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Trattativa Stato-mafia, è partito l’ordine di far dimenticare tutto

“Il processo Trattativa è finito come era inevitabile che finisse, io confesso che quando è cominciato pensavo che non sarebbe andato da nessuna parte invece è stato glorioso”. Si potrebbe partire dalle parole del sostituto procuratore generale di Messina Felice Lima pronunciate qualche giorno fa per leggere questi giorni dannati in cui l’anti-antimafia italiana esulta scomposta per una sentenza di Cassazione che non ha capito nemmeno. Le reti televisive e gli editoriali esplodono di sedicenti esperti di mafia che abbaiano contro i magistrati.

Sulla sentenza del processo Trattativa Stato-mafia si può solo sparare. Così non si parla di Cosentino e D’Alì

“Non c’è stata nessuna trattativa!”, ripetono in coro. L’assoluzione in Cassazione dei carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, non colpevoli “per non aver commesso il fatto”, di Marcello Dell’Utri “per non aver commesso il fatto” e la prescrizione che ha salvato i boss mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà dal reato riformulato in “tentata minaccia a corpo politico dello Stato” consente a qualche avventuriero di ripetere che “non c’è stata nessuna trattativa”.

Gli anti-antimafiosi fingono di non sapere che gli imputati non sono stati assolti perché il fatto non sussiste ma per non averlo commesso. Che questo processo dovesse dimostrare l’esistenza di una “trattativa” è un cruccio di qualche disinformato o colluso. Ci sono sul punto almeno 5 sentenze definitive in cui si scrive nero su bianche che le stragi mafiose fossero state compiute per costringere lo Stato a scendere a patti con la mafia. Si ritennero sufficientemente provati i contatti avvenuti dopo la strage di Capaci tra l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, e il Ros.

Quindi con chi trattarono i mafiosi? “La trattativa è un’invenzione”, ripetono in coro i pappagalli e i loro fiancheggiatori. Se fu un’invenzione sappiano (e si dica in giro) che proprio Mario Mori ne è il padre. Fu lui a raccontare, in una sua deposizione, il suo dialogo con l’allora sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino: “Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua Ormai c’è muro, contromuro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?” – disse Mori, lo racconta lui stesso -. E restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa”.

Cosa serve per zittire questo fragore indecente che da giorni vorrebbe affogare Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia? La Cassazione ha assolto il generale Mori e gli altri componenti del Ros dal reato di “attentato agli organi politici dello Stato”. La Cassazione riconosce che la tentata minaccia l’hanno compiuta solo i mafiosi Bagarella e Antonino Cinà (il medico vicino a Riina). Cosa abbia portato. Cosa nostra la trattativa la Cassazione non lo spiega.

La Cassazione non esclude che ci fu un canale aperto tra lo Stato e le cosche. Fingere di non capirlo rasenta la malafede

Rimaniamo con i dubbi sulla latitanza per 40 anni di Bernardo Provenzano nonostante 10 anni prima del suo arresto un mafioso infiltrato (Luigi Ilardo) avesse indicato il casolare in cui si nascondeva. Ci teniamo i 30 anni di latitanza di Matteo Messina Denaro comodamente nascosto a casa sua. Ai plotoni schierati su giornali e televisioni interessa confondere le acque, calunniare e mischiare. Usare una sentenza per negare fatti già scritti in altre sentenza. Usare una sentenza per smentire lo stesso Mori che si agitano per difendere.

Un tilt di opacità che come sempre accade quando si parla di mafia può avere solo due case: collusione o cretineria. Due vizi ugualmente insopportabili per una presunta classe dirigente. Nel frattempo i tromboni dell’anti-amtimafia si sono distratti di fronte alla condanna dell’ex coordinatore campano di Forza Italia (nonché ex sottosegretario) Nicola Cosentino (nella foto) al soldo dei Casalesi. Come precedentemente si sono persi la condanna dell’ex senatore berlusconiano Antonio D’Alì. La sineddoche di usare la sentenza di Cassazione (senza averla compresa) per condonare le responsabilità della politica è un gioco vigliacco e antico. Ma non durerà per sempre.

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La Commissione Antimafia bloccata da Salvini e Meloni

Sessanta giorni fa è stata istituita la Commissione Antimafia. Non c’è nulla. Niente. La lotta alla mafia sventolata da Giorgia Meloni e Matteo Salvini in campagna elettorale è arenata nel desolante deserto di palazzo San Macuto, dove tutto sarebbe pronto per accogliere i 25 deputati e i 25 senatori se ci fosse la volontà. Per ora tutto tace.

