei prossimi giorni presenteremo un apposito report di inchiesta che contraddice i numeri del Mur”.

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Calenda continua a perdere pezzi

Acque sempre più agitate nel Terzo Polo, tra Carlo Calenda e Matteo Renzi. Il leader Italia Viva ha presentato ieri ufficialmente, con tanto di conferenza stampa, l’approdo al suo partito di due esponenti di Azione: la deputata Naike Gruppioni e la consigliera regionale emiliana Giulia Pigoni. Quando la notizia ha iniziato a circolare ed è tata confermata dalle dirette interessate, Calenda non ha esitato a parlare di “scippo”.

CORNUTO E MAZZIATO

“Ogni scelta – ha scritto sui social – è legittima e rispettabile. Mi permetto solo di notare che, per rispetto alla comunità che l’ha eletta sei mesi fa quasi senza conoscerla, una comunicazione preventiva sarebbe stata più elegante. Ma immagino che l’uscita a sorpresa fosse parte dell’accordo di ingaggio”. Neanche la replica dell’ex premier si è fatta attendere: “Azione è in un momento in cui una parte delle persone se ne sta andando. C’è una discussione interna che noi aspettiamo, ma forse questo deve far fare qualche domanda su quello che sta succedendo. Qualcuno si faccia delle domande se qualcuno da un partito viene via, perché c’è rimasto male”.

ABBANDONATO DA TUTTI

Questa Gianluca Susta si è dimesso da segretario regionale di Azione in Piemonte per mancata condivisione con la linea indicata da Carlo Calenda. “Resto nel partito perché ne condivido i valori. – spiega Susta – Non sono però d’accordo con la linea di rottura con Italia Viva perché sostengo la necessità di una ricomposizione dell’area liberal democratica e quindi ritengo di non essere la persona più adagiata a rappresentare la linea del partito sul territorio”.

A Modena l’addio riguarda 38 componenti del direttivo provinciale tra cui Pietro Borsari, segretario cittadino di Modena: “Non ci sentiamo più rappresentativi di un partito che, pur essendo nato con l’obiettivo di essere forza aggregatrice libdem e riformista, ha deciso di adottare una linea isolazionista — spiegano in una nota —. Sentiamo di aver profuso energie, entusiasmo e impegno in un progetto che ha smarrito la sua vocazione originaria. È impossibile per noi continuare a rappresentare questo partito sul territorio”.

CALENDA: “CON RENZI HO GIÀ DATO”

Parlando a ‘di martedì’ su La7, il ieri il leader  di Azione aveva spiegato: “Renzi oggi – mentre io stavo in giro per le amministrative per cercare di prendere voti per liste dove c’erano pure i suoi! – è andato da una parlamentare di Azione, che manco era iscritta ad Azione, e l’ha convinta a passare con lui. Uno che fa una cosa del genere poi ti chiede di andare alle europee insieme?”. Ha aggiunto Calenda: “Io mi attribuisco l’errore, non ha sbagliato Renzi, Renzi ha fatto Renzi. Io mi sono fidato quando mi ha detto guarda guadagno 2,5 milioni con gli arabi, faccio un passo indietro, ti aiuto a costruire questo. Ci ho creduto, speravo di riuscirlo a fare. Ho sbagliato. Ma certamente uno che si comporta come si sta comportando in questi giorni. Ho già dato”.

L’INCOGNITA DEI GRUPPI

Torna alla ribalta, sia pure sullo sfondo, pure la non irrilevante questione dei gruppi parlamentari. Renzi ha ribadito anche ieri di non voler crearne di autonomi: dopo il Senato, da oggi anche alla Camera, grazie alla riforma del Regolamento e alle deroghe, Iv potrebbe però formarli.

 

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Perfino il Servizio del bilancio del Senato boccia il dl Autonomia

Il Servizio del bilancio del Senato «ha passato al setaccio il disegno di legge» sull’Autonomia differenziata, in questi giorni all’esame della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, “rilevando alcune criticità”. Si può leggere su LinkedIn, dove sul profilo ufficiale del Senato da giorni campeggia un post in cui si sottolineano criticità sul “trasferimento alle Regioni di un consistente numero di funzioni oggi svolte dallo Stato (e delle relative risorse umane, strumentali e finanziarie)” che provocherebbe “una forte crescita del bilancio regionale ed un ridimensionamento di quello statale, col rischio di non riuscire a conservare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) presso le Regioni non differenziate”.

