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A 45 anni dal delitto Impastato la retorica politica dimostra che l’Antimafia è stanca

L’antimafia è stanca e si vede. A 45 anni dall’omicidio di Peppino Impastato scorrere le dichiarazioni e i post sui social in memoria dell’attivista politico che si ribellò alla mafia in famiglia e che additò come mafioso il boss di Cinisi Tano Badalamenti mentre i suoi concittadini lo servivano è un buon termometro per misurare l’anestetizzazione.

Fiumi di ipocrisia su Peppino Impastato. Se l’attivista che sfidò Badalamenti fosse ancora vivo gli darebbero del manettaro

A Peppino non è andata bene nemmeno da vivo. Nel giorno in cui il suo corpo venne ritrovato straziato dal tritolo sui binari della ferrovia Palermo-Trapani le telecamere e i microfoni di tutto il mondo erano puntati sul ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani. Non fu difficile far scivolare quel caso di cronaca locale in fondo alle pagine dei giornali, là dove si accennava a un bombarolo anarchico e pazzo a cui era scoppiata la bomba in mano.

Quarantacinque anni dopo la verità giudiziaria ci consegna una memoria che ieri avremmo potuto praticare e su cui la politica avrebbe potuto interrogarsi. Peppino Impastato ucciso da Cosa nostra per mano di Vito Palazzolo su ordine di Gaetano Badalamenti è stato straziato per anni anche dallo Stato. Lo dice la relazione della Commissione parlamentare antimafia del 2000 e l’avrebbe voluto dimostrare l’inchiesta archiviata nel 2018 perché furono prescritte le accuse di favoreggiamento a Cosa Nostra, falso ideologico e concorso in reato per l’allora maggiore dei carabinieri Antonio Subranni (poi promosso a generale e comandante del Raggruppamento Operativo Speciale), per l’allora brigadiere Carmelo Canale e gli allora marescialli Francesco Di Bono e Francesco Abramo.

L’antimafia sveglia avrebbe notato un particolare: nel 45esimo anniversario della morte di Peppino Impastato il depistaggio è una piega della storia che vale la pena dimenticare e la Commissione Antimafia è un vezzo parlamentare a cui la maggioranza di governo non ha avuto il tempo di dedicarsi, impegnata com’è a estirpare la terribile piaga dei rave party e degli amori che ai governanti non piacciono.

L’antimafia è stanca e si vede. Anche ieri la figura di Peppino Impastato è stata vittima dell’iconizzazione utile a tacerne il senso. Sui social dei rappresentanti politici un profluvio di post con immagine annessa hanno dipinto Peppino come uno stralunato artista incappato in una storia più grande di lui. Significativo, come ogni anno l’errore comune di citare tra virgolette frasi mai dette da Impastato, estrapolate dal film che parla di lui. Anche ieri hanno commemorato un film scambiandolo per la storia che avrebbero voluto omaggiare.

Così il Peppino Impastato scomodo scompare, ancora una volta. Scompare l’attivista politico, il consigliere comunale di Democrazia Proletaria eletto anche da morto, l’uomo che credeva nella mobilitazione per ottenere salari dignitosi, il cittadino che già sapeva come il cemento fosse una mangiatoia per le mafie e le collusioni. Oggi Peppino Impastato, se fosse oggi qui, sarebbe considerato un manettaro, un calunniatore. Oggi si sprecherebbero gli articoli contro il suo giustizialismo verso Tano Badalamenti che invece era uomo incensurato e rispettato. Ricordare Peppino come icona fa comodo a molti: ai depistatori, agli intrallazzatori con la mafia, a quelli che non si mobilitano più, a quelli che “la mafia non c’è più”, a coloro che raccontano quell’epoca come se non avesse lasciato figli sporchi nella classe dirigente attuale. Oggi gli direbbero: “Si occupi di radio, lasci perdere la politica”.