Qualche giorno fa l’associazione Libera di don Luigi Ciotti aveva chiesto di accelerare: “Da questa maggioranza nessuna risposta, solo un silenzio assordante. Le numerose inchieste portate avanti da magistrati e forze dell’ordine, gli allarmi e le denunce contenute nell’ultima Relazione Semestrale della Dia dimostrano con chiarezza che mafie e corruzione sono ancora forti e che c’è bisogno di uno scatto, di un sussulto di coscienza prima che sia troppo tardi”.

“La Commissione Antimafia deve essere insediata al più presto, si nomini il presidente e i componenti. C’è tanto lavoro da fare per leggere ciò che sta avvenendo sui territori, costruire delle proposte utili a liberare il Paese dalla morsa degli interessi criminali e dalle troppe connivenze di cui godono. Cosa state aspettando?”, proseguiva Libera chiedendo “che in tempi brevi sia insediata e diventi operativa la Commissione Bicamerale Antimafia istituita più di un mese ma ferma ai blocchi di partenza”.

Di sicuro non passeranno al vaglio della Commissione Antimafia gli impresentabili delle prossime elezioni amministrative di maggio. Anche immaginando un insediamento repentino altamente improbabile, non ci sarebbero i tempi tecnici per passare al vaglio i curriculum e i certificati di tutti i candidati. L’attività di controllo prevede una collaborazione con le Prefetture e alla Direzione nazionale antimafia. Non ci sono i tempi.

Le opposizioni propongono candidati eccellenti alla presidenza della Commissione antimafia. Ma a destra non sanno che nomi fare

In occasione delle ultime amministrative del 2022 l’allora Commissione Antimafia (presieduta dall’ex 5Stelle Nicola Morra) individuò ben 18 “impresentabili” (c’era anche un candidato sindaco) nell’ambito dei 57 Comuni chiamati al voto. Tra i reati loro contestati, vi erano anche estorsione, riciclaggio, corruzione e concussione, aggravati in alcuni casi dalla finalità mafiosa. Quest’anno per i furbi sarà molto più facile. I presidenti di Camera e Senato (Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa) solo due giorni fa hanno fatto sapere di non avere ricevuto l’elenco dei componenti da parte di tutti i partiti. A quel punto i 50 membri dovrebbero votare la presidenza ma anche su quella tutto è ancora fermo.

FdI (che reclama il posto) aveva pensato a Carolina Varchi, avvocata penalista di 40 anni, alla seconda legislatura in Parlamento e vicesindaca di Palermo. La vicinanza con la giunta di Lagalla e quindi con Cuffaro e Dell’Utri ha bloccato l’idea per evitare polemiche e strumentalizzazioni. Tra i fedelissimi di Meloni si è fatto il nome di Raoul Russo, deputato siciliano alla prima legislatura e la deputata Chiara Colosimo a cui Meloni aveva già pensato per la presidenza della Regione Lazio. Sul nome di Colosimo però anche la Lega ha avanzato delle riserve, per mancanza di esperienza in tema di criminalità organizzata.

È evidente che, mentre nell’opposizione spiccano i nomi di esperti sul tema (dall’avvocata e senatrice Pd Enza Rando che proviene da Libera all’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho deputato M5S fino al collega Roberto Scarpinato ex procuratore di Palermo), nella maggioranza si fatica a trovare competenze. Basterebbe già questo per capire come la lotta alla mafia da quelle parti sia più declamata che praticata. Proprio il 5S De Raho nei giorni scorsi aveva suggerito il nome della berlusconiana Rita Dalla Chiesa “il cui nome di per sé e di importanza storica, direi anche strategica”, aveva spiegato De Raho. Dalla Chiesa ha declinato.

L’Antimafia è una commissione fantasma. Intorno a lei piovono i miliardi del Pnrr, c’è il nuovo codice degli appalti voluto da Salvini che a detta di molti osservatori allarga le maglie alla criminalità organizzata. Volendo vedere ci sarebbe da capirne di più sulla latitanza di Matteo Messina Denaro, comodamente latitante a pochi metri da casa sua. Ci sarebbe anche un boss della mafia, garganica, Marco Raduano, comodamente evaso dal carcere di Nuoro.

Ci sono le intercettazioni sotto attacco. C’è il “caso” Giletti che no, non è solo una questione televisiva. C’è una relazione semestrale della Dia che conferma lo strapotere della ‘Ndrangheta. Volendo vedere ci sarebbe anche la commissione sul ciclo dei rifiuti (che con le mafie ha molto a che fare) che ad oggi non è ancora insediata. Molti indizi, chissà se fanno un prova.

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Per Giorgia è facile mentire se i giornali se la bevono

No, il taglio del cuneo fiscale del governo Meloni non è il “più importante degli ultimi decenni”, come la presidente del Consiglio afferma nel distopico video girato nelle stanze di Palazzo Chigi con la ciurma di ministri in posa per il finale a effetto del filmato.