In questo modo “le regioni più povere, oppure quelle con bassi livelli di tributi erariali maturati nel proprio territorio, potrebbero avere maggiori difficoltà a finanziare, e dunque ad acquisire, le funzioni aggiuntive”. Un problema che si autoalimenta, quindi: le Regioni ricche che si prendono molte autonomie si terranno più soldi, e ne daranno meno allo Stato, che così avrà meno risorse per aiutare le Regioni più povere – o comunque quelle che riscuotono meno tasse. La mancanza di soldi renderà sempre più difficile, per le Regioni povere, finanziarsi da sole e arrivare a poter acquisire più autonomie. Sono le stesse critiche che da più parti sono state avanzate. Sono le osservazioni che il governo continua a negare.

Lo studio spiega che ogni Regione dovrebbe finanziare le sue nuove funzioni prendendosi una parte delle tasse che normalmente vanno allo Stato: è la “compartecipazione sui gettiti dei tributi”. In una “fase avversa dell’economia”, però, gli introiti dalle tasse diminuirebbero e le Regioni non potrebbero fare nulla: non avrebbero lo stesso margine di manovra che ha lo Stato, per cambiare in autonomia l’entità delle tasse in base alla situazione. Servirebbero quindi ogni volta nuove trattative Stato-Regione, un processo macchinoso e poco funzionale. Per quanto riguarda la possibilità delle Regioni di trasferire funzioni ai Comuni si sottolinea come “potrebbe far venir meno il conseguimento di economie di scala”, perché in ogni caso ci sono “dei costi fissi indivisibili legati all’erogazione dei servizi” che pesano di più, se a sostenerli devono essere tante amministrazioni locali invece di una sola più grande.

Infine, il dossier ha messo in evidenza che, anche se nel testo della legge c’è scritto che dall’attuazione dell’autonomia non devono derivare “direttamente oneri a carico della finanza pubblica” non sarà così. Ieri qualcuno si deve essere accorto del Senato che boccia il governo e Palazzo Madama frettolosamente ha chiarito che si è trattato di “una bozza provvisoria, non ancora verificata, sul disegno di legge sull’autonomia è stata erroneamente pubblicata online. Il Servizio del bilancio si scusa con la stampa e con gli utenti per il disservizio arrecato. Non la pensa così il senatore Pd Alessandro Alfieri, responsabile Pnrr e Riforme per il Pd, che racconta come “il dossier era stato già mandato per mail a tutti i senatori venerdì scorso, quindi ben 5 giorni fa. Ridicolo parlare di bozza”. Per Marco Sarracino, responsabile Sud e coesione della segreteria Pd, “sarebbe grave se una manina avesse sollecitato il ritiro di un documento di un organo dello Stato. E sarebbe ancora peggio se fosse partito un processo di normalizzazione delle strutture tecniche, che come è noto svolgono con grande professionalità e imparzialità il loro lavoro”.

Buon mercoledì

Nella foto: il ministro Calderoli alla conferenza stampa di presentazione del Dl Autonomia differenziata, 2 febbraio 2023

 

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Leggi anti-mafia sotto attacco. Gratteri in trincea sul 41 bis

Ci sarebbe un obiettivo chiaro dietro la normalizzazione della mafia e dietro l’antimafia stanca di questi ultimi anni: “Da un po’ di anni è in corso una sorta di smobilitazione della legislazione antimafia e del sistema carcerario partendo dal mantra che le mafie non ci sono più, Cosa Nostra non c’è più, e che quindi non c’è più pericolo e bisogna abolire il 41 bis”. A dirlo è il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri parlando dal carcere di Opera.

La normalizzazione della mafia, denuncia Gratteri, si potrebbe scorgere nella lentezza con cui il governo sta predisponendo l’insediamento della Commissione antimafia e nel cambio di registro narrativo

Il magistrato ha difeso il 41 bis spiegando che “non è un sistema penitenziario tipo Guantanamo” e che “chi è detenuto al 41bis, dal punto di vista astratto, sta più comodo di chi è all’alta sicurezza o tra i comuni. Chi è al 41bis – ha detto Gratteri – sceglie di continuare a stare lì perché ha la possibilità, collaborando, di uscirne subito”. È vero, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro alla Giustizia Carlo Nordio fin dal loro insediamento ripetono a gran voce che il “41 bis” non si tocca ma in tema di mafia bisogna tenere allenato lo sguardo lungo e la lettura complessiva.