Per questo lo commemorano disinfettandolo il più possibile. L’antimafia è stanca e si vede, anche se qualche stimolo prova a farsi sentire. Ieri il Partito democratico ha deciso di ritirare il proprio appoggio al sindaco Giuseppe Castiglione di Campobello di Mazara dove il boss dei boss Matteo Messina Denaro ha vissuto indisturbato per 30 anni come un baby pensionato leggero nonostante i morti sulla coscienza. Il sindaco si era battuto per difendere l’onorabilità sua e del suo comune. Fu appoggiato da un deputato poi arrestato per mafia e un’intercettazione diceva “la massoneria è con lui”. L’antimafia è stanca e si vede.

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Barbari e barbareschi

“L’omosessualità è un adattamento”. “Molte donne che si sono definite molestate erano finte”. “Troppo moralismo sul gender: i miei figli cresciuti nelle università americane non hanno più senso dell’umorismo”. Ieri Repubblica ha pensato bene di sbattere in pagina una intervista al regista Luca Barbareschi. Una ventata di maschilismo, omofobia e un velo di patriarcato è stata offerta ai gentili lettori. A pensar male verrebbe da pensare che in questi tempi corroborare la narrazione di governo sia una tentazione per tutti, progressisti o meno. O forse è il disperato tentativo di aprire un dibattito, quindi domani potremmo trovarci l’autore di un femminicidio che ci racconta perché sia giusto uccidere la moglie.

In quell’intervista ci sono talmente tanti errori che potrebbe essere un’unica lunga correzione blu. Barbareschi parte dalle attrici (boccone sempre goloso in questo Paese che non è riuscita a fare pace con il MeToo) offrendone una rappresentazione che corrisponde perfettamente ai conti dei maschi pediatri: donne che si presenterebbero ai provini con le gambe aperte per lasciare indovinare la presenza o meno delle mutande, avide di molestie vere o presunte per potersi “pubblicizzare”, come spiega Barbareschi. Sarebbe curioso sapere dalle associazioni che si occupano di molestie nel mondo dello spettacolo se esista una donna, anche una sola, che in Italia abbia ottenuto benefici dalle sue denunce. Sarebbe importante farsi spiegare da quelle associazioni che finire sbattuta in prima pagina sui giornali non sia “pubblicità” ma quasi sempre l’annuncio di un declino di carriera e di socialità.

L’associazione Amleta (che Barbareschi tira in ballo come coacervo di donne in cerca di pubblicità) lo dice chiaramente: “lo stereotipo che le donne mentano è molto radicato e di solito è alimentato da chi vuole mantenere intatto un sistema di potere e di oppressione. Non è basato su un’analisi della realtà ma sul nulla”. Come sottolinea The Period “il problema non è (solo) quello che dice Luca Barbareschi ma che le sue parole siano validate in prima pagina da un quotidiano nazionale che il 25 novembre poi è pronto a fare le paginate con le scarpette rosse. I media hanno un ruolo fondamentale nella narrazione della violenza di genere e spesso diventano moltiplicatori di stereotipi, discriminazioni, sessismo che – SPOILER – sono alla base della piramide della violenza”.

Però Barbareschi il suo l’ha fatto. Con la sua rivittimizzazione s’è fatto notare dai barbari. Pensateci bene. Si è fatto pubblicità con le molestie. Degli altri.

Buon mercoledì.

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Cottarelli, Marcucci, Fioroni & C. Tutti gli addii che fanno bene al Pd

Se i sostenitori di Elly Schlein, nuova segretaria del Partito democratico, si aspettavano chiarezza politica all’interno del partito per ora non possono dirsi delusi. Carlo Cottarelli decide di lasciare il Pd e il suo posto da senatore e si aggiunge a Marcucci, Fioroni, Chinnici, Borghi che dopo l’elezione della nuova segretaria hanno deciso di spostarsi verso il centro.

L’economista Carlo Cottarelli è stato l’ultimo a lasciare la nave. Un favore alla Schlein che avrà meno nemici interni

L’economista di Cremona (che proprio nel collegio di Cremona ha incassato una sonora sconfitta contro Daniela Santanchè alle ultime elezioni politiche staccato di oltre 23 punti percentuali) ha sciorinato il suo addio con una doppia intervista dal salotto di Fabio Fazio a Che tempo che fa replicata sulle pagine del Corriere e con una lettera Repubblica in cui spiega di avere ricevuto un’offerta dall’Università Cattolica per “andare a dirigere un programma per l’educazione delle scienze sociali ed economiche rivolto agli studenti delle scuole superiori” in tutta Italia.