La presidente del Consiglio Meloni ha mentito agli italiani in un video girato e montato con soldi pubblici

L’era della post-verità, la chiamavano così gli studiosi e gli intellettuali che da anni ci allertano. Qualcuno fruga tra i cassonetti dei complottisti per farne macchiette ma i professionisti della post-verità sono lì, al governo. In quel video la presidente del Consiglio spiega che l’esecutivo userà un “tesoretto di 4 miliardi di euro” per finanziare il “più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni”.

I 3 o 4 miliardi di euro stanziati dal governo Meloni nel decreto Lavoro sono ben distanti dai 7 miliardi stanziati dal governo Draghi nella legge di bilancio del 2022 per ridurre l’Irpef, a cui va aggiunto il miliardo per l’Irap i quasi due miliardi per ridurre i contributi previdenziali. Il “più importante taglio fiscale degli ultimi decenni” è di molto inferiore agli oltre 9 miliardi del cosiddetto “bonus 80 euro” con cui il governo Renzi intervenne sulle buste paga.

Giorgia Meloni ha mentito. La presidente del Consiglio ha mentito agli italiani in un video girato e montato con soldi pubblici, nelle stanze di uno dei più importanti palazzi della nostra Repubblica, utilizzando i canali di Stato. Ha potuto farlo perché si è sottratta alla conferenza stampa in cui qualsiasi giornalista avrebbe potuto facilmente sbugiardarla con un paio di numeri in mano. L’ha fatto confidando nell’eco delle sue parole con l’aiuto di infervorati giornalisti più commilitoni che giornalisti.

Come pensa Meloni di farla franca mentendo sapendo di mentire? Tra i molti fattori ce n’è uno che ci interessa da vicino: la stampa non è più un argine, non è ritenuta un vigile credibile. La bugia di Giorgia dice di noi, oltre che di lei, perché il tessuto sociale, informativo e culturale di questo Paese è permeabile ormai a qualsiasi menzogna. Non conta la veridicità di ciò che si afferma, basta la potenza del messaggio.

Con il giusto armamentario si può far credere vera qualsiasi cosa. Diceva Mark Twain che non bisogna avere paura di ciò che non si conosce ma bisogna temere ciò che crediamo vero e invece non lo è. Eccoci qua.

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Cosa ha detto Saviano

Che non passi sotto traccia la vittoria in tribunale dello scrittore Roberto Saviano contro il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Nel 2018 lo scrittore aveva scritto su Twitter: «Sangiuliano direttore del Tg2! Peggio non si poteva. Vicedirettore del Tg1 con Berlusconi, galoppino di Mario Landolfi, Italo Bocchino, Nicola Cosentino, Amedeo Laboccetta. E ora la promozione: con il governo del cambiamento (ovvero giallo-verde, ndr), al sud, la società incivile non perde posizioni, anzi». Poi aveva rilanciato sul suo account Facebook: «Tutto questo è ammissibile solo in un’ottica di spartizione, non certo di alleanza, né di applicazione del contratto di governo. Solo in una spartizione si può giungere a un tale livello di cinismo. E adesso Sangiuliano diventa addirittura direttore del Tg2, direttore in quota Lega. E a chi dice che la Lega non è più antimeridionale rispondo: ma non vedete come, con l’avallo del M5S, continua la triste tradizione di valorizzare il peggio della cultura, della politica».

Sangiuliano ha deciso di querelare. E ha perso. Ha perso perché in effetti l’attuale ministro della Cultura è politicamente vicino all’ex sottosegretario del governo Berlusconi da poco condannato in via definitiva per essere stato il punto di riferimento politico del clan del Casalesi. Sangiuliano ha perso perché da direttore del Tg2 ha querelato uno scrittore lamentando danni alla sua carriera e nel frattempo la sua carriera l’ha portato a capo di un ministero. Ha perso perché in questo Paese – per fortuna – ci si può ancora permettere di collegare le persone, i fatti, le provenienze culturali e politiche. Sangiuliano ha perso perché spesso tocca agli scrittori, agli intellettuali o agli attivisti svolgere il ruolo che dovrebbe essere dei giornalisti.

Per un gioco di tempi e ricorrenze Sangiuliano ora deve fare i conti con una vicenda che risale a cinque anni fa e cinque anni dopo ci ricorda le provenienze dei membri di questo governo. Mentre la commissione Antimafia rimane in stallo le sentenze parlano. Come dice giustamente Saviano «Giorgia Meloni – non è un dettaglio, anche se oggi passa sotto silenzio – è stata ministra della Gioventù nel 2008, nello stesso governo e nella stessa coalizione di Nicola Cosentino, condannato in via definitiva a 10 anni di carcere». L’ex sottosegretario che adesso è nel carcere di Rebibbia. «Giorgia Meloni non ha nulla da dire al riguardo?»