La normalizzazione della mafia, come denunciata da Gratteri, si potrebbe scorgere nella lentezza con cui il governo sta predisponendo l’insediamento della Commissione antimafia e nel cambio di registro narrativo. Sulla Commissione antimafia pesano i dubbi sulla deputata di Fratelli d’Italia Chiara Colosimo, indicata come nuova presidente. Ieri alcuni familiari delle vittime di mafia (Salvatore Borsellino, Paolo Bolognesi, Manlio Milani, Federico Sinicato, Stefano Mormile, Nunzia Agostino, Paola Caccia, Pasquale Campagna, Giovanni Impastato, Angela Gentile Manca) hanno scritto una lettera aperta in cui denunciano i rapporti tra la deputata meloniana e il terrorista dell’eversione di destra Luigi Ciavardini.

Ciavardini, esponente – assieme ad altri criminali come Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro – del gruppo eversivo neofascista dei Nar, è stato condannato definitivamente per l’omicidio del poliziotto Francesco Evangelista e del magistrato Mario Amato e ovviamente per la strage della stazione di Bologna, dove morirono 85 persone. Ma soprattutto Ciavardini è legato ad alcune associazioni che da anni chiedono l’abolizione del 41 bis. E qui si torna al punto di partenza.

“È accettabile che si scelga, per un ruolo così importante, una persona che non si vergogna di avere rapporti con uno stragista che mai si è pentito? E, ancora, solo a noi appare evidente il gigantesco conflitto di interessi della probabile futura presidente? È così che lo Stato onora le vittime delle stragi terroristico-mafiose e chiede fiducia ai loro familiari?”, chiedono i familiari. Di attacco al 41 bis e di sconti di pena ha parlato anche Salvatore Baiardo, già condannato per avere favorito la latitanza dei fratelli Graviano.

Secondo l’ex gelataio (ritenuto inattendibile da più parti) l’arresto di Matteo Messina Denaro rientrerebbe in uno “scambio” che prevederebbe anche l’abolizione del carcere duro. Infine c’è un’ulteriore stranizza, per dirla alla siciliana. Meloni e Salvini, sempre pronti a prendersi il merito di qualsiasi operazione contro la criminalità organizzata, negli ultimi mesi sono insolitamente cauti nel festeggiare le maxi operazioni (come quelle di ieri, con 3 tonnellate di cocaina sequestrate o gli arresti di ‘Ndrangheta e Sacra corona unita). Esultare per gli arresti potrebbe essere controproducente per la mafia che non ci deve essere più?

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Fuga dal mattatoio Sudan. Ecco i nuovi disperati su cui la destra può sparare

In Sudan si combatte da quattro settimane. Tra qualche mese i sudanesi saranno i nuovi nemici di certa narrazione, accusati di compiere il gravissimo reato di scappare dalla fame e dal piombo cercando riparo in Europa. Occuparsi degli effetti e non delle cause è una specialità tutta italiana. Differire la narrazione del disastro per guadagnare tempo è la strategia di chi racconta l’immigrazione come un “fenomeno”, “un’emergenza”, una sfortunata coincidenza capitata sulle spalle del governo di turno.

La guerra civile è senza più freni. Già 300mila gli sfollati pronti a scappare dal Sudan

Cosa accade in Sudan? Dal 15 aprile il Sudan sanguina sotto i colpi di due generali e due eserciti che si affrontano a colpi di artiglieria e con combattimenti corpo a corpo. Gli scontri sono cominciati nella capitale Khartoum. Le Forze paramilitari del Supporto Rapido (Rsf) guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo – detto Hemedti – hanno attaccato il quartier generale dell’esercito regolare comandato dal generale Abdel Fattah al Burhan, numero uno del paese dopo il colpo di Stato del 2021.