Cottarelli spiega di non essere a suo agio per “l’estrema conflittualità fra minoranza e opposizione”: “faccio qualche esempio, – dice Cottarelli – è prassi che le minoranze presentino degli emendamenti, io ho visto che sistematicamente sono rigettati. Tanto quanto, spesso le minoranze propongono emendamenti quasi solo per fare ostruzionismo. Mi aspettavo un atteggiamento meno conflittuale”.

È il cliché dei competenti di questo Paese che si stupiscono quando scoprono che le loro affermazioni discutibili vengono aspramente discusse. Che la natura della politica sia il contraddittorio, anche duro, e un incessante battaglia sulle proprie tesi e sui principi sembra essere sconveniente. C’è da aspettarselo: in un Paese in cui gli economisti sono stati rivenduti come gli unici “tecnici” superiori alla politica, capaci addirittura di guarirla, il ritorno a una centralità parlamentare (luogo in cui si parla e non si applaude) è ritenuto inelegante e sconveniente.

“Credo sia importante che ognuno faccia al meglio quello che può fare, credo di poter essere più utile al Paese nel mio ruolo di grillo parlante, di divulgatore”, spiega Cottarelli. Eppure non sono da “grillo parlante” ma sono estremamente politiche le motivazioni che il senatore quasi ex del Pd regala al giornale degli Agnelli: “Un Pd più a sinistra – scrive Cottarelli a Repubblica – può trasmettere un messaggio più chiaro agli elettori, cosa essenziale per un partito politico. Ciò detto, mi trovo ora a disagio su diversi temi“. Jobs Act, accise sui carburanti, freno superbonus, termovalorizzatori, eterno in affitto e nucleare sarebbero alcuni punti su cui il senatore si sarebbe sentito a disagio con il suo partito.

Il fiuto dell’economista si è rivelato fallace nel considerare quali fossero i desiderata degli elettori che avrebbe dovuto rappresentare. Poco male. Va riconosciuto a Cottarelli di avere almeno il prerequisito della decenza (cosa rara in Parlamento) di dimettersi anche da senatore anziché aderire a altri partiti. Per tastare il polso politico del suo addio basta osservare chi lo sventola come clava contro la segretaria Schlein: ci sono quasi tutti quelli del fu Terzo polo, e c’è l’esponente di spicco di Base riformista Lorenzo Guerini che esce dal suo abituale silenzio.

Dell’ex aspirante premier sentirà la mancanza solo Calenda che voleva imbarcarlo

“Io Cottarelli volevo candidarlo, e non capisco perché non si sia candidato con noi e invece si sia candidato col Pd”, ha detto il segretario di Azione Carlo Calenda. Sono in molti a non averlo mai capito. Carlo Cottarelli era la “punta di diamante” del Pd alle ultime elezioni politiche (parole dell’ex segretario Enrico Letta): la sua uscita dice molto del Pd che fu e molto di questo odierno. Così Schlein rischia di vincere per abbandono.

 

Leggi anche: Formigoni candidato alle europee e Cuffaro segretario della Dc. Che si tratti di mafia o corruzione, le condanne in Italia fanno curriculum

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Formigoni candidato alle europee e Cuffaro segretario della Dc

Una restaurazione la noti da molti particolari. C’è il ritorno di idee, anche quelle più reazionarie, che nessuno aveva più il coraggio di proporre, c’è lo sdoganamento di pratiche politiche che fino a pochi mesi prima sarebbero state scandalose e poi c’è il ritorno di antichi personaggi portatori di un’epoca. Nel giro di poche ore sulla ribalta politica nazionale sono riapparsi Roberto Formigoni e Salvatore Cuffaro, incuranti delle condanne giudiziarie ma soprattutto delle condanne politiche di un’era che hanno diversamente cavalcato lasciando solo macerie.