Giorgia Meloni non risponderà. E non querelerà nemmeno.

Buon mercoledì.

Il ritratto di Saviano è tratta dal sito del festival Trame, contro le mafie. Tutti gli eventi del Festival si possono seguire sui www.tramefestival.it (dove è possibile trovare anche tutte le edizioni precedenti

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L’antimafiocromia

Mentre decine di giornali e commentatori si lambiccano su discussioni puerili si avvicina a gran falcate quel periodo dell’anno in cui Falcone e Borsellino tornano gadget da esposizione morale. Mentre l’anno scorso la memoria di Falcone e Borsellino è stata onorata con il ritorno di grancassa di Dell’Utri e Cuffaro sul palcoscenico politico siciliano. Quest’anno potremmo riuscire a fare una figura peggiore: arrivare al 23 maggio senza Commissione antimafia insediata.

Di sicuro per le prossime elezioni amministrative nessun candidato passerà al vaglio di una Commissione antimafia inesistente. Ma questo è il meno. Non avere trovato il tempo di insediare la Commissione antimafia mentre c’è stato il tempo di dedicarsi alla vernice degli attivisti e ai rave party è un pericoloso segnale culturale: le mafie sono un’emergenza che viene molto dopo nella scala delle priorità dello Stato.

Potrebbe andare peggio. Il nome che circola alla Camera e al Senato per la presidenza della Commissione antimafia (che per ora non c’è) è quello di Carolina Varchi, vicesindaca a Palermo di Roberto Lagalla fortissimamente voluto da Dell’Utri e Cuffaro. “La vicesindaca è stata eletta in una giunta che ha dietro i voti di Cuffaro e Dell’Utri, non so quanta attenzione vera si abbia alla lotta alle mafie”, ha fatto notare la senatrice Enza Rando, che di antimafia ne mastica parecchia essendo una dei pilastri di Libera oltre che responsabile antimafia del Partito democratico.

Poiché la presidenza spetterebbe al partito di Giorgia Meloni dalle parti di Fratelli d’Italia hanno frugato per trovare qualche altro nome. Si dice che abbiano pensato alla deputata Chiara Colosimo, vicinissima alla presidente del Consiglio, che di mafie e antimafie non ha nessuna esperienza. Che non ci siano parlamentari ferrati sul tema tra i parlamentari della maggioranza indica quanto l’antimafia sia declamata ma poco praticata.

Lo stallo continua. Così da fuori possiamo ammirare una legislatura con i sacchi pieni di soldi del Pnrr che ritarda la Commissione che dovrebbe tenere d’occhio l’infiltrazione mafiosa. A volte le cose sono molto più semplici di quello che sembrano.

Buon martedì.

Nella foto: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, 27 marzo 1992 Palermo (autore Giuseppe Gerbasi)

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Gli insozzatori del Primo maggio

Ogni mattina dalle parti del governo si alzano dal letto con la preoccupazione di insozzare un diritto, una festa dei diritti, una commemorazione. Non è solo una questione di diverse visioni politiche. È un trafelato arrancare per imporre un’egemonia culturale solo che non avendo nessuna cultura le energie sono rivolte a deturpare quelle degli altri.
Per il Primo maggio Giorgia Meloni, spalleggiata da Matteo Salvini, ha pensato che inscenare un Consiglio dei ministri fosse il modo migliore per disconoscere la festa.

Dopo il 1945 si tornò a festeggiare il Primo maggio poiché prima si rischiava l’arresto. Ora l’imperativo è insozzarlo.

La presidente del Consiglio rinuncia alla conferenza stampa. Si rende conto che riunire i ministri il primo maggio per partorire un decreto che allarga le maglie della precarizzazione e incorona l’Italia come Repubblica fondata sullo sfruttamento è troppo anche per lei. Che si fottano i giornalisti che stavano lavorando (appunto) in attesa delle parole della premier, che si fotta anche la ministra Calderone che sarebbe scesa in conferenza stampa ma è stata fermata da Palazzo Chigi.

Se non c’è dignità nel lavoro per loro la soluzione è legittimare il lavoro dalle condizioni indegne

Giorgia Meloni illustra il decreto lavoro con un video che fa rimpiangere perfino la Venere della Santanché. Almeno quella non abbozzava propaganda per giustificare la sua inutilità. Rilanciano sul taglio del cuneo fiscale (per auliche mese) rivendendo ai lavoratori la grande vittoria di avere guadagnato (forse) una pizza in più. Hanno compresso le risorse per la povertà, demolendo il Reddito di cittadinanza senza una reale alternativa, e hanno nobilitato il lavoro precario e sfruttante. Se non c’è dignità nel lavoro per loro la soluzione è legittimare il lavoro dalle condizioni indegne.