Sia Burhan sia Hemedti sono stati uomini di fiducia dell’ex-presidente Omar al-Bashir destituito durante la rivoluzione sudanese nel 2019 dopo trent’anni di governo. Il presidente fu accusato di genocidio in merito all’annosa guerra civile nella regione del Darfur (2003-2008), in cui l’esercito sudanese si rese protagonista di un massacro etnico contro le popolazioni non musulmane. I morti furono 300mila. Il parere condiviso da molti analisti è che lo scontro sia il risultato dell’incapacità del Sudan di intraprendere un percorso di transizione dopo il golpe militare che avrebbe dovuto portarlo verso un governo civile.

La guerra, come tutte le guerre, sta portando il Paese sull’orlo del precipizio. Il generale Hemedti è il fondatore nel 2013 della milizia islamica Janjaweed (“demoni a cavallo”), tristemente nota per gli stupri, gli incendi ai villaggi e le fosse comuni nella guerra contro i ribello del Darfur. È senza dubbio l’uomo più ricco del Paese, avendo messo le mani sulla maggior parte delle miniere d’oro del Sudan, che rappresentano metà del Pil dello Stato. I suoi uomini sono segnalati, come mercenari, in conflitti recenti come quelli in Yemen e in Libia.

Il generale Abdelfatahl Burhan (che con Hemedti è stato protagonista del colpo di Stato nel 2021) ha 62 anni ed è presidente del Consiglio sovrano di Transizione. Durante il primo di governo di Abdalla Hamdok poi dimissionario, nel periodo in cui al Burhan era a capo del Consiglio Sovrano, sono state apportate importanti riforme nel paese, come la messa al bando delle mutilazioni genitali femminili nel maggio del 2020, l’abolizione della pena di morte per omosessualità, apostasia, dell’obbligo del velo e della fustigazione pubblica nel luglio 2020. La guerra è locale ma la catastrofe umanitaria è globale. L’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite conta almeno 700 morti e 300mila sfollati, anche se i dati reali potrebbero essere sensibilmente superiori.

Il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite sostiene che 19 milioni di persone – ovvero il 41% della popolazione totale, che conta 46 milioni di persone – potrebbero presto piombare nella malnutrizione se non si riuscirà a fermare il conflitto. Manca lo stretto necessario, spiega Mathilde Vu, dell’organizzazione no-profit Norwegian Refugee Aid. “È un inferno: la gente fatica ogni giorno a trovare l’acqua perché non c’è più acqua corrente, e muoversi è sempre un rischio perché si può cadere nel fuoco incrociato anche solo andando a comprare del cibo”, racconta Vu.

I prezzi nel Paese sono alle stelle, le banche sono chiuse e non erogano contanti. “Ogni singolo pezzo di vita che può esistere è ora distrutto o in pericolo, ecco perché ci sono molte persone che sono fuggite e stanno correndo verso il confine a Nord, in Egitto, o a Sud, nel Sud Sudan, o a volte nelle città vicine a Est”, dice Vu. Sadeia Alrasheed Ali Hamid, un’attivista sudanese che attualmente vive in Arabia Saudita, ha raccontato a Euronews di “corpi lasciati per strada per essere mangiati dai cani”.

“Ci sono bambini che non possono andare in ospedale, tutti hanno paura di uscire anche solo per andare a comprare cibo”, ha spiegato. I bombardamenti condotti dall’aeronautica sudanese su Khartum hanno in gran parte distrutto l’East Nile Hospital, ieri le parti in conflitto si sono reciprocamente attribuite la responsabilità di un attacco condotto alla periferia di Khartum in una chiesa copta, del quale non è chiaro il bilancio.

Tutto questo a distanza da pochi giorni dall’accordo tra l’esercito e le forze paramilitari con cui si impegnano a proteggere i civili sudanesi, a far entrare l’assistenza umanitaria, a consentire il ripristino dell’elettricità, dell’acqua e di altri servizi di base, a ritirare le forze di sicurezza dagli ospedali e a organizzare una “sepoltura rispettosa” dei morti. Ieri il generale sudanese Abdel Fattah al Burhan ha rimosso il ministro degli Interni Anan Hamed Mohammed Omar, che è anche direttore generale della polizia. In Italia il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha accennato alla guerra in Sudan in riferimento al rischio “di attivare una pericolosissima spirale sul fronte migratorio”.