Che si tratti di mafia o corruzione, le condanne non contano niente. Anzi, per la casta fanno pure curriculum

“Sembra fantascienza”, come dice il dem Pierfrancesco Majorino, e invece è un giorno di maggio del 2023. Salvatore Cuffaro è stato eletto segretario all’unanimità al XX Congresso nazionale della Dc che si è tenuto presso il centro congressi Sheraton de Medici, a Roma. Solo a febbraio l’ex governatore della Sicilia aveva estinto la sua interdizione dai pubblici uffici, pena accessoria alla condanna per favoreggiamento alla mafia.

“Il mio tempo per le candidature è finito”, aveva annunciato stentoreo l’ex presidente siciliano. Forse ci ha ripensato. Sembrano dimenticati i cannoli con cui Cuffaro festeggiava la condanna in primo grado per il processo alle “talpe” alla Dda di Palermo. Era stato condannato per avere informato il boss mafioso Giuseppe Guttadauro di essere intercettato eppure esultava: non essere stato condannato per favoreggiamento della mafia era già un buon motivo per essere felici. Non andrà a finire bene: il 22 gennaio del 2011 per lui si aprono le porte del carcere di Rebibbia e l’aggravante mafiosa è scritta nero su bianco nella sentenza di Cassazione.

Cuffaro eletto segretario della Democrazia cristiana

Ce n’è abbastanza per consigliare un buen retiro ma Cuffaro non la pensa così: “Riprendendo ciò che disse Martin Luther King 60 anni fa, we have a dream. Abbiamo un sogno, bellissimo e difficile ma non utopico. Vogliamo un Paese dove noi, i nostri figli, i nostri nipoti possano vivere in un sistema politico democratico e popolare. Vogliamo un Paese dove si possa votare un partito di valori, libero, aperto, plurale, che garantisca diritti, giustizia, e libertà. Un partito, la Democrazia Cristiana, che sia protagonista nella politica e nella società”, ha dichiarato Cuffaro dopo l’elezione.

Non basta nemmeno una condanna definitiva a 5 anni e 10 mesi per corruzione a far desistere Roberto Formigoni dal ritorno in politica. Dopo 18 anni di presidenza della Regione Lombardia ai quali vanno aggiunti 8 anni da deputato (prima dell’era da governatore) e 5 da senatore l’ex presidente (e punto di riferimento di Comunione e Liberazione) starebbe parlando di una sua ricandidatura alle europee con Fratelli d’Italia voluta – secondo le indiscrezioni – dal presidente del Senato Ignazio La Russa: i due ne avrebbero discusso durante un pranzo in un ristorante vicino al palazzo della Regione Lombardia.

Formigoni medita il ritorno in pista con un seggio al Parlamento europeo

Non pesano le sentenze che raccontano come tra il 1997 e il 2011 61 milioni di euro di fondi della Fondazione Maugeri e dell’ospedale San Raffaele furono sottratti illecitamente e usati per pagare mazzette in cambio di favori e rimborsi ai due enti. “Soldi tolti ai malati per i suoi sollazzi”, sottolineò nella requisitoria del processo di primo grado l’allora pm Laura Pedio. Ma non sembra essere un intralcio: Formigoni sarebbe la pedina perfetta per il partito di Giorgia Meloni per riuscire a strappare gli ambienti ciellini a Forza Italia e diventare la forza sistemica dell’impianto politico lombardo. Il potere val bene una messa. Del resto un perdono disponibile si trova sempre. Anche alla faccia dei cittadini.

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Sputare sui diritti per sfregio

Non stupisce nessuno che Regione Lombardia abbia deciso per l’ennesima volta di non dare il suo patrocinio al gay pride e di non illuminare Palazzo Lombardia con i colori dell’arcobaleno. Pur di tenere fede all’immagine della cattolicissima omofobia la giunta regionale l’anno scorso aveva cancellato una votazione passata in consiglio regionale (con voto segreto) contravvenendo anche alle basilari regole nei ruoli di giunta e consiglio.