Dopo il 1945 si tornò a festeggiare il primo maggio poiché prima si rischiava l’arresto. Ora l’imperativo è insozzarlo. Giorgia Meloni prende a schiaffi i lavoratori nel giorno della Festa del lavoro. Ora vedrete che ai lavoratori, dopo gli stipendi da fame, dopo i diritti perduti, dopo le accuse di sfaticare quando non accettano di diventare schiavi, ora ai lavoratori chiederanno di porgere anche l’altra guancia.

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Quest’ultimo Primo maggio

Racconteremo questo ultimo Primo maggio come quello in cui il governo si è schiantato contro i sindacati, mica il contrario. Con un po’ di memoria potremo anche ricordarci che l’attacco ai sindacati come posizionamento politico è una pratica che negli ultimi anni è stata adottata anche da presunti leader di presunta centrosinistra. Non è roba nuova. Giorgia Meloni e compagnia semplicemente ci ha aggiunto quella punta di vittimismo che è l’additivo che non manca mai del suo fare politica, caratteristica fondante dell’azione di questo governo che mostra nemici dappertutto per farsi perdonare degli errori che sa già di compiere in futuro.

Racconteremo questo ultimo Primo maggio come l’ennesimo in cui una fetta della stampa (anche quella che si autodefinisce progressista) si è strizzata tutto l’anno per raccogliere le lagne id imprenditori che invocano il mercato quando guadagnano e accusano la politica quando non sono capaci di stare sul mercato. Un movimento nazionale che inorridisce di fronte a gente che rivendica i diritti e rifiuta salari da fame. Ristoratori, imprenditori, bacchette televisive che scorrazzano sui media invocando il dovere alla “fatica” e allo sfruttamento almeno con i giovani. Non è roba nuova. Con un po’ di memoria potremo anche ricordarci che il dovere alla fatica dei giovani come posizionamento politico è una pratica che negli ultimi anni è stata. adottata anche da presunti leader di presunta centrosinistra.

Racconteremo questo ultimo Primo maggio per un governo che vorrebbe spedire i giovani a lavorare nei campi in nome della difesa della Patria e non è riuscito a convincere i suoi parlamentari di maggioranza a rinunciare al ponte delle vacanze, andando sotto in Parlamento. È un contrappasso violento che squarcia l’ipocrisia di gente che non ha mai lavorato e che discetta di lavoro. Gente che lavora il Primo maggio per martellare il lavoro come ha fatto finta di essere antifascista il 25 aprile per logorare i suoi alleati. Una mendacia continua, sottopelle, che vorrebbe normalizzarsi per comparire.

Buon Primo maggio ai professionisti, invece. Coloro che professano i propri valori nel proprio mestiere.

Buon lunedì.

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Trent’anni dopo l’Hotel Raphaël. Il revisionismo su Craxi è servito

Oggi sono trent’anni dal giorno simbolo della fine della Prima Repubblica. Il 30 aprile del 1993 il segretario del Psi, Bettino Craxi, usciva dall’hotel Raphaël, l’albergo dove abitava a Roma. Raccontano che il segretario socialista scelse di uscire dall’entrata principale nonostante le voci di chi gli consigliava la fuga dal retro per evitare i contestatori. Sul suo sguardo “pieno di dignità” di fronte al lancio di monete e alle urla dei manifestanti è nato un nuovo genere letterario: il capovolgimento del racconto su Mani Pulite.

Sono passati 30 anni dal lancio delle monetine all’Hotel Raphaël di Roma contro l’allora segretario del Psi, Bettino Craxi

Gli eccipienti sono sempre gli stessi, quelli del garantismo che invece è vocazione all’impunità, dove il potente merita di essere difeso per non disperdere i rivoli del suo potere. È una pratica che qui da noi funziona dal tempo dei tempi. Non è un caso che a pochi giorni dalla condanna definitiva per questioni di camorra di un ex sottosegretario di Silvio Berlusconi (Nicola Cosentino) le riflessioni languono. Non è un caso che della presunta foto nelle tasche di Baiardo con Berlusconi, il generale Delfino e il latitante mafioso Graviano si parli solo per lucrare un po’ di gossip su Massimo Giletti e la sua trasmissione televisiva.