Segnatevi queste sue parole perché tra poco andrà in scena lo spettacolo a cui assistiamo regolarmente: fingeranno di non saperne, metteranno in dubbio la violenza e la guerra, contesteranno la disperazione e alla fine troveranno il modo per dire che non è “un nostro problema”. Anche perché tra le molte sfortune i sudanesi hanno anche la peggiore: essere neri.

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Rai: quelli che vengono (oltre quelli che vanno)

Breve lista di appunti su Giampaolo Rossi, nuovo direttore generale della Rai scelto da Giorgia Meloni che recupera il pessimo precedente di Fanfani mettendo un suo fedelissimo all’interno dell’azienda pubblica, senza nemmeno fare finta.

Il compito di Rossi è chiaro: «riequilibrio di tutte le narrazioni», recuperare spazi «usurpati dalla sinistra» e lasciare spazio «agli intellettuali di destra». Fin qui sembrerebbe l’ennesima lottizzazione dell’azienda pubblica, semplicemente dall’altro lato.

Giampaolo Rossi da quel che leggiamo è un fan sfegatato Netanyahu, Putin e Orban (e fin qui ci potrebbe stare, è esattamente ciò che fu Giorgia Meloni fino a un secondo prima del suo arrivo a Palazzo Chigi). Nel suo blog de Il Giornale come ricorda Paolo Mossetti “definisce gli statunitensi scesi in piazza per contestare l’elezione di Trump «i nipotini di Soros», «femministe vomitate da una caricatura… cianfrusaglie travestite da donne». Ed è solo un assaggio: lo specchio dell’acredine «buonista» che ha da sempre come bersaglio”. Definisce Roberto Saviano un «vermilinguo» e ha nemici ben definiti. Scrive sempre Mossetti: “«l’intellettuale impegnato», «il volontario delle Ong con i soldi di Soros», «il fighetto radical-chic con il culo degli altri». O paragona Mbappé, il calciatore di successo, a un rapper che gira con la maglietta con la scritta Jihad: «il primo è un’eccezione, il secondo sarà la regola». O come quando identifica due categorie: «il nigeriano e il buonista» come «la feccia di questo Paese», che vanno messi, entrambi, «nella condizione di non nuocere». Per non dire che tra i suoi miti ha Francesca Totolo, la blogger vicina a CasaPound accusata di aver inventato la storia delle unghie smaltate di Josefa: «La dama sovranista è una delle più scrupolose cacciatrici delle fake news del mainstream». E se lo dice lui”.

Putin? Come racconta Davide Maria De Luca su Domani Rossi scriveva: «La colpa di Putin è di non volere sottomettere la Russia ai dettami del Nuovo ordine mondiale preconizzato da Soros». «La democrazia in Occidente è in pericolo non per Putin, ma per un’élite tecnocratica che sta distruggendo le sovranità popolari». E ancora: «Obama vuole spingerci alla guerra contro Putin». «Pensare che la Russia stia per invadere l’Europa – scriveva nel 2018, quattro anni dopo l’inizio delle operazioni militari russe in Ucraina – è solo il frutto di una schizofrenia indotta». In quegli anni definiva i timori per l’aggressività di Putin come una narrazione che «affonda le sue radici nei secolari interessi imperiali di Londra» e che oggi si sposano «con gli interessi dell’élite globalista».

Si legge nell’articolo di Domani: “«Guai a chi si oppone ai disegni del Nuovo ordine mondiale», scriveva in uno dei suoi articoli. Secondo Rossi, il principale esponente di questo complotto è (indovinate un po’) il miliardario ungherese George Soros, «speculatore globalista con il vizietto di destabilizzare governi democraticamente eletti» e vero architetto dei «processi migratori per alterare gli equilibri demografici secondo quella “etica del caos” tipica dell’umanitarismo ideologico della élite». Rossi ci tiene a ricordare che Soros è «ebreo», ma «di origine ungherese», e lo paragona al mostruoso Shelob di Tolkien, «il malefico essere a forma di ragno»”.

Buona visione e buon martedì.

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Zelensky batte cassa ai leader Ue

Dopo Italia, Germania e Francia continua il tour del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. L’altro ieri con il presidente francese Emmanuel Macron, Zelensky ha incassato la promessa francese di continuare “a fornire sostegno politico, finanziario, umanitario e militare agli ucraini finché sarà necessario. “Nelle prossime settimane, – scrive Macron su Twitter – quindi, addestreremo ed equipaggeremo diversi battaglioni ucraini con decine di veicoli blindati e carri armati leggeri”.