In quell’occasione l’allora consigliere regionale Alex Galizzi ci spiegò che la giunta lombarda aveva “riportato l’ordine” annullando la decisione del consiglio che il leghista definì «un errore madornale che finisce per confondere gli elettori e dare uno spaccato falsato di quello che rappresentano simili iniziative». Se abbastanza occhi e abbastanza orecchie per scorgere ancora la violenza nelle parole avremmo dovuto sobbalzare sulla sedia sentendo accostare un ordine naturale alla negazione di una manifestazione di libertà. Non è accaduto. Il consigliere leghista non è stato rieletto, mangiato dalla crescita dei suoi alleati meloniani. L’ordine naturale è rimasto inalterato, sopravvivendo a Galizzi.

Ciò che colpisce però è l’inossidabile posizione di una Regione che sopravvive ai suoi dirigenti politici restando fedele ai suoi lati peggiori. Sono fortunatamente pochi quelli che confondono gli opinabili eccessi con lo spirito di una manifestazione che non riguarda solo la comunità Lgbtqia+ ma c’entra con la libertà. Il gay pride è semplicemente il randello di una destra ideologica che bastonando una minoranza vuole manifestare il proprio posto nel mondo. E nel mondo (e in Europa) il campo è lapalissiano: chi sta con i diritti e chi li opprime. Sputare sui diritti è un tic elettorale distintivo, indipendentemente dai diritti in questione. Il no al gay pride e uguale al no ai grilli, al no alle energie rinnovabili, al no ai matrimoni egualitari, al no alle auto elettriche, al no agli inglesismi, al no agli stranieri, al no al diritto all’aborto, al no all’autodeterminazione delle donne, no all’eutanasia e a un altro milione di no su svariati argomenti.

Il no è la nuce dell’identità delle destre che si annusano e si riconoscono per le loro negazioni. Un’ossessione che rivela l’ipocrisia di fondo di chi in pubblico bastona una categoria per diventare un paladino del suo campo e poi in privato, di nascosto come accadeva decenni fa, vive gli amori che condanna. Raccontare l’avanzamento dei diritti come il sintomo del declino di una società è un ragionamento truffaldino che nasconde l’incapacità di vederli, di riconoscerli e di immaginarne di nuovi. Infine c’è l’aspetto più brutale e fascista: mentre questi si dilettano con “il gioco del no” per piacere ai loro amichetti in giro per il mondo finiscono bastonati amori reali, persone vere, famiglie in bilico. Accade così che per portare avanti la propaganda della negazione a qualcuno cambi in peggio la vita.

Buon martedì.

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La (pessima) idea di parlamentari di destra e sinistra: festeggiamo domani in piazza Montecitorio lo scudetto del Napoli

Come direbbe Luca Bizzarri “non hanno un amico” oppure non li ascoltano. La notizia che alcuni parlamentari campani festeggeranno domani alle 15 lo scudetto del Napoli con bandiere e spumante in piazza Montecitorio a più di qualcuno continua a apparire inopportuna ma il folto gruppo trasversale sembra non voler tornare sui suoi passi. I nomi che girano (non confermati) sono quelli di Gianluca Cantalamessa, Sergio Costa e Federico Cafiero De Raho (Cinque Stelle), Francesco Emilio Borrelli (Verdi), Gimmi Cangiano e Marta Schifone (Fratelli d’Italia).

Alcuni parlamentari campani festeggeranno domani alle 15 lo scudetto del Napoli in piazza Montecitorio

Tutti insieme per un flash mob pomeridiano che potrebbe non essere gradito ai cittadini per più di un motivo.
Tra i collaboratori dei parlamentari si prova a ragionare su una questione di comunicazione: davvero vale la pena sorridere in piazza mentre poi ci si mena per le riforme sui giornali e in Parlamento? Sappiamo bene quanto la fede calcistica unisca poli anche opposti ma la fotografia non sarebbe troppo ardita

E poi: perché i parlamentari dovrebbero festeggiare cinque giorni dopo? Sarebbe naturale leggere del martedì come primo giorno utile della settimana corta dei parlamentari a Roma, argomento che in molti in questi anni hanno usato per pigiare sull’indignazione.

E infine: con l’inflazione che galoppa e i salari che ristagnano come potrebbero prendere gli elettori (non tifosi del Napoli) il festeggiamento calcistico di parlamentari lautamente stipendiati? Al cuor del tifoso non si comanda. La festa, per ora, sembra confermata.