Criminalizzare Di Pietro & C. e assolvere i corrotti. Prosegue la corsa a riscrivere la storia di Mani Pulite

Sulla memoria di Mani Pulite si misura la capacità del potere di sermonare memoria breve e finta, ci si esercita sull’imposizione della narrazione distante dai fatti, ci si compiace per essere riusciti a tenere botta a un crollo come fu Tangentopoli. Trent’anni dopo in Italia – lo possiamo già scrivere prevedendo il futuro – le monetine contro Craxi diventeranno nelle prossime ore pensosi e sentiti editoriali contro Antonio Di Pietro, contro la magistratura e contro la “ferocia” umana. Passerà in secondo piano il fatto che lo sdegno contro Bettino Craxi fosse figlio delle quattro autorizzazioni (su sei) a procedere per corruzione e ricettazione che la magistratura aveva richiesto contro di lui alla Camera dei Deputati.

Ci si dimenticherà di dire che il filone di indagine su Craxi fosse uno dei più importanti di Mani Pulite, scaturito dall’arresto alcuni mesi prima di un altro dirigente socialista, Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, un istituto di assistenza agli anziani. “Solo un mariolo”, scrissero gli stessi sacerdoti dell’impunità che non sbagliano mai quando c’è da sminuire un sistema criminale. Ci si dimenticherà il titolo di Repubblica di quel 30 aprile, “Vergogna, assolto Craxi”, e l’editoriale del direttore Eugenio Scalfari che scrisse: ”Dopo l’uccisione di Aldo Moro, è il giorno più grave della storia repubblicana”.

I soloni dell’impunità mascherati da garantisti scatenati per capovolgere la storia

Non mancheranno, stiamone certi, le penne che ci spiegheranno come lì, fuori da quell’hotel romano, cominciò il populismo. Non si renderanno nemmeno conto trent’anni dopo di cascare nell’imbeccata di Filippo Facci, giornalista all’epoca vicinissimo a Craxi – sì, proprio lui – che si spremette per raccontare che quella piazzetta era solo “un buco” e che la folla che si trova lì, scrive Facci, “nell’insieme fu più che sufficiente per far scrivere a tutti che quella era l’Italia”. Poi sentiremo che la fuga del leader socialista non era una latitanza ma “una ribellione” (cit. Stefania Craxi”), che i magistrati furono “assassini della democrazia” e tutto il resto. Infine concluderanno la commemorazione dicendoci che da lì iniziò la Seconda Repubblica.

Che la Seconda Repubblica fosse Silvio Berlusconi e un sistema corrotto e corruttivo identico alla Prima lo ometteranno. Perché in fondo la difesa di Craxi funziona perfettamente anche su Silvio Berlusconi. Solo che intanto gli italiani non hanno in tasca nemmeno più le monete da lanciare.

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Migranti e questione Tunisia: se anche l’Italia non è un porto sicuro

Nemmeno l’Italia è un porto sicuro. Il principale tribunale amministrativo olandese ha stabilito mercoledì che le locali autorità per l’immigrazione non possono permettersi di rispedire migranti in Italia. La causa riguardava due uomini, un nigeriano e un migrante che afferma di provenire dall’Eritrea. Per le regole dell’Unione europea – l’hanno capito quasi tutti, tranne qualche ministro – i due avrebbero dovuto presentare domanda di asilo nel Paese in cui sono sbarcati. L’Italia, appunto. Il nigeriano ha raccontato di avere presentato la domanda per tre volte, l’altro ha confessato di avere provato subito a entrare in Europa.

Non soddisfiamo i bisogni: alloggio, cibo e acqua corrente

Dice il tribunale olandese che poiché il governo italiano ha affermato di voler sospendere la possibilità di presentare domande d’asilo per mancanza di strutture di accoglienza non esistono i requisiti minimi perché venga rispettato un diritto sancito dai trattati internazionali. Non è un’osservazione da poco. «Al momento i richiedenti asilo in Italia rischiano di trovarsi in una situazione in cui non sono soddisfatti i loro bisogni primari più importanti, come l’alloggio, il cibo e l’acqua corrente», ha detto il Consiglio di Stato, che ha dunque concluso che i due richiedenti non possano essere trasferiti in territorio italiano.

Migranti, protezione speciale: cos'è e come funziona il permesso di soggiorno che il Governo Meloni vuole cancellare.
Migranti, sbarco a Catania. (Getty Images)

I Paesi di frontiera sono spinti a violare le leggi

I meccanismi stabiliti dal Regolamento di Dublino sottintendono che il Paese di sbarco che deve farsi carico dell’identificazione dei migranti e della valutazione della loro regolarizzazione abbia gli strumenti e la volontà di prendersi questa responsabilità. Nel traballante meccanismo di solidarietà europea questo non accade. Accade di peggio: i Paesi di frontiera spesso sono spinti (e lautamente pagati) per riuscire nel modo più compìto possibile a violare le leggi. Appaltare le frontiere a Stati che abbiano lo stomaco di respingere fregandosene del diritto e dei diritti è una pratica europea da anni, nonostante la strategia non compaia in nessun documento ufficiale.