Da Kiev shopping armato senza freni. Dopo il No al cessate il fuoco del Papa il leader ucraino Zelensky vuole pure i caccia

Il Regno Unito invierà invece centinaia di nuovi droni d’attacco a lungo raggio con una portata di oltre 200 chilometri. Lo ha dichiarato il governo britannico dopo che Zelensky ieri è atterrato a Londra per un incontro con il primo ministro Rishi Sunak.

Il premier britannico ha affermato che l’incontro arriva in un “momento cruciale nella resistenza dell’Ucraina e che il Regno Unito donerà “centinaia di altri missili di difesa aerea e ulteriori sistemi aerei senza pilota, tra cui droni d’attacco a lungo raggio” che sosterranno l’Ucraina mentre si prepara a intensificare la sua resistenza all’invasione russa in corso. Il presidente ucraina annuncia con la Gran Bretagna anche “una coalizione di jet”: “credo che a breve sentirete alcune decisioni molto importanti, ma dobbiamo lavorarci un po’ di più”, ha detto il leader ucraino subito dopo l’incontro a Chequers con Sunak.

Passa qualche ora e un portavoce del premier Rishi Sunak, citato da SkyNews, aggiusta il tiro: “Saprete che la Raf non li usa”, ha spiegato ai giornalisti, alludendo all’uso di Typhoon e F-35 da parte delle forze britanniche. “Ovviamente, credo, stanno trattando con altri paesi che usano gli F-16, e noi lavoriamo con quei paesi”.

Mosca risponde a stretto giro: la fornitura di missili da crociera Storm Shadow dalla Gran Bretagna all’Ucraina “non può avere effetti fondamentali” sul conflitto in corso, ma porterà solo a “ulteriori devastazioni”, dice il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov citato dalle agenzie russe. Sempre sul campo internazionale Zelensky spinge per velocizzare l’ingresso del suo Paese nella Nato.

“È tempo di rimuovere la più grande incertezza sulla sicurezza in Europa, ovvero approvare una decisione politica positiva sull’adesione alla Nato”: ha detto il presidente ucraino in un discorso video al vertice sulla democrazia di Copenaghen. “Vale la pena farlo già al vertice di luglio. Questo sarà un segnale tempestivo”, ha affermato Zelensky.

Secondo il Washington Post però fra i paesi membri della Nato c’è un “consenso” sul fatto che non ci sarà alcun invito formale all’Ucraina per l’adesione all’alleanza al prossimo vertice dell’11 e 12 luglio. Anche per quanto riguarda l’adesione all’Ue la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, con il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, ha spiegato che “resta ancora del lavoro da fare. Alcuni passi, dei sette previsti, sono stati già fatti – ha detto von der Leyen – ma altri sono ancora in corso.

Von der Leyen ha ricordato che “a giugno la Commissione presenterà un rapporto orale, intermedio, sui progressi dell’Ucraina e a ottobre sarà invece presentato il rapporto completo” sulla base del quale si esprimeranno gli Stati per decidere l’eventuale avvio dei negoziati.

Per Bergoglio lo stop al conflitto non è una resa a Putin ma i fautori della deriva bellica fingono di non capire

Nonostante le dichiarazioni è gelo invece tra Ucraina e Vaticano. Il consigliere presidenziale ucraino Mykhailo Podolyak ha invitato il Papa “a sposare il piano di pace ucraino”. Anche gli appassionati belligeranti di casa nostra friggono per il piano del Vaticano. Resta quindi sospesa la solita domanda: ma se Bergoglio non sta lavorando per “la resa dell’Ucraina” ma per la fine delle ostilità, a chi da fastidio che possa finire questa guerra

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Fabio Fazio lascia la Rai. O viene cacciato. Ormai si gioca sul filo delle parole

Fabio Fazio lascia la Rai. O viene cacciato. Ora si giocherà sul filo delle parole. Dalle parti del governo avranno vita facile nel dire che “era semplicemente in scadenza di contratto”. Come osserva Carlo Verdelli “Una libera scelta Sì. L’avrebbe fatta se i vertici Rai avessero firmato il contratto di tre anni già pronto da mesi? No. E perché non l’hanno firmato? Per rendere obbligata la libera scelta”.