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Processo al Greenwashing. I grandi inquinatori nel mirino Usa

La Federal Trade Commission (Ftc) degli Stati Uniti sta prendendo di mira il greenwashing delle più grandi aziende, con un aggiornamento delle sue linee guida che darebbe più potere di intervento all’agenzia contro il marketing ingannevole sulla sostenibilità e responsabilità ambientali, punti dalla legge federale.

La Federal Trade Commission degli Stati Uniti sta prendendo di mira il greenwashing delle più grandi aziende

La mossa segue anni di denunce formali presentate alla Ftc sulla comunicazione molto discutibile delle società di combustibili fossili, agricole e alimentari che da anni si impegnano a ripulire la propria immagine di industrie inquinanti. Al centro del contenzioso – che potrebbe essere la scintilla per un’azione a livello globale – ci sono le indicazioni spesso troppo vaghe sulle compensazioni del carbonio, sulla definizione di “gas naturale” e “gas naturale rinnovabile”, sulla riciclabilità delle plastiche e sulle etichettature “organiche”.

La Federal Trade Commission indaga sul marketing ingannevole

John Kostyack, consulente per la campagna Fossil-Free Finance del Sierra Club, intervistato dal Guardian ha spiegato che “i consumatori sono stati bombardati da messaggi fuorvianti che hanno condizionato i loro acquisti”. I “sofisticati schemi di marketing” del settore sono “chiaramente progettati per sfruttare il numero elevato e crescente di consumatori che cercano di acquistare prodotti prodotti in modo sostenibile”, ha scritto Food and Water Watch in un documento presentato alla Ftc.

Tra le affermazioni prese di mira dai gruppi ambientalisti ci sono le affermazioni dell’industria petrolifera secondo cui tutta la plastica è riciclabile. Numerose indagini hanno scoperto che in gran parte non lo è, e la stragrande maggioranza della plastica statunitense che i consumatori pensavano sarebbe andata in un centro di riciclaggio per essere riutilizzata è in realtà bruciata o sepolta. L’anno scorso, proprio per un’ingannevole dicitura sull’etichetta, l’azienda Keurig Dr Pepper è stata condannata a pagare 10 milioni di dollari per la falsa affermazione che le sue tazze da caffè monouso fossero riciclabili.

Tra le denunce anche quella contro la compagnia petrolifera Chevron

Tra le denunce che pendono presso la Ftc c’è anche un atto di accusa (sempre a partire dalle nuove linee guide che la stessa Ftc si è data) verso la compagnia petrolifera Chevron (160 miliardi di dollari di fatturato annuo): secondo la denuncia Chevron, la seconda azienda più inquinante del mondo, ha contribuito con più di 43,35 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente nei gas serra dal 1965 e attualmente non ha intenzione di ridurre le sue emissioni complessive; dice di produrre energia “sempre più pulita” o “pulita”, mentre spende meno dello 0,2% del suo budget in conto capitale per fonti di energia rinnovabili, travisa i benefici del biometano o del “gas naturale rinnovabile” e mente ai consumatori con una comunicazione ingannevole, come “ridurre l’intensità delle emissioni” continuando ad aumentare l’estrazione e la produzione complessiva di petrolio e gas.

Le cinque maggiori compagnie petrolifere hanno speso oltre 3,6 miliardi di dollari in pubblicità di “reputation building” negli ultimi 30 anni, hanno scoperto i ricercatori della Brown University, e la ricerca di Harvard nel 2022 ha identificato una qualche forma di greenwashing nel 72% dei post sui social media delle compagnie petrolifere e del gas. Ora qualcuno vuole fare chiarezza.

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«Se dai ricevi»

«L’Egitto ci ha aiutato rinunciando ai suoi carichi quest’estate per mandarli in Italia per riempire gli stoccaggi. Questi sono Paesi che se dai ricevi». Sono le parole pronunciate durante la convention di Forza Italia dall’amministratore delegato dell’Eni, elogiando la sua bravura nel sopperire al taglio del gas russo con il gas egiziano in nome dell’antica amicizia tra i due Paesi.