Migranti, protezione speciale: cos'è e come funziona il permesso di soggiorno che il Governo Meloni vuole cancellare.
Migranti pronti a sbarcare in Italia. (Getty Images)

La redistribuzione rimane sempre promessa inevasa

La sentenza olandese però ha una valenza politica e umanitaria. La politica, innanzitutto: dal punto di vista del rispetto dei diritti umani l’Europa (Italia compresa) è un reticolo di illegalità che vorrebbe trovare una sintesi che stia dentro le regole che l’Europa stessa s’è data. Il tilt europeo è nella decisione del tribunale olandese che crea evidenti problemi al suo governo («questo non aiuta», ha commentato il ministro dell’Immigrazione olandese Eric van der Burg, spiegando che le conseguenze della sentenza potrebbe peggiorare i problemi già esistenti nei centri di accoglienza olandesi), il tilt europeo è nella Francia che aggiunge poliziotti al confine con l’Italia (senza maggioranza in parlamento per fare passare il “pacchetto immigrazione” che vorrebbe il presidente Emmanuel Macron) o nella ridistribuzione dei migranti che rimane sempre promessa inevasa. Uno stallo a Bruxelles causato soprattutto dalla mancanza di coraggio di chi, come l’Italia, dovrebbe dire ai suoi amici sovranisti di smetterla di gigioneggiare sulla difesa dei confini e di cominciare a progettare una reale solidarietà europea che difende i confini di più e meglio.

Meloni: «Con Berlusconi qualche incomprensione». Le dichiarazioni della premier nel nuovo libro di Bruno Vespa.
Emmanuel Macron. (Getty Images)

Occhio, perché presto la Tunisia diventerà una nuova Libia

Anche perché nei prossimi mesi accadrà – segnatevelo – una prevedibile novità e tutti si fingeranno impreparati. Qualche tribunale o qualche organizzazione scriverà nero su bianco che la Tunisia con cui l’Italia si sta affannando per trovare accordi non è un porto sicuro e non è un Paese di origine sicuro. Ci si accorgerà che diverse organizzazioni tunisine e internazionali per la tutela dei diritti umani hanno espresso preoccupazione per «l’indebolimento dell’indipendenza della magistratura, gli arresti di critici e oppositori politici, i processi militari contro i civili, la continua repressione della libertà di espressione e le minacce contro la società civile».

Referendum in Tunisia: passa la Costituzione autoritaria di Saied
Kais Saied. (Getty Images).

Si dovrà fare i conti con l’atteggiamento discriminatorio contro i migranti provenienti dall’Africa subsahariana e le persone nere (andatevi a riascoltare il discorso pronunciato dal presidente tunisino Kais Saied il 21 febbraio). Sarà una nuova Libia. E ancora una volta l’Italia dirà che sì, che è vero che ci sono episodi di violenza, ma che ormai l’accordo con la Tunisia è imprescindibile e non possiamo permetterci di farne a meno. Nemmeno l’Italia è un porto sicuro, vedendo come sceglie i suoi partner.

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Piccolotti: “Un governo disastroso che inventa false emergenze e non vede quelle vere”

Elisabetta Piccolotti (Alleanza Verdi-Sinistra), non era mai accaduto che il governo andasse sotto sullo scostamento di bilancio. La maggioranza parla di “uno scivolone”. È solo una svista o è un indicatore politico?
“Di certo c’è che siamo di fronte ad un pasticcio senza precedenti. E la cosa è tanto più pesante perché arriva da chi ha costruito la sua campagna elettorale e la retorica che ha seguito i risultati elettorali attorno alla parola d’ordine del “Siamo Pronti”. Pensate cosa sarebbe successo se non lo fossero stati. Battute a parte mi pare che se la caduta sullo scostamento rientra probabilmente nella categoria degli incidenti (con annessa figuraccia galattica), le tensioni nella maggioranza contribuiscano ad una certa confusione nella gestione dei passaggi parlamentari”.

Come vede la situazione di Forza Italia
“Forza Italia è di fronte alla fine del suo ciclo politico. Non è stata un partito personale, ma un partito persona. La fine del ciclo di Silvio Berlusconi è più di una discontinuità. E a questo si aggiunge, cosa ancor più rilevante, la crisi strutturale di uno spazio politico, quello del mitico centro. Il centro non esiste più perché ne è stato eroso il blocco sociale. La destra, non solo in Italia, è sempre più di destra ed è su questo punto e dunque sul destino di quel che resta di Forza Italia che si gioca lo scontro interno che la attraversa. Di certo quella vicenda politica, con quella forma e con quelle caratteristiche mi pare in via di esaurimento. Cosa ne sarà è difficile dirlo”.