Come al solito Matteo Salvini nella sua infantilità non è riuscito a trattenersi e e se l’è fatta nei pantaloni: “Belli ciao”, ha scritto riferendosi a Fazio e a Luciana Littizzetto. Del resto proprio Fazio in un’intervista aveva parlato degli attacchi ricevuti da Salvini e dai silenzi Rai. All’epoca erano 123, come raccontava lui stesso, sottolineando di averli contati: “Se vieni attaccato dal capo del Viminale, hai una vita normale e due figli da portare a scuola, non sai mai chi sono i seguaci del ministro…”.

Fabio Fazio lascia la Rai. O viene cacciato. Ormai si gioca sul filo delle parole

“Essere stronzi è dono di pochi, farlo apposta è roba da idioti (cit.)”, ha commentato il dem Matteo Orfini. Le critiche arrivano soprattutto per il ruolo che Salvini ricopre: “Non spetta a me difendere la professionalità di Fabio Fazio. E non ci vuole un genio per capire che il suo addio alla Rai rappresenta un danno per l’azienda e il servizio pubblico. L’arroganza, l’ottusità e il rancore possono far parlare così.

Ma un Ministro non può parlare così”, osserva Peppe Provenzano, responsabile Esteri del Pd. E la senatrice Simona Malpezzi rilancia: “Non c’è che dire: che classe,
che stile. Matteo Salvini non perde occasione per farsi riconoscere. Mai all’altezza del ruolo che ricopre. Mai”. Ne “Il fascismo eterno” Umberto Eco scriveva: “Avendo perduto il loro potere di delega, i cittadini non agiscono, sono solo chiamati pars pro toto, a giocare il ruolo del popolo. Il popolo è così solo una finzione teatrale. Per avere un buon esempio di populismo qualitativo, non abbiamo più bisogno di Piazza Venezia o dello stadio di Norimberga. Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo Tv o Internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata e accettata come la “voce del popolo”.

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Caso Rovelli: peggio c’è solo l’autocensura. Che c’è

Nel giro di qualche ora è accaduto di tutto. Tutto è molto peggio di quanto si potesse immaginare nella più funesta delle ipotesi.

Il fisico Carlo Rovelli rende pubblica la mail con cui viene sollevato dall’invito di rappresentare l’Italia all’inaugurazione della Buchmesse di Francoforte. Il commissario del governo nonché presidente dell’Associazione italiana editori Riccardo Franco Levi nella sua mail fa riferimento alle parole pronunciate da Carlo Rovelli sul palco del primo maggio, quando si è permesso di dire pubblicamente ciò che tutti dovrebbero sapere ovvero che il ministro della Difesa Guido Crosetto era un signore delle armi prima di diventare ministro delle armi (lui stesso aveva ritenuto inopportuna una sua eventuale nomina a ministro in quel ruolo).

Le reazioni alla notizia sono la fotografia di un tempo cupo, confuso e di poco sapere. Qualcuno dice che giustamente Rovelli è stato escluso perché “amico di Putin”. C’è anche un certo giornalista, una firma celebre del giornale che piace alla gente che piace, che definisce Rovelli fiancheggiatore di Putin. È normale: come in tutte le guerre anche su quella innescata dalla assassina invasione russa si buttano gli amatori degli armatori. C’è chi dice che Rovelli dovrebbe parlare “solo di buchi neri”. Sono gli stessi che grazie alla guerra hanno guadagnato un po’ di visibilità e ora discettano di geopolitica, di politica, di cultura, di costume e commentano i commentatori. Anche questo l’abbiamo già visto: la pandemia ha vomitato mostri onniscienti. Poi, per fortuna, spariscono.

Torniamo alle reazioni che ci interessano. L’Aie (Associazione italiana editori) ha sconfessato il suo presidente Franco Levi. Tra gli editori qualcuno (troppi pochi) ha preso posizione. Soprattutto il ministro Crosetto ha riferito di non avere esercitato alcuna pressione. Quindi chi ha spinto Levi a questa scelta Lo spiega lui stesso in un’intervista al Corriere della Sera in cui dice di avere scelto “da solo” e di averci ripensato. Rovelli ci sarà.