Si è dimenticato Descalzi di spiegarci minuziosamente cosa abbia dato l’Italia per ricevere. Si è dimenticato anche di raccontarci quali siano le caratteristiche di questa “antica amicizia”. Sappiamo sicuramente che noi italiani dall’Egitto insieme al gas abbiamo ricevuto il cadavere di Giulio Regeni, ammazzato da uomini di al-Sisi che non riusciamo a processare perché il governo egiziano protegge gli assassini. Abbiamo ricevuto anche l’immagine delle botte sul corpo di Patrick Zaki, fotografia del pessimo stato dei diritti in Egitto.

E chissà come spiegherebbe Descalzi (e quelli d’accordo con lui) di scegliere di liberarsi del regime russo virando sul regime egiziano. Fingendo, come accadde con Putin, di non vedere i segnali di un Paese che potrebbe essere benissimo essere il prossimo regime. Chissà se Descalzi sarà brillantemente pronto al prossimo giro quando ci sarà da smarcarsi da un nuovo regime fingendo di non averlo concimato, esattamente come accaduto con Putin.

Un anno fa proprio Descalzi aveva spiegato che era importante risolvere il caso Regeni «per creare stabilità nel Mediterraneo». «Ho sempre cercato e ribadito nei miei incontri in Egitto, anche al livello di presidente (Abdel Fatah al Sisi), l’importanza di chiarire questa situazione proprio per i rapporti che ci sono tra Egitto e Italia, (…) due Paesi che devono rappresentare un momento di stabilità in una situazione non facile» nel Mediterraneo, disse Descalzi audito dalla commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni.

Si era dimenticato di dirci che stava dando per ricevere. Mica giustizia, per ricevere il gas.

Buon lunedì.

Nella foto Giulio Regeni dal sito di Amnesty international

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Bentornato tetto di cristallo. La prossima tornata di amministrative è una delle peggiori per candidate sindache

Potete riporre nel cassetto il giubilo per una presidente del Consiglio donna che avrebbe scardinato (e dovuto scardinare) la prepotente presenza maschile all’interno della politica italiana. Se è vero che il Partito Democratico e Fratelli d’Italia hanno oggi due leader femminili (e solo una femminista) nei meandri più in basso della politica italiana la situazione rimane immobile.

Nei capoluoghi di provincia dove si voterà, quasi il 90 per cento dei candidati sindaco è uomo

Pagella Politica ha raccolto i dati delle imminenti elezioni amministrative nei capoluoghi di provincia e segnala che quasi il 90 per cento dei candidati sindaco è uomo. I candidati sindaco sono 77 (l’86 per cento sul totale), mentre le donne sono 13 (il 14 per cento). Queste ultime sono in calo rispetto alle elezioni comunali del 2022, quando le candidate sindaca erano il 21 per cento.

In questa tornata elettorale il capoluogo di provincia con più candidate sindaca è Siena: Nicoletta Fabio è la candidata della coalizione di centrodestra, Anna Ferretti di quella di centrosinistra, mentre Elena Boldrini è la candidata del Movimento 5 stelle. Le altre candidate sindaca donna si trovano a Ancona, Brescia, Latina, Massa, Imperia, Pisa, Siracusa, Teramo, Terni, Trapani e Vicenza. A Brindisi, Catania, Imperia, Ragusa, Sondrio e Treviso i candidati sindaco sono invece tutti uomini.

Non si tratta una tornata sfortunata. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, circa l’85 per cento dei comuni italiani ha un sindaco, mentre solo il 15 per cento una sindaca. Questa legislatura, vale la pena ricordarlo, segna per la prima volta in 20 anni un calo di donne in Parlamento. Bentornato tetto di cristallo, eravamo in ansia per te. Immaginiamo già le risposte: avete una presidente del Consiglio e una leader donna, fatevi bastare quelle. In fondo la questione femminile è importante che rimanga un gingillo, mica una pandemia.