Appare evidente che le fibrillazioni nella maggioranza siano una costante sin dall’insediamento. Secondo lei Salvini continuerà nei tentativi di erosione nei confronti di Giorgia Meloni?
“Salvini ha un disperato bisogno di recuperare centralità negli assetti di governo e di maggioranza. E l’unico modo che conosce per cercare di raggiungere questo obbiettivo è quello di agitare bandiere e di segnare punti di differenziazione dalla Presidente. Fino a quando durerà e quale sarà il grado di intensità di questa guerra a bassa intensità è difficile dirlo. Certamente le elezioni europee segneranno uno spartiacque, non solo nella coalizione di governo ma in tutto il quadro politico del Paese. Attenzione però a pensare che da quella parte arrivino regali inattesi. Sui fondamentali le convergenze sono molto più numerose delle divergenze. La verità è che tocca a noi, alle opposizioni, lavorare alla costruzione di una alternativa credibile”.

Dai decreti rave al cosiddetto decreto Cutro il governo sembra essersi occupato di emergenze quasi giornaliere (vignette incluse). Concretamente come giudica questi primi mesi?
“Questo Governo non vede le vere emergenze del paese ma ne inventa tante, una dietro l’altra, tutte pretestuose come i rave o figlie dell’incapacità di gestire processi strutturali come l’immigrazione. In generale il Governo non vede gli effetti dell’inflazione, la discesa della qualità della vita, la devastazione in corso in servizi pubblici come quello sanitario, eppure anche se ad occhi chiusi rispetto alla realtà però trova sempre e comunque il modo di additare qualcuno, dai ragazzi dei rave ai partigiani cattivi, di costruire nemici e paure”.

Intanto in Italia la povertà aumenta, lo dicono tutti gli indicatori. A pochi giorni dal primo maggio si intravedono soluzioni per il reddito e il lavoro?
“Non c’è nessuna soluzione tra le carte che tirerà fuori la Premier Meloni. Sappiamo bene cosa accadrà perché si tratta della solita ricetta della destra, che da più di un ventennio propone sempre lo stesso approccio neoliberista al tema del lavoro: meno vincoli, meno tutele, meno welfare. Per la destra il lavoro si crea sciogliendo le briglie della precarietà e della flessibilità. Poteva essere una tesi affascinante qualche decennio fa, oggi invece sappiamo tutti che le misure in preparazione sono le stesse che hanno impedito la crescita dei salari fino ad oggi, anche perché purtroppo per lungo tempo anche il pd e in generale i governi tecnici hanno aderito a questa visione. Bisognerà tornare in piazza quindi, e farlo con proposte di segno opposto: salario minimo, legge contro la precarietà sul modello spagnolo, espansione del reddito di cittadinanza, reintroduzione dell’art.18, nuovi congedi parentali, riduzione dell’orario a parità di lavoro per far fronte ai mutamenti generati da automazione e intelligenza artificiale.. Una vera piattaforma di cambiamento”.

I soldi del Pnrr sono davvero a rischio?
“Ne sono certa. Il rischio è reale perché per molte opere c’è persino una difficoltà a rispondere adeguatamente ai bandi manifestata dal mondo dell’impresa. Nonostante questo con uno sforzo maggiore il rischio di perdere risorse poteva essere ridimensionato e invece il Governo ha fatto la peggiore delle scelte possibili: cambiare la Governance in corsa, sostituire dirigenti e tecnici facendo perdere mesi di lavoro. Davvero un errore imperdonabile a cui credo facciano davvero fatica a rimediare. Certo quella di Meloni che restituisce risorse a Bruxelles perché incapace di spenderle sarebbe davvero un’immagine incredibile, dopo che per tanti anni hanno dipinto l’Europa solo come una sanguisuga”.

Intanto anche l’opposizione sembra andare in ordine sparso. Alle prossime amministrative vediamo alleanze variabili. È possibile immaginare una ritrovata compattezza Se si, tra chi? E con il M5S?
“Non solo è possibile, ma è necessario se si vuol salvare il paese dalle sabbie mobili in cui è stato infilato. Non c’è alcun dubbio che si debba partire da una tessitura programmatica capace di portare aria nuova, dal coraggio di frequentare le stesse piazze e mettere in comune storie e riflessioni. Siamo ancora lontani da questo purtroppo, anche perchè sia il Pd che i 5S coltivano delle ambizioni maggioritarie e trasversaliste che spesso possono essere un ostacolo sulla strada delle alleanze. Ma non c’è dubbio che il nucleo dell’alleanza per sfidare la Meloni sono Pd, M5S e noi di Alleanza Verdi-Sinistra. Sono certa che ci riusciremo. La risoluzione unitaria al Def è già un primo passo positivo”.

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