Niente censura quindi? No, peggio: autocensura. L’interprete di un ruolo di punta dell’editoria italiana – il luogo dello smottamento per vocazione – ha deciso di cancellare l’intervento di una delle penne di punta della cultura italiana per “stare tranquillo”. Un gesto che è una medaglia per un governo che sogna di censurare senza proferire verbo. A questo punto la domanda è semplice: chi non è all’altezza del ruolo, provocando dannose polemiche?

Buon lunedì.

Nella foto: frame del video dell’intervento di Carlo Rovelli al concerto del primo maggio a Roma

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Uccisi per lo sciopero della fame. Ignorati gli altri Cospito d’Italia

“Mentre molta doverosa attenzione è stata riservata allo sciopero della fame nel caso di una persona detenuta al 41-bis, con interrogativi che hanno anche coinvolto il mondo della cultura e l’opinione pubblica, oltre che le Istituzioni, nella Casa di reclusione di Augusta il silenzio ha circondato il decesso di due persone detenute avvenuto a distanza di pochi giorni, ambedue in sciopero della fame rispettivamente una da 60 giorni e l’altra da 41 giorni”, ha commentato così Mauro Palma, il Garante nazionale delle persone detenute e private della libertà, la notizia della morte di due detenuti, avvenuta a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, nel carcere di Brucoli.

Sciopero della fame nel carcere di Augusta. Due ergastolani si sono lasciati morire di stenti. Ma le loro storie non fanno notizia e a nessuno importa

In due settimane i detenuti sono morti in ospedale per gli effetti del loro sciopero della fame. Liborio Davide Zerba, 45enne di Gela, stava scontando l’ergastolo ed era in sciopero della fame da 41 giorni. Victor Pereshchako, cittadino russo, era stato condannato all’ergastolo e dal 2018 chiedeva l’estradizione per poter scontare la pena nel suo paese. È morto dopo 60 giorni di sciopero della fame. Su entrambi i decessi indaga “contro ignoti” la procura di Siracusa. La notizia, diffusa dal sindacato di Polizia penitenziaria (Sippe), il Garante nazionale dei detenuti che sul punto “richiama l’attenzione pubblica sulla necessità della completa informazione che deve fluire dagli Istituti penitenziari all’Amministrazione regionale e centrale affinché le situazioni problematiche possano essere affrontate con l’assoluta attenzione che richiedono”.

ll Garante nazionale nel suo comunicato “non intende assolutamente sollevare problemi relativi all’assistenza che queste persone possono avere avuto nell’Istituto e all’adempimento dei protocolli che sono previsti in simili casi. Intende però richiamare – conclude la nota – la necessità di quella trasparenza comunicativa che, oltre a essere doverosa per la collettività, può anche aiutare a trovare soluzioni in situazioni difficili perché non si giunga a tali inaccettabili esiti”. Il senatore Antonio Nicita (Pd) ha presentato una interrogazione al Governo. Chiede di conoscere quali misure urgenti il Ministro competente intenda adottare “per intervenire su una situazione di evidente crisi che era già stata, peraltro, segnalata dal senatore Nicita e da altri colleghi in una interrogazione nei mesi scorsi”.

A quell’interrogazione il Governo aveva risposto solo sul piano delle risorse umane addizionali che dovrebbero essere garantite in un prossimo futuro e non anche sul piano dell’assistenza sanitaria e psicologica. “I nuovi gravissimi fatti rendono del tutto insoddisfacente l’attenzione che il Governo finora ha riposto sulla vicenda. Seguiranno nuove ispezioni”, spiega il senatore Nicita. Nel 2022, 84 persone si sono uccise in carcere. È il numero più alto dal 2000, quando si è cominciato a registrare questo dato. Tredici suicidi ogni 10 mila persone detenute.

A differenza del caso Cospito questi muoiono nell’indifferenza generale, non scaldano le opinioni della stampa e della politica, non muovono solidarietà al di fuori delle associazioni che nelle carceri e con le carceri faticosamente lavorano da anni. Troppo facile capirne le motivazioni: il carcere sale alla ribalta solo quando è utile allo scontro politico. Sulla pelle dei carcerati si giocano dispute che non hanno nulla a che vedere con le detenzioni e con le persone detenute. Così nel Paese che si è accapigliato su Cospito si può morire meritando solo qualche riga senza provocare nemmeno un’alzata di ciglio.

 

 

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