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La guerra ai poveri e le colpe della speculazione delle imprese

Non funzionerà perseverare nel tentativo di nascondere i poveri per non dover parlare di povertà. Per un motivo semplicissimo: perché sono troppi. E il giorno in cui sarà obbligatorio parlare di soldi, di redditi, di stili di vita che galleggiano di poco sopra alla linea della dignità toccherà fare i conti con la realtà. La realtà è quella che la Banca centrale europea prova a ripetere da mesi: l’inflazione con cui siamo alle prese dipende, anche se non soprattutto, dalle aziende che hanno ritoccato i listini più di quanto siano saliti i loro costi, approfittando della situazione. L’aumento dei costi c’è stato, ma è stato amplificato dal comportamento delle imprese. I profitti aziendali sono saliti, i margini, in media, anche. Il potere d’acquisto dei salari invece è crollato.

Per affrontare il caro-vita si tagliano le spese primarie

Si tornerà a fare i conti con le famiglie che per affrontare il caro-vita continuano a tagliare le spese primarie, alimenti inclusi: ne ha parlato il presidente di Assoutenti Furio Truzzi, con una riduzione media di 377 euro per un nucleo famigliare con due figli. «Prosegue la cura dimagrante degli italiani. Una dieta forzata dovuta ai prezzi lunari, rincari che ora sono ingiustificati, frutto di speculazioni belle e buone», dice l’Unione nazionale dei consumatori.

Mef, il totonomi per il successore di Franco
Fabio Panetta tra Klaus Regling e Paolo Gentiloni. (Getty Images)

Così ci toccherà rileggere Fabio Panetta, membro italiano della Bce, che al New York Times spiegava che «i politici, da tempo preoccupati dalla possibile rincorsa tra prezzi e salari, dovrebbero iniziare a preoccuparsi dei rischi di una cosiddetta spirale profitti-prezzi». Perché insieme al mancato innalzamento dei salari si assiste a uno spropositato aumento dei profitti che non si può sperare di tenere nascosto a lungo.

Gli stipendi italiani fermi a quelli di 30 anni fa Fate qualcosa

Forse accadrà anche che gli stipendi italiani fermi a quelli di 30 anni fa (unico Paese dell’Ocse) smetteranno di essere solo un grafichetto colorato che gira nei gruppi social degli indignati e emergerà in tutta la sua drammatica potenza. A quel punto non si potrà più fingere che si tratti del solito lamento dei soliti noti e bisognerà dare delle risposte i cittadini. E no, non funzioneranno gli alambicchi retorici di presunti economisti illuminati prestati alla politica.

Persino comprarsi un’auto ormai è diventato un lusso

Ci si renderà conto che mentre giganteggia il greenwashing nelle aziende inquinanti che si rivendono “rinnovabili e bio” gli italiani non hanno i soldi per acquistare le auto che permetterebbero alle città di respirare meglio e ai cittadini di spostarsi nei centri con regole sempre più restrittive. Il 75,26 per cento dei residenti a Roma e provincia ha optato per l’acquisto di un usato non per scelta, ma perché anche un’auto ormai è un lusso. Le restrizioni della pandemia e i rincari dovuti alla guerra in Ucraina, secondo la Cgil di Roma e Lazio, hanno eroso il potere di acquisto delle famiglie laziali riducendo di circa il 15 per cento la loro capacità di spesa. Inoltre gli ultimi dati Istat sull’occupazione collocano il Lazio tra le regioni in Italia che ancora non ha recuperato i livelli pre pandemia.

Nel suo discorso al congresso della Cgil, Giorgia Meloni ha affrontato diversi temi dal reddito di cittadinanza alla riforma fiscale.
Giorgia Meloni. (Twitter)

Essere poveri è considerata una colpa dal governo Meloni  

Ha ragione il sindaco di Bergamo Giorgio Gori quando dice che per il governo (ma ci permetteremmo di allargare il giudizio anche su politici che non sono al governo) «chi è povero, senza l’attenuante di appartenere a una famiglia “svantaggiata”, si trova in questa condizione per propria scelta, perché non ha voglia di lavorare, e non va quindi sostenuto oltre una limitata soglia temporale». Essere poveri è una colpa. Solo quello. Senza nessun’altra analisi o spiegazione. Non si tratta solo di Reddito di cittadinanza. Demolire il Reddito di cittadinanza è la scorciatoia che serve per seminare aporofobia. Per ora funziona. Ma non durerà a lungo.

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